lunedì, Dicembre 22, 2025

Rigenerazione, la nuova “R” dell’economia circolare?

C'è vita per l'economia circolare oltre la "gerarchia delle R"? Sì, se si estende l'idea di rigenerazione: non più, o meglio non soltanto la capacità di rigenerare un prodotto o un suo componente, quanto piuttusto la capacità dei sistemi economici di contribuire attivamente alla rinascita e al miglioramento dei sistemi socio-ecologici di cui fanno parte

Vittoria Moccagatta
Vittoria Moccagatta
Classe 1998. Laureata in filosofia all'Università degli Studi di Torino, è dottoranda in Design for Social Change presso l'ISIA Roma Design. È stata ricercatrice per il progetto "Torino città solidale e sostenibile"

Negli ultimi anni il dibattito sulla circolarità ha canonizzato una famiglia di strategie – le cosiddette 10R, di cui 9 operative – che vanno dal rifiutare e ripensare, al ridurre, riusare, riparare, rinnovare, rigenerare componenti, riprogettare usi e riciclare, fino al recupero energetico. Questa tassonomia ha reso più chiara e misurabile la transizione oltre il modello lineare “prendi, produci, getta” (take, make, waste), permettendo di costruire indici di circolarità, linee guida e politiche industriali basate sulle diverse “R”.

Secondo un numero crescente di voci nel dibattito pubblico e scientifico, però, a questo quadro mancherebbe un’ulteriore “R”, quella di “rigenerazione”, intesa non come la capacità di rigenerare un prodotto o un suo componente, ma come la capacità dei sistemi economici di contribuire attivamente alla rinascita e al miglioramento dei sistemi socio-ecologici di cui fanno parte. Per esempio, il Piano d’Azione europeo per l’economia circolare afferma che “l’UE deve accelerare la transizione verso un modello di crescita rigenerativo che restituisca al pianeta più di quanto prende”. Ma come si misurano “restituzione” e “più di quanto si prende”? E, soprattutto, cosa conta come “modello rigenerativo”?

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Il quadro delle 10R (Towards a holistic assessment of circular economy strategies: The 9R circularity index)

Cosa significa “rigenerazione”? Due letture e una sfida concettuale

La fondazione Ellen MacArthur descrive la rigenerazione in tre movimenti, cioè come il passaggio a energia e materiali rinnovabili, il ripristino della salute degli ecosistemi, e la restituzione alla biosfera delle risorse biologiche recuperate. Una volta assorbita nella letteratura sull’economia circolare, questa definizione si è articolata in almeno due principali interpretazioni.

La prima, più vicina alla logica della circolarità, interpreta la rigenerazione come creazione di valore economico da risorse che ne erano prive (i sottoprodotti) tramite upcycling, innovazioni di processo, nuove catene del valore. La seconda interpretazione, invece, è più radicale e considera la rigenerazione come raggiungimento e mantenimento di uno stato in cui il capitale naturale non viene solo preservato, ma attivamente valorizzato e ripristinato.

Qui il riferimento non è tanto al valore economico dei flussi di materia, quanto alla capacità degli ecosistemi di auto-mantenersi e di recuperare funzioni perdute: biodiversità, fertilità del suolo, cicli idrologici, resilienza a shock climatici e sociali. È una visione che si avvicina all’idea di “anelli più puliti” e cicli modellati sui sistemi naturali, in cui l’obiettivo non è solo ridurre i rifiuti ma rafforzare la vitalità degli ecosistemi. Quest’ultimo senso di “rigenerazione” spinge oltre la logica del miglioramento incrementale e del contenimento del danno e, proprio per questo, viene talvolta indicato come “prossima frontiera” della sostenibilità, cioè come una direzione verso cui orientare le trasformazioni più che come uno stato già pienamente realizzato.

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La rigenerazione per le imprese

La rigenerazione viene anche intesa come la capacità delle organizzazioni di lasciare l’ambiente e le comunità locali in condizioni migliori di come li hanno trovati. In questa prospettiva, l’impresa non è più soltanto un soggetto che “gestisce impatti” lungo la catena del valore, ma un attore immerso in relazioni socio-ecologiche, responsabile nel contribuire alla loro resilienza. Per rendere credibile questa ambizione, le strategie che si definiscono rigenerative devono confrontarsi con alcune domande di fondo: che cosa, esattamente, si intende rigenerare? In quale contesto territoriale? Con quali conoscenze – scientifiche, locali, indigene – vengono definite priorità e interventi? E questa rigenerazione riguarda il cuore del modello di business o iniziative marginali?

Da qui discendono due possibili esiti. Da un lato, la rigenerazione può ridursi a parola-ombrello con cui le imprese cercano di differenziarsi senza modificare in profondità i propri assetti. Dall’altro, può diventare un quadro concettuale ambizioso per valutare le strategie aziendali alla luce della cosiddetta “sostenibilità forte”, cioè di un approccio che riconosce l’esistenza di limiti ecologici non negoziabili e richiede di mantenere, e possibilmente accrescere, gli stock di capitale naturale e sociale da cui dipende nel lungo periodo qualsiasi attività economica.

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Le tre prospettive sull’impresa rigenerativa e le loro implicazioni (Emerging Regenerative Business Paradigm: Narrative Review, Synthesis, and Research Agenda)

A livello di pratica, negli ultimi anni diverse grandi imprese hanno iniziato a rispondere a queste domande e a utilizzare il linguaggio della rigenerazione nelle proprie strategie. Danone ha annunciato impegni in materia di agricoltura rigenerativa lungo le proprie catene del valore agricole, con programmi dedicati al suolo, alla biodiversità e alla resilienza dei produttori. Mars ha intrapreso percorsi analoghi nelle proprie filiere agroalimentari, presentando l’agricoltura rigenerativa come leva chiave per coniugare sicurezza delle forniture, reddito degli agricoltori e tutela degli ecosistemi. Microsoft, nel proprio reporting, ha iniziato a parlare di “data center rigenerativi”, collegando la gestione delle infrastrutture digitali a obiettivi di ripristino di habitat, gestione idrica e neutralità (o positività) in termini di carbonio, acqua e biodiversità.

Questi esempi mostrano come il linguaggio rigenerativo stia entrando nel vocabolario delle grandi corporation, soprattutto in settori ad alto impatto ambientale (agroalimentare, ICT, beni di largo consumo). Tuttavia la distanza tra ambizione dichiarata ed evidenze empiriche robuste rimane spesso ampia. I programmi sono talvolta pilota, limitati a porzioni della catena del valore, o fortemente dipendenti da partnership con ONG e attori locali senza che il modello di business complessivo venga messo in discussione. Ciò non significa che nulla di sostanziale stia accadendo.

In diversi contesti emergono esperimenti di rigenerazione place-based, in cui imprese e attori territoriali co-progettano la rigenerazione di ecosistemi degradati; iniziative di supply chain che integrano pratiche agricole rigenerative con orizzonti temporali di medio-lungo periodo; modelli di business che spostano l’attenzione dalla sola vendita di prodotti alla co-gestione di risorse comuni (acqua, suolo, paesaggio). Tuttavia, proprio perché il termine “rigenerazione” è altamente attrattivo, la sfida è distinguere tra cambiamenti trasformativi e semplici rebranding di iniziative di sostenibilità già esistenti.

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Strategie rigenerative: ripristinare, preservare, potenziare

Per evitare che la rigenerazione resti un concetto astratto o superficiale, è utile articolarla in un insieme di strategie che si collocano su una scala che va dal ripristinare al preservare, fino al potenziare la vitalità dei sistemi socio-ecologici.

  • Le strategie di ripristino intervengono su ecosistemi già degradati, spesso proprio a causa di attività economiche passate o presenti. Rientrano in questa categoria i progetti di riforestazione, la bonifica di siti contaminati, il ripristino di zone umide, la rigenerazione di suoli agricoli impoveriti. La sfida qui è duplice: da un lato, ottenere benefici ecologici misurabili nel tempo; dall’altro, evitare che il ripristino sia utilizzato semplicemente come compensazione di impatti negativi che continuano altrove, senza mettere in discussione i modelli di produzione e consumo.
  • Le strategie di preservazione mirano a mantenere lo stato attuale di sistemi ancora relativamente integri, prevenendo ulteriori degradazioni. L’obiettivo principale è evitare di superare soglie critiche di perdita di biodiversità, erosione del suolo, contaminazione delle acque. In ottica rigenerativa, la preservazione non è passività, ma attenzione sistematica alla capacità dei sistemi di rimanere entro condizioni di sicurezza ecologica e sociale.
  • Le strategie di potenziamento rappresentano il livello più esigente: mirano a rafforzare attivamente la resilienza dei sistemi socio-ecologici, aumentando nel tempo la loro capacità di far fronte a shock, pressioni e cambiamenti. Questo richiede di andare oltre la riduzione degli impatti e lavorare sulle relazioni: tra comunità locali e imprese, tra filiere economiche diverse, tra infrastrutture tecniche e processi naturali. Esempi sono i progetti che integrano rigenerazione ecologica, sviluppo comunitario e innovazione economica in un dato territorio, ripensando congiuntamente uso del suolo, pratiche produttive, governance delle risorse.

Assumendo che che il pianeta sia un sistema vivente e che le attività economiche debbano allinearsi alla salute dei sistemi socio-ecologici, queste strategie mettono a fuoco una rigenerazione come parte interna al paradigma dell’economia circolare, una sorta di “quarto ciclo” oltre la riduzione dell’uso di risorse, il prolungamento della vita utile e la gestione dei rifiuti. I framework delle “R” e gli indici di circolarità restano centrali per valutare l’efficienza nell’uso delle risorse e la rigenerazione li completerebbe invitando a progettare prodotti, materiali e sistemi in modo che sostengano non solo la propria circolarità, ma anche la salute dei sistemi naturali che li rendono possibili. In questa prospettiva, la “R mancante” potrebbe essere integrata esplicitamente accanto alle altre, riconoscendo però che non si tratta semplicemente di un’ulteriore opzione gerarchica, bensì di un diverso criterio di successo.

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