Una sezione del settimo censimento generale sull’agricoltura, pubblicato dall’Istat a giugno del 2022, viene dedicato nello specifico alle donne nell’agricoltura italiana. Questo perché come abbiamo già visto su EconomiaCircolare.com c’è una crescente attenzione delle politiche nel mediterraneo sulle donne in agricoltura, soprattutto da parte dell’Unione Europea. Infatti la nuova Politica agricola europea 2023-2027 (PAC) ribadisce che “l’integrazione della dimensione di genere rappresenta uno dei principi fondamentali dell’Unione e invita gli Stati membri a porre particolare impegno alla partecipazione e alla promozione del ruolo delle donne in agricoltura”.
Tuttavia ad oggi gli incentivi specifici prevedono un capitale iniziale che spesso le donne non hanno e inoltre anche a livello di politiche di welfare, per esempio sulla maternità, siamo ancora molto lontane. Ma leggendo il censimento Istat redatto da Cecilia Manzi emergono dei dati interessanti su un fenomeno che si conosce molto poco. Nel 2020 le donne occupate in agricoltura erano 823mila – il 30% circa del totale delle persone occupate nel settore – in calo rispetto al 2010 quando rappresentavano il 36,8%. A fronte, come spesso accade, di un carico di lavoro per le donne maggiore rispetto a quello maschile (+30,0% contro +13,9%), in particolare tra la manodopera familiare (+54,7%). Ma il dato più interessante è che se è vero che negli ultimi anni hanno chiuso tantissime aziende gestite da donne, all’interno delle aziende agricole si è leggermente rafforzata la partecipazione delle donne nel ruolo manageriale: infatti le capoazienda nel 2020 sono il 31,5% rispetto al 30,7% nel 2010.
Sempre più donne in Italia decidono quindi di continuare a lavorare in agricoltura ma di farlo in proprio, in molti casi con altre donne come è successo a Viviana Tomassetti, 48 anni, e Michela Rossi, 53 anni, che nel 2022 hanno lasciato la città per aprire un’azienda vinicola a Pitigliano, in provincia di Grosseto. La Dumatt che vuol dire due matte, avendo iniziato questo viaggio nel mondo del vino con pochissimi soldi e senza terreni di proprietà.
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Come vi siete conosciute e come mai avete deciso di intraprendere questa attività?
Ci siamo conosciute qualche anno prima di iniziare questa avventura insieme, tramite delle amiche, in incontri sempre all’insegna del cibo e del vino. Viviana da anni faceva parte di un piccolo progetto vinicolo non ufficiale e terminata quell’esperienza era in cerca di qualcuna con cui iniziarne uno nuovo. Michela si è lanciata nell’impresa senza avere idea di quello a cui andava incontro e di quanto la sua vita sarebbe cambiata. Rispetto ad altre esperienze di “ritorno alla natura”, vogliamo specificare che la nostra idea non era tanto cambiare vita e abbandonare la città, anche se nei fatti questo è inevitabilmente successo, almeno in parte, ma la nostra voglia era specificamente legata alla passione per il vino, la voglia di capirlo meglio e di produrlo naturalmente. E non ci vergogniamo a dirlo, ci piace bere e ci piace bere bene!
I dati Istat ci dicono che sempre più donne guidano aziende agricole, soprattutto nel centro sud, con in testa il Molise con il 40% delle aziende agricole guidate da donne. Anziché lavorare per le grandi aziende hanno deciso di aprirne di proprie ma piccole. Quanto oggi è ancora possibile lavorare come piccole aziende e non essere inglobate nella grandi, che purtroppo sono più propense alla pratica della monocultura e dei pesticidi?
Da complete outsider ci siamo lanciate nell’impresa dovendo imparare quasi tutto da zero. Abbiamo iniziato con tre ettari di vigna e settanta giovani piante di ulivo, e quest’anno abbiamo preso in gestione un altro ettaro e mezzo di vigna vecchia. Abbiamo comprato solo un piccola parte di vigna, a pagamento frazionato in 5 anni, il resto è in affitto. Coltiviamo tutto in biologico e vorremmo iniziare con la biodinamica, ma per il momento stiamo imparando le basi. In vigna facciamo noi tutti i lavori manuali, ci manca solo il trattore e per il momento va bene così. In cantina interveniamo il meno possibile. Facciamo vino naturale, insomma.
Siamo arrivate a fare agricoltura su piccola scala in un momento storico dove esiste da decenni un forte movimento che rivendica un utilizzo più consapevole delle terre, senza l’uso di pesticidi, diserbanti e prodotti di sintesi, per far rivivere i suoli impoveriti da più di 50 anni di agricoltura a impostazione industriale, dove anche i piccoli contadini avevano abbandonato le vecchie pratiche per l’utilizzo massiccio dei prodotti chimici e monoculture. Questo è stato possibile perché è coinciso con un movimento di consumatori, soprattutto consumatrici, più consapevole che preferiscono acquistare prodotti sani da piccole realtà produttive. Quindi sì, è possibile sopravvivere, però non è facile, perché la maggior parte dei fondi per l’agricoltura – e a livello europeo ce ne sono tanti – premiano ancora le aziende che coltivano molti ettari, in maniera totalmente meccanizzata e intensiva, usando pesticidi e prodotti dannosi per l’ecosistema.
C’è poi un discorso più complesso, legato anche alle grandi proteste degli agricoltori di questi ultimi mesi, che è quello della grande distribuzione che paga pochissimo i prodotti agricoli e i derivati dell’allevamento animale, e che chiaramente può funzionare solo se esistono grandi aziende che producono a basso costo, poco rispettose della terra e di chi ci suda sopra. Un sistema produttivo che come per tutta la nostra economia capitalistica andrebbe smontato e ripensato in toto.
Come donne e come femministe che vuol dire oggi lavorare la terra? C’è anche un’ottica femminista o eco-femminista di uso della terra?
Non siamo partite con l’idea di fare un progetto femminista, ma come per tutto il nostro femminismo ce lo portiamo dietro e l’idea che abbiamo del mondo, delle relazioni umane e lavorative si riflette necessariamente in tutto quello che facciamo.
Nonostante le donne abbiamo da sempre lavorato nei campi, l’agricoltura non è un mondo di donne e il mondo del vino lo è ancora meno. Come nel resto della società, la lotta per il riconoscimento del nostro valore e delle nostre competenze è quotidiana, l’agrimansplaining asfissiante e onnipresente, il paternalismo quasi comico visto che a 50 anni ci chiamano “le ragazze”. C’è in provincia un’idea molto maschia del lavoro nel campo, fatta di forza muscolare e grandi trattori, che si è persa tutta la parte di relazione con la pianta e la natura più in generale. Anche senza richiamarci direttamente a specifiche teorie eco-femministe, viviamo questa esperienza come un modo per ritrovare il nostro posto nella natura, che era stato un po’ alienato da tanti anni passati in città, vivendo con stupore questo percorso di ri-apprendimento dei cicli naturali, imparando a guardare e seguire i bisogni delle piante, le abitudini e i comportamenti degli animali che ci vivono in mezzo, prendendo solo l’essenziale e cercando di lasciare la terra più ricca e rigogliosa di come l’abbiamo trovata.
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