L’inseguimento di una continua crescita economica porta sempre alla prosperità di una società? È questa la domanda che l’economista ecologista Tim Jackson si pone nei suoi libri criticando il sistema capitalista per essersi dimenticato di alcuni valori umani fondamentali, senza i quali una società non può definirsi davvero prospera. La sua ultima pubblicazione, Post growth, Life After Capitalism, scritta in parte durante la pandemia, dimostra come i valori di un’economia basata sulla crescita stiano affondando. In questa intervista a Economia Circolare.com, che arricchisce le rifessioni del nostro magazine sul dogma della crescita economica, Jackson riflette sui valori di un modello economico, e delle sue istituzioni, che deve tornare ad occuparsi del benessere delle persone.
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Professor Jackson, cosa ci sta insegnando la pandemia e, citando il suo ultimo libro, come si immagina la vita dopo il capitalismo?
In un breve arco di tempo siamo praticamente entrati nel mondo della “post crescita”, fuori dalla normale struttura del capitalismo che si è in parte smantellata dall’inizio del 2020. È cambiato tutto molto velocemente perché improvvisamente è diventata la salute, al posto della ricchezza, l’unica cosa a contare veramente. La salute è la prima ricchezza, senza salute non c’è vita. Quando ero nella commissione economica UK abbiamo studiato a fondo cosa volesse significare prosperità, soprattutto per le persone ordinarie. Nella loro lista la salute è quasi sempre al primo posto. Durante la pandemia abbiamo iniziato ad assumere una prospettiva diversa, che solo pochi mesi prima sembrava impensabile.
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E quale sarebbe questa prospettiva?
Ci è stata data l’opportunità di capire cosa si provi a vivere in un’era post-capitalista. E una parte di questa vita ci è sembrata spaventosa: la mancanza di libertà a livello sociale ed individuale, il rischio della nostra vita in termine di salute e le ansie che ci ha portato la pandemia. Ovviamente non aspiriamo a queste cose in una vita dopo il capitalismo, tuttavia abbiamo scoperto nuove forze in noi stessi, nuove relazioni tra le persone. Abbiamo esplorato nuovi modi di stare al mondo, abbiamo finalmente realizzato che viviamo in un mondo frenetico e consumistico. Diversi indagini ci mostrano che le persone durante i vari lockdown hanno iniziato ad apprezzare un’aria pulita, il passare più tempo in natura o con i propri figli.
Il PIL è sempre stato il principale indice per valutare il benessere delle nazioni. Ma nel corso degli anni possiamo dire che questo tipo di misura ha ampliato le disuguaglianze all’interno delle società? Come dovrebbe essere il nuovo indice?
La crescita economia basata sul PIL è sostenuta in economia da ciò che è chiamataa labor productivity growth (La crescita della produttività del lavoro) che è l’efficienza del lavoro tradotto in dollari. L’idea secondo la quale la labor productivity growth dovrebbe crescere sempre di più, rende il lavoro più economico per i produttori e aumenta i loro profitti. Storicamente questa crescita sta declinando dalla metà degli anni ‘60 i cui era attorno al 5/6%. In UK durante la pandemia è andata addirittura sottozero. È un’economia che funziona bene quando produci, estrai risorse; è efficiente nel settore della grande distribuzione e della vendita. Funziona molto meno bene, invece, nei settori dell’assistenza sanitaria e sociale, dell’educazione; in quei luoghi in cui il valore delle persone è al servizio degli altri. In un sistema economico che insegue continuamente una crescita della produttività, l’assistenza sanitaria viene penalizzata; Il costo delle cure aumenta, così come la pressione sugli operatori sanitari mentre i loro salari si abbassano. Questo è accaduto durante la pandemia con le persone che ci hanno salvato la vita. I loro lavoro è stato denigrato per anni con stipendi non competitivi.
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Un’altra lezione della pandemia….
Esattamente. Questo inseguimento verso la crescita del Pil e una feticizzazione verso la produttività hanno penalizzato il lavoro delle persone che si sono dimostrate più importanti, quelle che si sono occupate di offrire assistenza sanitaria. Spesso quando le persone parlano dei problemi della crescita economica fanno riferimento all’impatto materiale sul pianeta: se l’economia cresce, immetti nell’atmosfera più C02, estrai più risorse, butti più plastica negli oceani ecc. Ma allo stesso tempo stiamo compromettendo anche il tessuto sociale delle nostre relazioni perché le professioni che sono valutate di meno in questo sistema sono quelle che poi si rivelano più importanti.
Ha scritto anche che: “Viviamo in una società in cui il lavoro è una forma di schiavitù, l’investire è una specie di casinò in cui scommettiamo e il vincitore prende tutto, e l’efficienza è il motore principale”. Dove, secondo lei, il capitalismo ha fallito?
I due punti più critici sono il lavoro e l’investimento finanziario. Ne ho parlato nel libro citando la filosofa Hanna Arendt perché nel suo pensiero c’è un’interessante distinzione tra forza lavoro (labor) e lavoro (work). La forza lavoro è questa dura fatica che continuamente ci mantiene in vita, e l’assistenza è parte di questo lavoro. Una manutenzione per la sopravvivenza in un certo senso, rappresentata dagli operatori sanitari per esempio, tra le figure lasciate indietro dal capitalismo. Nel lavoro (work), invece, è solo il successo che ci tiene vivi. Ma quando finalmente alziamo gli occhi e vediamo la nostra mortalità, siamo assaliti da un senso di fragilità e insicurezze che ci induce a creare un mondo durevole che compensi la natura temporanea della nostra vita. La costruzione di monumenti che durano millenni, la creazione di opere d’arte che catturano la nostra creatività sono quelle che Hanna Arendt definisce come un’attitudine difensiva contro la paura della morte. Credo che il capitalismo abbia anche distrutto la durabilità del lavoro (work). Il capitalismo ha attaccato la durabilità dei prodotti che usiamo ogni giorno come macchine, smartphone e computer. Spesso questi prodotti vengono pensati proprio in modo che collassino ad un certo punto. Così il mondo del lavoro è diventato un continuo ciclo di consumi, che deve girare sempre più veloce.
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Per quali ragioni questo sistema è dannoso?
Prima di tutto è un sistema dispendioso e sprecone a livello materiale. Se vuoi accelerare il ciclo di consumi ti basta usare ed estrarre sempre più risorse. Il risultato è che ci si perde in questo ciclo infinito di consumo di materiali, assolutamente insostenibile per un pianeta dalle risorse finite. L’altro aspetto riguarda un sistema che ci ha inghiottito in una strana dinamica psicologica nella quale rincorriamo la durabilità delle cose perché siamo spaventati dalla nostra mortalità e non vogliamo affrontarla. E più inseguiamo questa durabilità attraverso il sistema capitalista, più saremo ansiosi nel velocizzare questo ciclo iper-consumistico di cui parlavo.
Lei è un esperto economista ecologico, con una profonda comprensione delle questioni economiche legate al cambiamento climatico. Nel suo libro Material Concern (1996) abbraccia l’approccio dell’economia circolare. Perché implementare un modello di economia circolare è fondamentale per affrontare la crisi climatica. E c’è una parola che le piace menzionare in particolare: Prevenzione. Che significa?
Una volta creato il danno ambientale poi è difficile ripulire tutto. Lo possiamo notare con la minaccia del cambiamento climatico: ci sono modi in cui puoi catturare C02 dall’atmosfera, ma tendono ad essere molto costosi, incerti, coinvolgono tecnologie con punti di criticità e qualche volta possono danneggiare la biodiversità di diversi ecosistemi. La migliore cosa possibile sarebbe prevenire quel danno e da un punto di vista industriale la miglior prevenzione si traduce nel non rilasciare nulla nell’ambiente e chiudere il cerchio dei materiali. Se stai gestendo un processo industriale che rilascia materie prime nell’atmosfera, stai anche sprecando risorse. Ci sono enormi benefici economici nel chiudere il cerchio.
Uno dei mantra dell’economia circolare è “there’s no such thing as waste” (non esistono rifiuti), ma è importante anche ricordare “there’s no such thing as AWAY”. Nel senso che non possiamo buttare via i rifiuti che produciamo perché l’away significa gli oceani e il suolo da cui dipendiamo fortemente.
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A volte si sente dire dai politici che sarebbe egoistico frenare il ritmo della crescita economica perché i Paesi in via di sviluppo hanno bisogno di crescere per affrontare la povertà, la fame, la mancanza di istruzione e di infrastrutture. Come risponde a loro?
Nel mio libro prosperity without growth parlo dei Paesi del nord come coloro che hanno sviluppato un modello di economia basato sulla crescita. Chiamiamo questi Paesi “avanzati” perché producono grandi PIL, ma che allo stesso tempo hanno maggiore impatto sul pianeta. Ho osservato le differenze con il Paesi più poveri, e se si guardano i dati sulla relazione tra il reddito e l’aspettativa di vita; tra reddito e mortalità infantile o l’educazione, si scopre che la principale differenza tra le vite di queste persone sta nel reddito: Se si portasse il loro reddito a 15/20mila dollari pro capite, queste differenze si assottiglierebbero di molto. Le evidenze dicono che c’è un esponenziale aumento dell’aspettativa di vita e riduzione della mortalità infantile quando si raggiunge quel reddito nei Paesi più poveri del mondo. Questo crea un caso morale, secondo me, perché indica il bisogno di creare uno spazio in cui questi Paesi abbiano l’opportunità di migliore le condizioni di vita delle persone. Esiste una responsabilità dei Paesi più ricchi nel cambiare un sistema che non è più sostenibile in un pianeta finito. Di sicuro non dovrebbero imporre ai Paesi in via di sviluppo quella necessità di crescita sfrenata.
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Ha anche scritto che “l’avere di più non è sempre una virtù e la competizione non è l’unica risposta alla lotta”. Sono le sue ricette di una società post-capitalista, ma questi valori si possono adattare alla vera natura umana? Friedrich Nietzsche nel suo concetto di volontà di potenza scrive che esistono aspetti innati nel comportamento umano votati alla competizione e alla dominazione del prossimo. In particolare nelle società occidentali dove c’è questo desiderio di accumulare potere e ricchezza, è possibile cambiare rotta?
Dobbiamo chiederci perché proprio nei Paesi occidentali esista questa volontà di potenza. Credo che la risposta sia perché è così che abbiamo scritto le regole del gioco. Certo che abbiamo un istinto di competitività innato, ma se chiedi ad ogni sociologo, antropologo o scrittore, se un comportamento individualista/egoista esaurisce le emozioni del valore dell’umanità, riderebbe di gusto. Abbiamo fortunatamente anche altri valori come l’altruismo e un desiderio evolutivo nel conservare le nostre tradizioni e i valori del passato. La società occidentale ha individuato nella bella vita una novità nella ricerca di una visione egoistica ed individualista, e facendo così ha costruito istituzioni che incoraggiano competizione e egoismo. Istituzione che minano altri valori umani più importanti.
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