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domenica, Dicembre 15, 2024

Termovalorizzatori, la guerra dei dati: ce n’è davvero bisogno in Italia?

Secondo i sostenitori della necessità di nuovi impianti le tonnellate di rifiuti che ancora finiscono in discarica e la distribuzione disomogenea dei ter-movalorizzatori sono emblematici del fabbisogno italiano. Ma non tutti sono d’accordo, e contestano gli studi alla radice

Tiziano Rugi
Tiziano Rugi
Giornalista, collaboratore di EconomiaCircolare.com, si è occupato per anni di cronaca locale per il quotidiano Il Tirreno Ha collaborato con La Repubblica, l’agenzia stampa Adnkronos e la rivista musicale Il Mucchio Selvaggio. Attualmente scrive per il blog minima&moralia, dove si occupa di recensioni di libri. Ha collaborato con la casa editrice il Saggiatore e con Round Robin editrice, per la quale ha scritto il libro "Bergamo anno zero"

“I fatti sono muti, essi parlano solo se c’è qualcuno che ne sa raccontare la storia”, scriveva John Stuart Mill. Lo stesso discorso, sostengono i filosofi della scienza, vale per i dati e le statistiche: parlano soltanto quando li si sappia interrogare, o a seconda di come lo si faccia.

Viene da pensare a questo concetto nel momento in cui si tenta di orientarsi nel mare di numeri utilizzati per capire se l’Italia abbia davvero bisogno di nuovi termovalorizzatori, con posizioni nettamente distanti tra associazioni di settore e ambientaliste, nonostante i dati di partenza sullo smaltimento in discarica e il tasso di raccolta differenziata siano gli stessi.

Cosa dicono i rapporti Fise e l’Antitrust

Partiamo allora dall’analisi dei numeri. In Italia si producono ogni anno circa 30 milioni di tonnellate di rifiuti urbani, di cui 6,3 milioni di tonnellate (dati del 2019), sono smaltiti in discarica. A cui si aggiungono 11,2 milioni di tonnellate di rifiuti speciali non recuperati (il 30 per cento del totale). Secondo Fise Assoambiente, che rappresenta le imprese private nella gestione dei servizi ambientali, questi dati portano a una inevitabile conseguenza. Le discariche italiane sono in sofferenza e la stima è che entro tre anni rischino il collasso.

La riduzione del conferimento in discarica, secondo questi studi, passa dall’impiego dei termovalorizzatori, che attualmente in Italia sono 37 e bruciano circa 6 milioni di tonnellate di rifiuti urbani. L’obiettivo sarebbe ridurre di almeno 3,1 milioni di tonnellate i rifiuti urbani smaltiti in discarica e colmare il deficit di 912mila tonnellate nel trattamento dei rifiuti organici. Per raggiungere il target, in base alle stime, sarebbero necessari almeno 6-7 nuovi termovalorizzatori di media taglia e un investimento complessivo compreso tra 2,2 e 2,5 miliardi di euro.

Anche secondo i calcoli di Francesco Di Maria, professore di ingegneria all’Università di Perugia, il fabbisogno italiano sarebbe di circa 7 impianti. Il docente giunge a questa conclusione facendo un confronto con la Germania: “Ad oggi l’Italia ha una differenza in termini percentuali di rifiuti avviati a recupero di energia rispetto alla Germania di circa il 10 per cento. Rapportato al totale dei rifiuti prodotti nel nostro paese questo equivale a circa 3 milioni di tonnellate all’anno. Considerato che la dimensione economicamente sostenibile per nuovi impianti di incenerimento è una capacità di circa 400mila tonnellate/anno, risulta che l’Italia oggi avrebbe bisogno di circa 7 impianti”, spiega.

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Cosa contesta chi non è d’accordo con le stime

Chi contesta le conclusioni sostiene però che gli studi si fondano su dati alterati da deduzioni ad hoc per sostenere la tesi del deficit impiantistico. Enzo Favoino, dell’associazione ambientalista Zero Waste Europe, che si batte per un mondo “a zero rifiuti”, critica in particolare quelli legati alle discariche.

“Gli studi promossi da Fise Assoambiente o Utilitalia – sostiene Favoino – confrontano le performance dei moderni inceneritori europei con discariche concepite come se fossimo trent’anni fa, in cui manca persino il pre-trattamento dei rifiuti, che minimizza l’impatto ambientale della discarica e lo rende paragonabile all’impatto dei termovalorizzatori”. Due soluzioni, continua il ragionamento Favoino, comunque da evitare, perché l’Unione europea stessa indica la strada da seguire nella direzione del riciclo e della raccolta differenziata.

Di stime fatte su deduzioni fuorvianti parla anche il deputato del Movimento 5 Stelle Alberto Zolezzi, membro della Commissione Ambiente. “Secondo lo scenario da loro delineato, da qui al 2035 la produzione di rifiuti urbani dovrebbe essere invariata – nota Zolezzi – mentre il rallentamento del tasso di crescita della popolazione e il rispetto degli obiettivi di prevenzione, raccolta differenziata e riciclo ne ridurranno l’entità”.

Insomma, concorda Favoino, “non tengono neppure in considerazione che lo scenario sta cambiando. Per fare un esempio – continua il rappresentante di Zero Waste – gli studi continuano a ritenere che ci sarà anche nei prossimi anni un 50 per cento di plastiche difficili da riciclare come se non fosse stata introdotta la Direttiva ‘monouso’ dell’Unione europea”.

Sicuramente è complicato fare delle previsioni che non siano contestabili. Paolo Ghezzi, ingegnere ambientale e docente del Sant’Anna di Pisa elenca quali sono le variabili da tenere in considerazione: “Le oscillazioni del Pil che portano con sé aumenti o riduzioni della produzione dei rifiuti, i tempi istruttori e di realizzazione di impianti così complessi, le politiche di prevenzione nella produzione di rifiuti e il potenziamento della raccolta differenziata e del riciclo, la possibilità di intervenire con maggiore efficienza anche nel recupero di materia dal residuo di rifiuto indifferenziato con le cosiddette fabbriche dei materiali”.

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Per il deputato Alberto Zolezzi i dati di Fise partono da premesse incomplete

Non c’è accordo, però, nemmeno sull’aspetto fondamentale per sviluppare un discorso, ovvero il numero di impianti di cui l’Italia dispone. Per Zolezzi, si tratta di numeri incompleti: “La stessa Fise ammette di non considerare l’eventuale apporto del coincenerimento, pur riconoscendo l’esistenza di altri impianti che potenzialmente possono concorrere alla saturazione del fabbisogno”.

Si tratta di tutti quegli impianti utilizzati per bruciare rifiuti nel contesto delle attività produttive. In Italia, secondo il rapporto di Ispra del 2020, ci sono 13 impianti che effettuano il coincenerimento dei rifiuti urbani. Al coincenerimento presso impianti produttivi (cementifici, produzione energia elettrica e lavorazione legno) sono avviate quasi 367mila tonnellate di rifiuti urbani, ovvero circa l’1 per cento del totale prodotto, a cui si aggiungono 2 milioni di tonnellate di rifiuti speciali.

Per Zolezzi questi numeri andrebbero contati quando si fanno le stime per stabilire il fabbisogno italiano di impianti. “Il quantitativo di rifiuti che potenzialmente possono finire inceneriti è dunque di gran lunga più elevato di quello che si crede. Per tutte queste ragioni – conclude il deputato della Commissione Ambiente – con i dati attuali non si può affermare in maniera incontestabile che ci sia necessità di nuovi termovalorizzatori in Italia”.

Mentre si potrebbe fare di più concentrandosi sull’efficacia di tutti gli impianti che trattano organico ad oggi in funzione. Ghezzi cita uno studio del Sant’Anna di Pisa secondo cui su 45 impianti, con capacità dalle 30mila alle 150mila tonnellate, esiste ancora un 25 per cento di capacità di trattamento che potrebbe essere utilizzata. Per Zolezzi, invece, parte della soluzione verrebbe dal miglioramento delle tecnologie di selezione della frazione secca per facilitare il recupero di materia.

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Al Centro-Sud servono più termovalorizzatori?

 A “complicare” le cose, si inseriscono le norme dell’Unione europea: “Entro quindici anni, i rifiuti riciclati dovranno superare il 65 per cento del totale – spiega Paolo Ghezzi – e solo il 10 per cento dovrà andare in discarica. A parità di produzione, esiste un 25 per cento, e si parla di 8 milioni di tonnellate di rifiuti, per cui sembra necessario trovare una soluzione in tempi rapidi”.

Una posizione condivisa dall’Antitrust, che evidenzia “una situazione di particolare pressione sulla capacità di termovalorizzazione esistente sul territorio” e un “rilevante gap impiantistico, soprattutto nel Centro-Sud del Paese”. È qui, secondo le elaborazioni, che andrebbe destinato il 75 per cento dei nuovi impianti di recupero energetico da aggiungere ai 37 attualmente attivi in Italia e quasi tutti concentrati nel Nord.

In particolare, in base ai calcoli fatti da “The European House-Ambrosetti”, tra le regioni che avrebbero bisogno di nuovi termovalorizzatori, ci sarebbe in primis la Sicilia, con un deficit calcolato in 666mila tonnellate di rifiuti urbani, seguita da Puglia, Lazio, Veneto e Toscana. In quest’ultime regioni, il gap da colmare si posiziona mediamente intorno alle 500mila tonnellate.

“Al nord abbiamo più inceneritori semplicemente perché là ci sono più attività produttive”, sostiene di contro Zolezzi: “Invece di costruire nuovi impianti, che richiedono anni, prima di arrivare a livelli omogenei sul territorio nazionale di raccolta differenziata, le Regioni del Sud possono continuare ad appoggiarsi agli impianti del Nord, che appaiono persino sovradimensionati”.

Una soluzione che, però, a dimostrazione di quanto sia intricata la materia, non convince Paolo Ghezzi: “Non interrompere il flusso di rifiuti dal Sud Italia, carente di impianti, verso il Nord, comporta una perdita di opportunità economiche delle comunità locali e incrementa i costi di smaltimento e delle emissioni inquinanti in atmosfera collegate ai trasporti”, commenta il professore.

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Le differenze tra Nord e Sud per smaltimento in discarica e differenziata

Partendo dal ricorso in discarica, Lombardia ed Emilia-Romagna hanno in media un tasso di conferimento del 5,2 per cento, la Sicilia del 58 per cento, la Puglia il 47,5 per cento. Un divario molto ampio, che porterebbe le Regioni del Sud Italia ad avere un collasso del sistema entro il prossimo anno e mezzo, addirittura sei mesi per quanto riguarda la Sardegna (stime Ambrosetti).

Proprio il caso della Sardegna, però, secondo Favoino è emblematico per capire come si consideri solo un aspetto del problema. La Sardegna, infatti, con il 73,3 per cento, è la seconda Regione italiana per raccolta differenziata, dietro al Veneto e davanti a Trentino-Alto Adige e Lombardia: “Eppure la Sardegna ha pochi inceneritori: uno a Cagliari e uno a Macomer, in Provincia di Nuoro, che è stato bloccato e non viene neppure riattivato”, fa notare Favoino.

Se è vero che altre Regioni del Mezzogiorno come Basilicata, Calabria e Sicilia differenziano meno del 50 per cento dei rifiuti urbani, non è il caso di generalizzare con un Nord virtuoso e un Sud no. La Campania con il 4,5 per cento è la Regione italiana che ricorre meno alle discariche per i rifiuti urbani e le Province di Salerno e Avellino hanno tassi veneti per quanto riguarda la raccolta differenziata.

Chi apre ai termovalorizzatori, con riserva

Antonio Pergolizzi, esperto ambientale e saggista, ritiene sia necessario valutare caso per caso, partendo dalle situazioni in cui ci sia una evidente difficoltà nella chiusura del ciclo dei rifiuti: “I termovalorizzatori possono essere una soluzione, perché altrimenti troppi rifiuti continuano a essere smaltiti in discarica”, sostiene.

“Senza dimenticare, però – continua Pergolizzi – che si tratta di impianti di ‘emergenza’, che sopperiscono a mancanze nella raccolta differenziata e nel riciclo. Soprattutto, l’emergenza non può essere utilizzata come scusa per realizzarli anche dove i dati non lo legittimano per aggirare rapidamente un problema causato da inefficienze delle amministrazioni o per l’assenza di visione della classe dirigente industriale”, conclude l’esperto ambientale.

Anche secondo Paolo Ghezzi troppo spesso le difficoltà croniche nel settore dei rifiuti “diventano una scusante per procrastinare scelte compensative nel breve termine da parte del decisore pubblico e l’adozione di soluzioni di emergenza, con il rischio di gestioni ‘grigie’ e addirittura infiltrazioni malavitose”.

Tuttavia, “gli impianti servono eccome”, sostiene Ghezzi. “Siamo in un ritardo per certi aspetti difficilmente recuperabile e nel settore dei rifiuti speciali, che per quantità è tre volte quello degli urbani, presto saremo al collasso sistemico, con ripercussioni significative sui costi per le aziende. Nel frattempo ogni giorno vanno gestite 82mila tonnellate in carenza di impianti”.

Questo, però, precisa Ghezzi, non significa fare forzature sulle priorità europee: “E la valorizzazione energetica dei rifiuti non è nei primi obiettivi da perseguire nemmeno nelle direttive europee e viene dopo la riduzione degli scarti, mentre, a livello globale, sono priorità le ‘transizioni’, la sostenibilità attraverso la circolarità e, ancor più in prospettiva, la decarbonizzazione”.

Tutti elementi, per i fautori del no ai termovalorizzatori, che dovrebbero indurre a concentrare l’attenzione su altre tematiche. Valutando gli impatti potenzialmente negativi sull’ambiente e sul tasso di crescita della raccolta differenziata dell’utilizzo dei termovalorizzatori: una “scorciatoria”, dal loro punto di vista, poco orientata sul medio-lungo periodo.

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