Nelle ultime settimane tra Russia e Stati Uniti sono volate scintille per problemi ad alta, altissima quota: lo scorso 15 novembre, infatti, la Russia ha condotto alcuni test con un’arma satellitare frantumando un satellite in orbita.
Quelli spaziali sono tra i rifiuti più lontani dalla Terra che siano stati prodotti dall’uomo. Lassù, dove solo pochi astronauti – e turisti d’eccezione – sono arrivati, orbitano infatti numerosi rifiuti che mettono in pericolo la costellazione di satelliti ma anche le missioni spaziali e coloro che vivono ed operano nelle basi.
Secondo le stime fornite dal Segretario di Stato americano Antony J. Blinken, a seguito dell’esplosione russa, si sono dispersi in orbita 1.500 detriti che finiranno per moltiplicarsi fino a divenire centinaia di migliaia e, viaggiando a forte velocità nello spazio per decenni, mettono in pericolo tutto ciò che oggi è ospitato nell’orbita terrestre poiché rischiano di arrecare danni alle missioni spaziali e ai cosmonauti.
Per mettere in sicurezza gli astronauti della ISS – la Stazione Spaziale Internazionale -, la NASA ha chiesto loro di ripararsi per alcune ore dentro la capsula Crew Dragon (mentre i russi sono saliti sulla Soyuz) che, in caso di pericolo, avrebbe potuto essere usata come scialuppa di salvataggio per il ritorno sulla Terra.
Per risalire a una così elevata quantità di frammenti spaziali bisogna fare un passo indietro al 2007 quando fu la Cina a lanciare un missile per distruggere un proprio satellite generando, secondo le stime dell’epoca, una nube di 2.300 detriti, alcuni dei quali sono ancora oggi monitorati per i rischi di collisione.
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Che fine fanno i satelliti oggi
Al di là dell’episodio russo e di quello cinese, è da oltre 60 anni che il cosmo deve fare i conti con i rifiuti che l’uomo lascia nello spazio: dai detriti del satellite Vanguard 1, lanciato nel 1958, agli oggetti dispersi dagli astronauti fino ai rifiuti delle missioni che, per anni, sono stati espulsi dalle stazioni spaziali. Per decenni i satelliti non più funzionanti rimanevano semplicemente in orbita: il loro numero, però, complice la colonizzazione spaziale iniziata a metà del secolo scorso, è iniziato a crescere in maniera esponenziale.
Per questo, quantomeno per i nuovi apparecchi cosmici, gli esperti hanno iniziato a lavorare per rendere possibili due alternative ed escluderne quindi l’abbandono. Quelli più vicini al nostro Pianeta che hanno esaurito le loro funzioni e stanno per terminare l’energia, sono destinati a un rientro pilotato nell’atmosfera terrestre che, in parte, li porterà a disintegrarsi a contatto con l’atmosfera terrestre e, per il residuo, a finire in fondo all’Oceano Pacifico, nel cosiddetto punto Nemo,a una distanza dalla terraferma di 2.700 chilometri dove non recheranno danno a cose o persone.
Questa soluzione, però, non può essere attuata in relazione a quei satelliti che sono troppo lontani dal nostro pianeta perché richiederebbe una quantità di carburante troppo elevata e non più stoccata nel veicolo spaziale. In tali casi questi rifiuti cosmici vengono spediti in aree più periferiche dell’orbita, per ora, inutilizzate (domani chissà…) ove non orbitano satelliti attivi, rinviando probabilmente il problema alle future generazioni di esploratori spaziali.
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È possibile catturare i detriti spaziali?
Se, come si stima, saranno migliaia i satelliti che verranno spediti in orbita, prima o poi sarà necessario capire come ridurre i rifiuti che gravitano oggi sopra la volta celeste e che, veloci come proiettili, sono pronti a danneggiare ciò che viene a contatto con loro. A porsi questo problema e a cercare fattivamente una soluzione è attiva anche l’ESA.
A fine 2020 l’Agenzia Spaziale Europea ha infatti annunciato di aver firmato un accordo da 86 milioni di euro con il gruppo industriale svizzero ClearSpace SA che si è impegnato a lanciare nel 2025 la missione ClearSpace-1 il cui scopo innanzitutto è quello di recuperare l’adattatore Vespa lanciato nel 2013. Un altro obiettivo di questa missione è inoltre quello di elaborare nuovi sistemi per poter realizzare rifornimenti e operazioni di manutenzione in orbita dei satelliti, allungando così la loro vita operativa e riducendo il loro impatto ambientale. Secondo Luisa Innocenti, a capo dell’Ufficio Clean Space dell’ESA, tale operato potrà condurre fino “all’assemblaggio, alla produzione e al riciclaggio in orbita”.
Un modo sicuramente efficace per rimettere in circolo risorse, non solo spaziali.
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