“Se la plastica fosse un Paese, sarebbe il quinto più grande emettitore di gas serra al mondo, dopo Cina, Stati Uniti, India e Russia”. È il risultato del report The New Coal (Il nuovo carbone) che ha analizzato l’impronta carbonica delle industrie statunitensi della plastica, pronta a superare quella delle centrali a carbone.
Con il phase down (uscita lenta), annunciato alla Cop26 di Glasgow, del carbone come fonte di energia, il report realizzato da material research in collaborazione con Bennington College spiega come le industrie fossili abbiano individuato nella produzione della plastica l’ultima opportunità, una sorta di piano B per continuare il loro cosiddetto business as usual.
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Il boom dell’industria petrolchimica per la produzione di plastica
Secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA), le sostanze petrolchimiche (derivanti dalla lavorazione di combustibili fossili), utilizzate per produrre le plastiche, rappresenteranno più di un terzo della crescita della domanda di petrolio entro il 2030 e la metà entro il 2050. La domanda – cioè il driver chiave per i prodotti petrolchimici dal punto di vista energetico – ha superato tutti gli altri materiali sfusi (come acciaio, alluminio o cemento) raddoppiandoli dal 2000.
“Inoltre, dopo decenni di stagnazione e declino, gli Stati Uniti sono tornati ad essere un luogo economicamente conveniente per aziende petrolchimiche– scrive Judith Enck, presidente di Beyond Plastics – ospitando circa il 40% della produzione petrolchimica di etano nel mondo”.
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Le varie Cop (Conferenze delle Parti), inclusa quella di Glasgow, e i dibatti sulla crisi climatica internazionale raramente menzionano l’impronta carbonica dell’industria della plastica in tutto il suo ciclo di vita. È entrata nell’immaginario collettivo come materiale pericoloso e inquinante per fiumi, oceani e biodiversità, ma poca attenzione si pone sulle varie fasi di produzione, trasporto e smaltimento delle materie plastiche.
Solo negli Stati Uniti, afferma il report, più di 130 impianti produttivi di plastica comunicano le loro emissioni all’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente (EPA) fornendo una cifra che si aggira intorno a un equivalente di 114 milioni di tonnellate di anidride carbonica emesse all’anno. Emissioni pari a 57 centrali elettriche a carbone di taglia media (500 megawatt).
Dal 2019 almeno 42 stabilimenti di plastica sono in costruzione, o sono in processo di autorizzazione. Se diventassero completamente operativi, questi nuovi impianti potrebbero rilasciare ulteriori 55 milioni di tonnellate di CO2, l’equivalente di altre 27 centrali elettriche a carbone da 500 megawatt. “L’industria delle plastiche sta cercando di vendere nuove versioni di vecchie promesse – si legge nel report – come quella del riciclo chimico (o riciclo avanzato) che possiede caratteristiche più in comune con l’incenerimento che con il riciclo. Queste tecnologie non riciclano, in realtà consumano grandi quantità di energia per trasformare la plastica in combustibile”. La combustione di plastica negli Stati Uniti rilascia attualmente circa 15 milioni di tonnellate di gas serra.
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La valutazione incompleta sull’impatto ambientale
L’analisi basata su diversi dati dell’EPA (Environmental Protection Agency), del dipartimento dell’Energia e del dipartimento del Commercio degli Stati Uniti, dice che la filiera è responsabile di un equivalente di almeno 232 milioni di tonnellate di CO2. La ricerca The New Coal mette in evidenza che il calcolo delle emissioni che appaiono sui report delle aziende non è affidabile poiché, oltre a essere incompleto, sottostima le quantità di gas – specialmente metano – rilasciate in atmosfera.
Le conclusioni di questo rapporto si basano su un’analisi di 10 fasi ad alto impatto ambientale durante la produzione, uso e smaltimento delle materie plastiche:
- Fracking per la plastica
- Trasporto e trattamento dei gas di fratturazione
- Cracker a gas etano
- Produzione di materie prime per altre materie plastiche
- Produzione di polimeri e resine
- Esportazioni e importazioni
- Isolamento in plastica espansa
- Riciclaggio chimico
- Incenerimento dei rifiuti urbani
- Plastica nell’acqua
Il fracking è una tecnologia che, attraverso lo sfruttamento della pressione di un fluido e la frattura di uno strato roccioso, viene utilizzata per estrarre il petrolio. I giacimenti di scisto (shale gas) in fase di fracking sono ricchi di etano, metano e altri gas particolarmente utili per la produzione petrolchimica di plastica. Negli Stati Uniti il comparto plastiche consuma più di 1,5 miliardi tonnellate di gas derivato dalla tecnica di fracking all’anno. Il metano estratto per esempio, secondo una recente pubblicazione degli scienziati delle università Cornell e di Standford, ha un tasso di perdita del 2,6% in atmosfera nel momento in cui viene portato in superficie. “Il metano fuoriesce in l’atmosfera da tutte le fasi dell’estrazione, lavorazione e di distribuzione”, ha scritto lo scienziato Robert Howarth della Cornell University.
I protagonisti della produzione di materie plastiche sono gli impianti di cracking dove i gas si surriscaldano fino a quando le molecole si spezzano in nuovi componenti, tra cui etilene. Abbondante e poco costoso, l’etilene consente la produzione di grandi quantità di prodotti in plastica come borse della spesa, cannucce, e altri articoli di consumo usa e getta. Nell’anno 2005 sono stati installati impianti di cracking in 28 sedi con una capacità combinata per produrre 26,6 milioni di tonnellate di etilene all’anno. Almeno 22 stabilimenti sono dedicati alla produzione di plastica.
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Le promesse sul riciclo chimico
Negli Stati Uniti solo l’8,5% della plastica in circolo viene effettivamente riciclata, nonostante l’industria della plastica spenda milioni in pubblicità cercando di convincere la gente che si tratta di un materiale facilmente riciclabile. Il report critica aspramente il riciclo chimico come proposta che mira solo a trasformare i rifiuti in idrocarburi come la nafta (liquido idrocarburico infiammabile) o carburanti.
“A livello di laboratorio, questo tipo di tecniche possono anche funzionare, ma la presenza di contaminanti, le difficoltà con lo smistamento e altri fattori rendono il processo irrealizzabile. In aggiunta a queste problematiche, il consumo energetico necessario per eseguire la procedura è esorbitante”. Sul riciclo chimico ci sono diverse linee di pensiero, ma è sostanzialmente appurato che il riciclo meccanico non sia sufficiente per chiudere il cerchio di quelle plastiche a fine vita, troppo degradate o contaminate. È una tecnologia in evoluzione su cui si devono ancora valutare gli impatti, tuttavia rimane il rischio che le aziende usino il riciclo chimico come pretesto per ricavare carburante – più profittevole – invece che riciclare plastica.
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