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mercoledì, Maggio 15, 2024

“Costosa, insufficiente e insicura”: così il Wwf boccia la tecnologia CCS sulla quale punta Eni

Nel report del centro studi Ecco vengono descritti i limiti della cattura e lo stoccaggio di carbonio, la tecnologia sulla quale punta il cane a sei zampe a Ravenna. Per il professor Federico Maria Butera gli impianti ccs "sono il contrario dell'economia circolare e servono a tenere in vita le aziende fossili"

Andrea Turco
Andrea Turco
Giornalista freelance. Ha collaborato per anni con diverse testate giornalistiche siciliane - I Quaderni de L’Ora, radio100passi, Palermo Repubblica, MeridioNews - e nazionali. Nel 2014 ha pubblicato il libro inchiesta “Fate il loro gioco, la Sicilia dell’azzardo” e nel 2018 l'ibrido narrativo “La città a sei zampe”, che racconta la chiusura della raffineria di Gela da parte dell’Eni. Si occupa prevalentemente di ambiente e temi sociali.

“Il sistema resiste al cambiamento e propone soluzioni per continuare ad andare avanti allo stesso modo, invece di rovesciare il paradigma. Tra l’altro facciamo prima a costruire impianti rinnovabili che a individuare siti di stoccaggio dell’anidride carbonica”.

Federico Maria Butera è uno dei padri dell’energia in Italia: professore emerito di Fisica Tecnica Ambientale al Politecnico di Milano, vanta una bibliografia estesa e approfondita, ben prima che diventassero “di moda”, su temi come sostenibilità, efficienza energetica e uso delle rinnovabili. Quando Mariagrazia Midulla, responsabile Clima ed Energia per il Wwf Italia, gli chiede un commento sulla tecnologia CCS – Carbon Capture and Storage, ovvero il processo di confinamento geologico dell’anidride carbonica (CO2) – il parere del professor Butera è molto netto. Per spiegare le motivazioni della sua contrarietà, il docente parte dall’economia circolare.

“Negli impianti per la cattura e lo stoccaggio di carbonio il prodotto, cioè l’anidride carbonica, non viene reimmessa nel ciclo ma viene solamente conservata, allo stesso modo di quando buttiamo un bicchiere di plastica dopo aver bevuto. Tutto l’opposto dell’economia circolare. Siamo dunque lontani dalla possibilità di incidere sul cambiamento climatico, anche perché si tratta di sistemi altamente energivori. E c’è ben altro. Il CCS si porta appresso una serie di altri elementi che non vengono presi in considerazione. Uno è quello concettuale: se dobbiamo uscire da una certa logica lineare e arrivare a quella circolare, il modo non è certamente questo. I posti per conservare grandi quantità di anidride carbonica, tra l’altro, sono piuttosto limitati. C’è poi da considerare l’impatto ambientale sugli ecosistemi: la tecnologia CCS necessita della creazione di una serie di pozzi e di condutture  che dovranno portare l’anidride carbonica dai giacimenti ai luoghi di conservazione. Con una serie di nuove produzioni che vanno tenute in conto. Il CCS non ha nessun senso e nessuna ragionevolezza, neanche sul breve termine”.

Una bocciatura vera e propria, dunque, che arriva in occasione della presentazione del report “Ambiguità, rischi e illusioni della CCS-CCUS – Criticità connesse allo sviluppo in Italia di una tecnologia più rischiosa che utile”. Commissionato dal Wwf, lo studio è stato realizzato dal centro studi Ecco, il think thank indipendente su clima ed energia.

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“Il ccs è una foglia di fico per continuare a usare le fonti fossili”

Se il titolo del report non dovesse bastare, in 26 pagine (più altre 4 di bibliografia)  gli autori Giulia Novati e Michele Governatori tutti i motivi per cui il CCS “non rappresenta un’opzione significativa nella strategia di decarbonizzazione nelle quantità e nei tempi richiesti dall’Accordo di Parigi. Del resto, nemmeno dopo aver ricevuto sussidi pubblici considerevoli la relativa filiera si è attivata in modo promettente, ed è inopportuno indirizzarvi nuove risorse pubbliche, soprattutto in relazione a progetti di dimensione commerciale”. Gli studiosi di Ecco hanno fatto riferimento a una mole notevole di  “dati ed esempi internazionali ma con un focus specifico sull’Italia”. Ne viene fuori che “le maggiori criticità connesse all’opzione di decarbonizzazione legata a progetti di CCUS” (in quest’acronimo si aggiunge la U di Usage, ci torneremo) sono “potenziali inadeguati, costi esorbitanti, rischi di difficile gestione”. Prima di andare a vedere nel dettaglio tali limiti, serve ricordare che il report è stato presentato nella giornata del 25 ottobre in un incontro online.

A tal proposito Mariagrazia Midulla, responsabile Clima ed Energia per il Wwf Italia, ha sottolineato che “è importante ricordare quando venne fuori la CCS, cioè quando il presidente degli Stati Uniti George W. Bush ritirò l’adesione al protocollo di Kyoto. Lo fece per continuare a usare i combustibili fossili, con la foglia di fico della cattura dell’anidride carbonica. Nel corso degli anni questa tecnologia si è sperimentata moltissimo, con dispendio di soldi pubblici e con esiti a dir poco deludenti. Come associazione ambientalista – ricorda ancora Midulla – all’inizio avevamo dato credito a questa tecnologia, consci che fosse una sperimentazione e che come tale andava verificata. Al contrario le ricerche, come ad esempio il recente report dell’IPCC, raccomandano nei prossimi 10 anni una riduzione delle emissioni che sia rapida e costante. In Italia si parla moltissimo della CCS nel quadro di un idrogeno blu tacciato come soluzione ponte verso l’idrogeno verde. Vale la pena ricordare che l’idrogeno non è una fonte energetica ma un vettore energetico. Secondo alcuni recentissimi studi l’idrogeno blu comporta emissioni maggiori rispetto all’uso diretto del metano. La nostra sensazione è che la CCS non sia vista come una reale soluzione ma come mezzo per far restare le fonti fossili al centro del sistema energetico”.

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Costoso, insicuro e insufficiente: tutti i limiti del ccs

“Dopo decenni di sviluppo la cattura della CO2 ha raggiunto una capacità di circa 40 milioni di tonnellate di CO2 all’anno, corrispondente allo 0,1% di tutta la CO2 emessa a livello mondiale nel 2019”. Basterebbe questo dato, riportato nel dossier di Ecco, per porsi la fatidica domanda cui prodest: a chi conviene realizzare impianti del genere? Michele Governatori fa notare che “processi di separazione del carbonio esistono nel settore dell’upstream da almeno 50 anni. Da decenni l’industria petrolifera usa la Co2 nei giacimenti per facilitare la coltivazione”. Nel report di Ecco una comparazione tra il risparmio di Co2 generato dall’uso estensivo delle energie rinnovabili e quello consentito dai vari impianti CCS lascia esterreffati: “le sole fonti rinnovabili elettriche costruite nel 2019 permettono un risparmio di 137 milioni di tonnellate di CO2, valore più che triplo rispetto a tutto il CCS artificiale mai fatto negli ultimi 20 anni al mondo fino a oggi”. Dunque la CCS “non è un’opzione significativa nella strategia di mitigazione dei cambiamenti climatici, ha un’incidenza irrisoria rispetto al fabbisogno di riduzione delle emissioni, e a oggi i progetti realizzati sia in Italia che all’estero non hanno dato alcun risultato rilevante a fronte di elevati costi”.

Come poi fa notare il professor Butera, serve ricordare che questa tecnologia “serve anche a estrarre combustibile che altrimenti sarebbe rimasto nel sottosuolo. E vale la pena chiedersi: se quel combustibile poi sarà bruciato, non siamo al punto di partenza? Da una parte cioè si conserverà CO2 e dall’altra se ne produrrà altra”. È il cosiddetto usage, cioè l’uso di anidride carbonica che viene spesso taciuto per nascondere il fatto che dietro alla cattura e allo stoccaggio di CO2 si nascondono anche nuove perforazioni fossili. Oltre alla questione delle emissioni, c’è poi la questione dei costi, che il report commissionato dal Wwf definisce “proibitivi” e che rischiano di ricadere, come già avvenuto in passato, sulle spalle dei contribuenti attraverso l’utilizzo di fondi pubblici. “La filiera della Ccus – si legge nel dossier – è fatta di tecnologie quasi completamente immature, anche se nell’ultimo decennio sono fioriti prototipi su scala dimostrativa, in diversi casi finanziati da soggetti pubblici. Queste tecnologie non danno segno per ora di diventare commerciabili se non in casi isolati e secondo la Corte dei Conti europea i sussidi UE in materia non hanno portato a risultati soddisfacenti. Nello stesso tempo, non è giustificabile dare supporto pubblico a progetti commerciali di CCUS in assenza di risultati incoraggianti in quelli pilota. Nella stima dei costi sono da considerare il rischio connesso allo stoccaggio e i costi futuri per le prossime generazioni, sia nella gestione del rischio che nella manutenzione e monitoraggio dei siti, che andrebbe calcolato a parte in una logica corretta di analisi costi/benefici”.

La questione dello stoccaggio dell’anidride carbonica è poi fondamentale, nonostante venga sottaciuta. Basterebbe comparare la questione all’annosa ricerca italiana del sito unico dove confinare le scorie nucleari, su cui il governo è ancora in una fase di dibattimento per individuare il luogo potenzialmente idoneo. Come ricordano Novati e Governatori, “nel futuro eventuale di adozione di impianti di cattura della CO2, lo stoccaggio geologico senza prospettive di utilizzo rimane l’opzione più probabile per gran parte della CO2 separata. E questa è una pessima notizia. Così come per il combustibile nucleare irraggiato, lo stoccaggio minerario della CO2 attribuisce alle generazioni future un onere a tempo indeterminato in termini di costi di mantenimento e di rischi. Rischi che riguardano l’incertezza rispetto alla governance e ai costi futuri della gestione (chi garantisce il presidio quando finiscono le concessioni minerarie? Chi garantisce l’inviolabilità dei sistemi di controllo di un sito il cui svuotamento potrebbe vanificare in tempi relativamente brevi il lavoro e i costi di decenni di cattura e stoccaggio?)”. Domande solo in apparenza astratte ma in realtà con un preciso campo di applicazione in Italia, più nello specifico nel mare Adriatico.

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Perché l’impianto Eni di Ravenna non conviene

Nel report di Ecco si trova persino un mistero. Quello del progetto pilota Brindisi-Cortemaggiore, l’unico impianto CCS di cui risulta una sperimentazione in Italia. Nel 2010 i due colossi dell’energia Enel ed Eni si allearono (sembra strano, ora che le due aziende sono in un clima da guerra fredda) per trasformare la centrale a carbone di Enel di Brindisi in una sorta di “carbone pulito”, attraverso un “programma di separazione e stoccaggio della CO2 dai fumi, nel frattempo sperimentato altrove”. Dalla Puglia l’anidride carbonica avrebbe dovuto essere trasportata attraverso mezza Italia con delle autobotti fino a Cortemaggiore, nel piacentino, in uno dei siti storici del cane a sei zampe, “per essere iniettata all’interno di un sito di stoccaggio geologico di Stogit (il gestore degli stoccaggi gas)”. Dei test, iniziati nel marzo 2011, si sono perse ben presto le tracce. A raccontarlo è Michele Governatori, uno degli autori del report di Ecco: “abbiamo consultato i dati pubblici e non abbiamo trovato traccia delle iniezioni di anidride carbonica che avrebbero dovute essere fatte nei giacimenti piacentini. Si tratta dunque di una collaborazione tra due giganti dell’energia di cui non si sa nulla e di cui è ragionevole sospettare che ci siano state difficoltà che non ci sono state raccontate”.

Se intanto Enel ha deciso di abbandonare per sempre i progetti sulla cattura e lo stoccaggio di carbonio, Eni invece continua a perseguire questa strada. Decidendo di puntare tantissimo su due siti, Liverpool e Ravenna, che secondo il think thank indipendente sono accomunati dal fatto di essere “contesti asserviti a siti di coltivazione di idrocarburi che altrimenti dovrebbero essere correttamente disattivati e bonificati”. L’esempio inglese, che è in una fase più avanzata di realizzazione, è anzi per Ecco “un caso evidente in cui parte dell’incentivo per gli sponsor è evitare il decommissioning delle infrastrutture per idrocarburi dell’area, in quella sorta di circolo vizioso che non mira a soluzioni nuove con una prospettiva di validità commerciale, bensì al procrastinamento della trasformazione di cespiti aziendali in puri costi di dismissione”.

Il sito di Ravenna, d’altra parte, mira a diventare uno degli impianti CCS più grandi del mondo, con una capacità a regime fino a 5 milioni di tonnellate di CO2 all’anno. Considerato il fatto, stando agli annunci del cane a sei zampe, che si intende raccogliere l’anidride carbonica di altri siti industriali sparsi per il Nord Italia (e addirittura dalla Croazia), il rischio più evidente è la creazione di treni e autobotti e navi carichi di CO2. “Salvo costruzione di nuove pipeline o riadattamento di esistenti – si legge nel report – nel caso del progetto CCS di Ravenna si configurerebbe la prospettiva di un trasporto verso Ravenna dal Nord-Est dell’Emilia o dalla Lombardia della CO2 dei siti di separazione. Parliamo di strade come la SS 309 Romea, una delle più congestionate e pericolose d’Italia sulla base dei dati disponibili dall’ACI, e parliamo di un’area tra le più pericolose del mondo per quanto riguarda la concentrazione dell’inquinamento locale anche dovuto al traffico”.

All’incontro di presentazione del report di Ecco è intervenuto anche Massimiliano Varriale, esperto di energia e collaboratore storico di Wwf Italia, il quale, partendo dai rischi sismici già sollevati dal professor Balzani a EconomiaCircolare.com, ha ricordato che “esiste una casistica di studi abbastanza ampia che dimostra che qualsiasi attività che comporta reiniezione di fluidi, a prescindere dal settore, comporta sismicità, sia indotta che innescata. È proprio il meccanismo che avviene con la reiniezione dell’anidride carbonica, specie in presenza di faglie attive. Lo si è visto ad esempio con il fracking. Il rischio poi non riguarda soltanto la possibilità di microsismi ma di innescare o indurre terremoti del quinto/sesto grado della scala Richter. E questo lo dice l’INGV (l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, nda). Chi vuole fare gli impianti CCS si assume anche queste responsabilità?”.

Resta poi il problema, già sollevato a livello generale, dell’eredità lasciata da un impianto del genere. “Il CCS comporta un’eredità potenzialmente dannosa ed esplosiva – ha spiegato ancora Governatori – che andrà tenuta sotto osservazione fino alla vita del genere umano. Chi dovrà controllare quei depositi di CO2? Tra 200 anni, si spera, Eni si sarà evoluta in altro”. Anche in questo caso la domanda resta la stessa posta di Varriale: chi si assume le responsabilità? La conclusione del professor Butera può dare una chiave di lettura per provare a rispondere. “La strategia dell’oil&gas è chiara – ha detto lo studioso e accademico – Una volta che non si può più negare il cambiamento climatico, allora inventiamoci modi per rallentare la transizione ecologica”.

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