Tutti ne parlano, tutti lo vogliono, ma in pochi sanno esattamente in cosa consiste e conoscono i risvolti di ogni suo possibile utilizzo. Negli ultimi tempi l’idrogeno, formula chimica H2, ha attirato su di sé le attenzioni, uscendo fuori dal dibattito specialistico ed entrando nel discorso pubblico, nazionale e internazionale. Attorno a esso si concentra, semplificando, una domanda essenziale: è la risorsa energetica del futuro o è un grande inganno per perpetuare l’insostenibile modello di sviluppo che ci ha condotto fino a qui? Fedeli alla linea fondatrice di economiacircolare.com, quella del giornalismo costruttivo, intendiamo fornire un sunto del dibattito che parta dalle criticità per offrire soluzioni su un tema complesso. Il nostro focus è dunque un punto di partenza, che non intende (non può) esaurire ogni aspetto ma che vuole comunque avviare un percorso di approfondimento.
I colori dell’idrogeno
Più che di idrogeno sarebbe più corretto parlare di idrogeni. A ogni colore, infatti, corrisponde un “diverso” tipo di idrogeno. Partendo dal fatto che non esiste in natura, quindi va prodotto, l’idrogeno (i vari tipi di idrogeno) va conservato per lungo tempo e in grandi quantità. Il suo uso è eterogeneo, e i principali ambiti di applicazione sono i trasporti e l’industria, per cui quando ci si riferisce all’idrogeno bisogna sempre tener conto che questo deve essere poi distribuito. Ogni catena di valore, in pratica, deve avere tecnologie in grado di poter sfruttare questa risorsa.
Esistono dunque:
- l’idrogeno verde, prodotto da fonti rinnovabili, soprattutto fotovoltaico ed eolico (ma anche da biomasse, rifiuti, batteri, alghe)
- l’idrogeno porpora, prodotto da nucleare
- l’idrogeno turchese, prodotto da fonti fossili in cui però non c’è la creazione di Co2 (come ad esempio tramite pirolisi dal metano) o comunque con la separazione dell’anidride carbonica in cui invece del sequestro di carbonio c’è un un suo utilizzo industriale
- l’idrogeno blu, prodotto principalmente dal metano con separazione e sequestro della CO2 (è il processo noto con l’acronimo CSS, ovvero Carbon Capture and Storage)
- l’idrogeno grigio/nero, prodotto da carbone o comunque da idrocarburi e con emissioni di CO2
Secondo quanto riferito dall’esperto Angelo Moreno al talk I colori dell’idrogeno, organizzato dalla campagna Per il clima, fuori dal fossile, “attualmente nel mondo si producono tra le 60 e le 70 milioni di tonnellate l’anno di idrogeno: solo una piccola parte con l’elettrolisi, quasi tutto da reforming del metano. Accanto a questa modalità, ancora derivante dalle fonti fossili, l’obiettivo è un cambio radicale con l’idea di convergere rapidamente verso un’unica soluzione, quella dell’idrogeno verde e pulito, più noto come green e clean. Green perché senza emissione di Co2 e clean senza l’emissione di alcun contaminante, come polveri sottili, ossidi di azoto e di zolfo”.
A che punto siamo?
L’8 luglio 2020 la Commissione Europea elabora due documenti fondamentali: la strategia dell’UE per l’integrazione del sistema e la strategia dell’Ue per l’idrogeno. La cornice per entrambi i report è il noto impegno, relativo all’Accordo di Parigi, a raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. In che modo? Focalizzando gli sforzi in maniera significativa sul sistema energetico, responsabile del 75% delle emissioni di gas a effetto serra del Vecchio Continente. Nella strategia per l’integrazione vengono individuate tre assi portanti: un sistema energetico più circolare, imperniato sull’efficienza energetica; una maggiore elettrificazione diretta dei settori d’uso finale e la promozione dei combustibili puliti, compresi l’idrogeno rinnovabile, i biocarburanti e i biogas sostenibili. Qui però c’è la prima distinzione importante: perché si legge che “la Commissione proporrà una nuova classificazione e un sistema di certificazione per i combustibili rinnovabili e a basse emissioni di carbonio”. La definizione delle “basse emissioni di carbonio” sembra essere un assist alle industrie fossili (ci torneremo).
Un’ambiguità ancora più evidente con la strategia per l’idrogeno. In un passaggio all’insegna della concretezza viene scritto che “la priorità è sviluppare l’idrogeno rinnovabile, prodotto usando principalmente energia eolica e solare, ma nel breve e nel medio periodo servono altre forme di idrogeno a basse emissioni di carbonio per ridurre rapidamente le emissioni e sostenere la creazione di un mercato redditizio”. Sembra, almeno per quel che è stato riportato su IlFattoQuotidiano, che le modifiche siano state effettuate su pressione dei “soliti” interessi economici. “Nella versione iniziale, fatta circolare semi clandestinamente il 18 giugno 2020, la Commissione si limitava a menzionare, senza assegnargli alcun ruolo significativo, l’idrogeno “blu” (quello legato alle rinnovabili, ci torneremo, nda) – si legge – Senonché, il 24 giugno seguente, Gasnaturally, la lobby di una coalizione di imprese del gas, sindacati e produttori di tecnologie energetiche, rivendicava l’adozione di una strategia per l’idrogeno che seguisse una impostazione “technology-neutral”, di modo che sia l’idrogeno da fonti rinnovabili che quello ottenuto dal gas con la Ccs potessero essere considerati clean hydrogen, ovverosia idrogeno pulito”. In ogni caso la Commissione europea, insieme ai due documenti prima citati, vara anche l’alleanza europea per l’idrogeno pulito, che riunisce attori prominenti del settore, esponenti della società civile, ministri nazionali e regionali e rappresentanti della Banca europea per gli investimenti. L’alleanza creerà un portafoglio di investimenti finalizzati a incrementare la produzione e sosterrà la domanda di idrogeno pulito nell’UE.
Non ultimo, va considerato il ruolo essenziale dei 750 miliardi del Next Generation Ue, più noto come Recovery Fund, ovvero lo strumento europeo per contrastare l’impatto della pandemia che prevederà certamente, nell’ambito del più generale Green Deal europeo, una parte cospicua di fondi destinati all’idrogeno. Il 15 dicembre, ad esempio, la Commissione una proposta di revisione delle norme europee sulle reti transeuropee dell’energia (noto come regolamento TEN-E) per accompagnare la modernizzazione delle infrastrutture energetiche transfrontaliere dell’Europa e realizzare gli obiettivi del Green Deal. Il regolamento Ten-E riunisce operatori privati e pubblici su base regionale per aiutarli a realizzare progetti di interesse comune (Pic) che servono a collegare e rafforzare le reti energetiche degli Stati. È fondamentale infatti ricordare gli ambiziosi obiettivi prefissati dalle istituzioni europee: riduzione delle emissioni UE del 55% entro il 2030 e neutralità climatica al 2050. E in questo senso le infrastrutture del futuro saranno essenziali. Anche perché torna una domanda: come verranno alimentate le reti transeuropee? Tra le proposte della commissione si delinea una “nuova attenzione all’infrastruttura per l’idrogeno, compreso il trasporto e alcuni tipi di elettrolizzatori” e “nuove disposizioni sugli investimenti nelle reti intelligenti per integrare i gas puliti (come il biogas e l’idrogeno rinnovabile) nelle reti esistenti”.
E l’Italia?
Di idrogeno in Italia se ne parla da tanto tempo, come testimonia l’incessante attività di monitoraggio dell’associazione H2it che, come si legge sul proprio sito, “si propone di creare le condizioni politiche e normative per lo sviluppo di un mercato delle applicazioni di idrogeno in Italia, nonché di promuovere il suo utilizzo attraverso la partecipazione pubblica e privata”. Ma negli ultimi tempi c’è stata certamente un’accelerazione. Di più: soltanto a novembre sono stati diffusi due documenti essenziali. Da una parte il ministero dello Sviluppo Economico ha lanciato il 24 novembre la consultazione pubblica sulle Linee Guida per la Strategia nazionale sull’idrogeno, “che mirano a individuare i settori in cui si ritiene che questo vettore energetico possa diventare competitivo in tempi brevi ma anche verificare le aree di intervento che meglio si adattano a sviluppare e implementare l’utilizzo dell’idrogeno”. Con la consapevolezza che manca ancora del tutto una filiera dell’idrogeno, c’è tempo fino al 21 dicembre per presentare osservazioni da parte di soggetti interessati e stakeholders.
“L’Italia è tra i primi Paesi che hanno creduto nell’idrogeno come vettore energetico pulito del futuro, in grado di accelerare il processo di decarbonizzazione verso un modello di sviluppo ecosostenibile – ha dichiarato il ministro Stefano Patuanelli – Questo ha permesso ai ricercatori e alle aziende italiane di acquisire un vantaggio in termini di capacità e conoscenze sull’idrogeno, che oggi consente al nostro Paese di avere un ruolo centrale nella definizione dei piani europei di investimento previsti per lo sviluppo e l’implementazione della produzione e utilizzo dell’idrogeno. Inoltre, l’Italia si candida a diventare l’hub del Mediterraneo per la produzione, il trasporto e lo stoccaggio di idrogeno verde”. Su questa presunta attenzione da parte del Belpaese, sono in molti però a non essere d’accordo. Angelo Consoli, fondatore del CETRI- Circolo Europeo per la Terza Rivoluzione Industriale, ha fatto notare ad esempio che “l’obiettivo al 2030 è appena il 2% dei consumi finali. Eppure la Germania ha già investito 50 miliardi in tecnologie dell’idrogeno e l’Unione Europea quattro mesi fa ha proposto obiettivi estremamente ambiziosi per questo settore”. Inoltre il ministero scrive che “una prima fase della strategia con obiettivo al 2030, sarà focalizzata sui settori in cui è possibile produrre e utilizzare l’idrogeno localmente, a partire dagli impianti esistenti, e facilitare l’utilizzo del vettore in nuove applicazioni come, per esempio, nel trasporto ferroviario grazie alla sostituzione dei treni diesel nelle tratte non elettrificabili”. Un obiettivo che appare un po’ modesto, specie di fronte alle sfide climatiche che attendono il nostro Paese. In questa chiave appare più ambizioso, e più “sincero”, il documento redatto dal ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca poco più di un mese fa.
Si tratta delle “prime indicazioni per una strategia italiana di ricerca sull’idrogeno”, in cui vengono delineati tre obiettivi fondamentali: “potenziare la competitività dei prodotti della ricerca italiani e le probabilità di successo nei bandi competitivi europei; essere in sinergia con le iniziative dell’industria italiana e delle amministrazioni locali, per incrementare il trasferimento dei risultati della ricerca; incrementare le risorse destinate ai vari settori di ricerca e sviluppo riguardanti l’idrogeno, inclusa la ricerca di base, per colmare il divario con gli altri Paesi europei”. Nelle 18 pagine del Miur si punta principalmente sull’idrogeno verde, con la consapevolezza che “la diffusione su larga scala dei sistemi di produzione dell’idrogeno pulito è legata alla riduzione dei costi dei sistemi di elettrolisi, al miglioramento dell’efficienza di conversione ed alla disponibilità di potenza elettrica da RES (Renewable Energy Sources) ad un costo competitivo e in quantità significativa e non alternativa alle altre esigenze di elettrificazione degli usi finali”. Vengono tenute in conto anche le dinamiche di economia circolare, piuttosto tralasciate invece dal documento del Mise, ad esempio quando si scrive che “lo sviluppo e l’impiego di nuovi materiali, di nuove tecnologie e di nuovi processi, lo studio del riciclo a fine vita dei componenti sono azioni prioritarie per ridurre l’impatto, i costi e aumentare la vita utile di tutte le tecnologie di elettrolisi”. Certamente è da registrare con favore il fatto che Miur e Mise abbiano lanciato nel giro di un mese due documenti importanti sull’idrogeno. Ma, sebbene questi non siano sovrapponibili, resta la sensazione che i due ministeri non si siano parlati.
Obiettivi ambiziosi, o no?
Dopo anni di confronti e false partenze sembra che l’Europa abbia scelto di porsi alla testa della corsa alla produzione di idrogeno. Soprattutto verde, come abbiamo visto, ma non solo. In ogni caso l’obiettivo da qui al 2024 è di produrre 1 milione di tonnellate di idrogeno verde all’anno, per poi accelerare e arrivare a una produzione entro il 2030 di 10 milioni di tonnellate annue – attraverso 40 gigawatt di elettrolizzatori installati. Nella terza fase, fino al 2050, l’obiettivo per l’idrogeno rinnovabile è quello di raggiungere la maturità per essere applicato su larga scala. Gli investimenti previsti fino al 2030 sono dell’ordine di 24-42 miliardi di euro per gli elettrolizzatori, di 220-340 miliardi di euro per connettere la produzione di energia rinnovabile ed altri 160-200 miliardi di euro per gli utilizzi nei settori applicativi.
Il Sud, in questo senso, può giocare un ruolo fondamentale. A tal proposito l’associazione Merita ha organizzato lo scorso 10 dicembre un talk molto interessante, in cui si è parlato del Meridione come di “avamposto di rinnovabili e idrogeno”. In questo momento, però, bisogna fare i conti (è proprio il caso di dirlo) con l’antieconomicità della produzione di idrogeno. Proprio perché la filiera è tutta da costruire e la tecnologia non è ancora matura.
Va ricordato comunque che il piano redatto dal Mise implicherebbe comunque circa 10 miliardi di euro di investimenti nel prossimo decennio in Italia; tra i 5 e i 7 miliardi sono destinati a strutture di distribuzione e consumo, mentre il resto andrebbe alla ricerca. L’obiettivo è la creazione di oltre 200mila posti di lavoro temporanei nei prossimi 10 anni e fino a 10.000 occupati fissi sul medio periodo.
Quel che è certo è che un pieno sviluppo delle potenzialità dell’idrogeno è ancora molto al di là di venire. Da qui al 2030, come sottolinea il Miur nel documento di ricerca sull’idrogeno, “la produzione di H2 da fonti rinnovabili intermittenti ha il limite della discontinuità, di tempi di funzionamento limitati e l’aumento dei costi. Per un utilizzo su larga scala, la filiera idrogeno va integrata con produzioni alternative per esigenze continue di utilizzo”.
Le pressioni fossili
Ha fatto discutere in questi giorni il rapporto Hydrogen Hype, redatto da Corporate Europe Observatory, Food and Water Action Europe e dall’associazione italiana Re:Common. Si tratta di un’analisi di oltre 200 documenti, ottenuti attraverso richieste di accesso agli atti, che mette in luce “un’intensa e concertata campagna di lobbying da parte dell’industria del gas per spingere l’UE ad abbracciare l’idrogeno come la fonte energetica pulita del futuro”.
Per la loro attività di lobbying pro-idrogeno, le aziende del settore del gas hanno dichiarato una spesa annua complessiva di 58,6 milioni di euro per cercare di influenzare la politica delle istituzioni comunitarie, “anche se si sospetta che la cifra sia sottostimata”. Tra i dati più rilevanti va riportato che “l’industria dell’idrogeno ha incontrato i commissari europei Timmermans, Simson, Breton e i loro gabinetti 163 volte sui temi dell’energia tra dicembre 2019 e settembre 2020, a fronte di 37 incontri tra alti funzionari della Commissione e le ong”. Inoltre “fra il 2014 e il 2020, l’industria dell’idrogeno ha avuto accesso a oltre 1 miliardo di euro di fondi pubblici per i suoi progetti”. Non solo: secondo il report diffuso in Italia da Re-Common, ci sarebbe un’ulteriore spinta da parte della lobby dell’idrogeno a considerare cruciali gli impianti già esistenti, provando a riconvertirli ma in un orizzonte temporale non definito. “La rete di gasdotti per la distribuzione di gas fossili dell’UE, sovradimensionata e sottoutilizzata, è stata ribattezzata dall’industria come la futura spina dorsale dell’idrogeno dell’Europa. A breve termine – si legge ancora – si mescoleranno piccole quantità di idrogeno nei gasdotti esistenti, per poi riconvertirli totalmente a idrogeno a più lungo termine”.
Ancor più criticato, poi, è l’utilizzo dell’idrogeno in funzione del processo CSS, ovvero il processo di cattura e stoccaggio di carbonio. Su ilmanifesto del 15 ottobre Mario Agostinelli e Angelo Consoli avevano puntato il dito, tra l’altro, proprio sulla corsa all’idrogeno da parte delle aziende italiane. O meglio, sul colore dell’idrogeno che multinazionali come Eni sembrano preferire. “Non tutti – scrivono – sanno che nel 2007, in coincidenza con la strategia energetica varata dalla Merkel durante la sua presidenza UE (il pacchetto Clima Energia 20 20 20), le lobby del fossile ottennero in compensazione 1 miliardo di euro per realizzare «la costruzione e la messa in funzione, entro il 2015, di 12 impianti di dimostrazione per la produzione commerciale di elettricità con cattura e stoccaggio del carbonio (CCS)”. A tutt’oggi non se ne ha più alcuna notizia, come è stato certificato da una apposita relazione della Commissione, che ha ammesso il fallimento del programma. Inoltre, è intervenuta anche la Corte dei Conti Europea che ha concluso che i finanziamenti ai progetti dimostrativi erano stati uno spreco per l’Europa. Temiamo che le ragioni che militano per un’apertura verso l’idrogeno blu, stiano nella volontà di non ostacolare il mercato del gas, che, una volta rilanciato anche nell’attuale passaggio critico, guiderebbe la transizione, facendo volentieri a meno del costoso sequestro dei climalteranti. I dinosauri ci mandano a dire: «Lasciateci costruire le nostre centrali, e vedrete che un giorno le renderemo innocue per il clima con il CCS», gas nuovo anziché nuove rinnovabili e idrogeno purchessia, almeno finché non se ne discuta”.
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