C’è stato un tempo in cui il disarmo degli Stati, vale a dire la rinuncia all’esercito e alla necessità delle armi come strumento di risoluzione dei conflitti, era un’opzione politica di cui si discuteva sui giornali, nelle piazze, nei comizi. Oggi che l’Europa è immersa, per un tempo che pare infinito dall’avvio della guerra in Ucraina il 24 febbraio 2022, in un clima in cui il dibattito è schiacciato sulla teoria per cui la fine del conflitto si avrà solo quando una delle due forze in campo vincerà, costringendo l’altra alla resa, il disarmo appare un’utopia. E invece è, ancora, una strategia di pace necessaria e su cui tornare a riflettere.
Ne abbiamo parlato con il giornalista e scrittore Riccardo Bottazzo, che da anni si occupa di ambiente, migrazioni e movimenti dal basso. All’inizio di quest’anno, in piena escalation militare, per Altreconomia Bottazzo ha pubblicato il libro “Disarmati. Paesi senza esercito e altre strategie di pace”. Un volume davvero controcorrente nell’era attuale in cui la guerra viene descritta come ineluttabile. E che è il punto di partenza per una riflessione ad ampio raggio sulla tutela ambientale, sull’importanza degli interessi finanziari e sul ruolo dell’informazione.
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Islanda e Costa Rica
Leggendo il suo ultimo libro, appare con forza che più di tanti Paesi che hanno rinunciato all’esercito di cui lei ricostruisce la genealogia, due esperienze sociali e politiche sono indubbiamente eccezionali: il Costa Rica e l’Islanda. Perché, in entrambi i casi, la scelta di eliminare l’esercito è portata avanti dalla volontà popolare, da ragioni difficilmente contestabili e da risultati altrettanto difficilmente negabili. Non è così?
Sì, è così. Sono sicuramente i Paesi più interessanti anche dalla nostra prospettiva. Perché, anche se in diverse isole del Pacifico esiste una forte cultura pacifista, come nelle isole Salomone, e, per esempio, la polizia gira disarmata, quasi tutte sono state colpite dal colonialismo. Di cui normalmente non si parla in relazione ai Paesi dell’Oceania. Ci si riferisce all’Africa o al Sudamerica in genere. Purtroppo, invece, quasi tutte le isole del Pacifico sono state abbrutite, devastate, da processi coloniali: prima da tedeschi, inglesi e francesi, poi dai giapponesi e infine dagli americani. I quali le hanno prima bombardate, per “fare piazza pulita” dei giapponesi, e poi molte di loro sono state usate come laboratorio per gli esperimenti nucleari. La loro scelta pacifista, quindi, potrebbe sembrare naturale, ovvia. Il Costa Rica e l’Islanda, al contrario, sono nazioni grandi, la loro scelta è decisamente più interessante. Non a caso sono i due Paesi che ho visitato. Il Costa Rica è, tra l’altro, in una situazione difficile, perchè immerso nel contesto problematico del Centro America. Questo Paese mi ha colpito: il loro orgoglio di non avere l’esercito, di non avere i militari, le caserme, e le parate in casa, è un sentimento popolare. Non è qualche intellettuale universitario di sinistra, oppure l’utopista, che vuole rinunciare all’esercito, ma è la gente comune, come i tassisti. Uno che mi portava in giro per San Josè mi ha chiesto: “Ma perchè voi in Europa, invece di fare la guerra, non fate la pace? Vedi, se tu paghi l’agricoltore, ti vende i prodotti del suo orto; se paghi il muratore ti tira su la casa; se paghi i militari, beh, quelli fanno la guerra”. Magari non è esattamente così lineare, ma c’è indubbiamente della saggezza in quello che mi ha detto. Ho anche ascoltato molti discorsi da bar, e tutti finivano con questa affermazione, per noi sorprendente: “Eh, per fortuna che non abbiamo l’esercito! Pensa se dovessimo anche pagare generali e gente che fa la parata”.
Sembra buon senso…
Si, lo è. Pensa che tra tutti i partiti, dall’estrema destra all’estrema sinistra, nessuno chiede che si torni ad avere un esercito. Anzi, quando mi è capitato di seguire una campagna elettorale dove, come si può immaginare, tutti i partiti dicevano di fare meglio degli altri, nessuno si è nemmeno lontanamente avvicinato alla richiesta di ristabilire l’esercito. Dicevano: “Noi investiremo più degli altri nell’educazione, nella sanità e nella tutela dell’ambiente”.
Una specie di emulazione virtuosa, per garantire maggior benessere sociale.
Esatto. Sono i tre temi su cui tutti fanno delle promesse. Poi magari non le mantengono, ma intanto… Intendiamoci, non è un paradiso il Costa Rica. Per esempio l’aborto è vietato.
Disarmo, rispetto dell’ecosistema e democrazia
Infatti nel suo libro mette in evidenza anche una serie di problemi legati alla condizione femminile. Però il Costa Rica, così come gli arcipelaghi del Pacifico a cui fa riferimento, sono in prima linea nella protezione della biodiversità e contro il cambiamento climatico. Mi sembra si tracci una relazione stretta tra disarmo e rispetto dell’ecosistema.
Giustissimo. Esiste proprio questo tipo di relazione. Possiamo dire, in generale, che la guerra non è compatibile con l’ecosistema. Tra le interviste che ho fatto, c’è quella a Luca Lombroso (dell’Osservatorio geofisico dell’Università di Modena e Reggio Emilia, ndr), a cui chiedo se è possibile una guerra “a emissioni zero”. Domanda provocatoria, perchè ovviamente la risposta è “no”. Un aereo militare che si alza in volo per fare un’esercitazione inutile, solo per dirne una, consuma dieci volte quello che consuma un volo che va da Roma in Messico. Quindi la relazione esiste, ed è fortissima. E questo l’ho visto benissimo in Islanda. Dove molti sono pacifisti. Quando ci sono stato mi sono innamorato della gente. Hanno un senso civico fortissimo. Le bandiere della pace sono in tutte le scuole, dove tutti i bambini le sventolano. Questi pacifisti non riescono a parlare di pacifismo senza parlare allo stesso tempo di tutela dell’ambiente. Difendere l’acqua pubblica per loro è pacifismo.
…lo è…
Lo è. Siamo noi che, qualche volta, che non vediamo la correlazione. Ma, in effetti, se prendiamo i Paesi senza esercito, sono tutti in prima linea per la tutela dell’ambiente.
Prendiamo il caso delle Isole Kiribati, i trentatre atolli sparpagliati in una zona dell’Oceano Pacifico grande almeno quanto l’Australia, dove non solo non c’è l’esercito ma non è stata neanche chiesta la protezione militare ad altri Paesi. In questo caso, come in Islanda, dove c’è stato uno dei processi costituenti dal basso più interessanti della storia recente, si può vedere invece un legame stretto tra democrazia dal basso e rinuncia all’esercito.
Si, certo. L’Islanda è sicuramente in prima linea anche su questo. Perchè ci fa capire che la pace è sempre, anche, una questione di democrazia. Prendiamo un esempio molto indicativo: quando aumentano le spese militari dello Stato parallelamente aumentano le spese militari della popolazione. Gli Stati Uniti sono il Paese più armato del pianeta e, allo stesso tempo, il Paese in cui la popolazione è più armata. Ed è anche il Paese dove la polizia è più armata, in assoluto. Il Costa Rica, tra i Paesi del Centro America, è il Paese la cui popolazione è meno armata. Non ho conosciuto nessuno con la pistola in casa. Al contrario di quello che ho trovato in Honduras, dove è difficile trovare qualcuno che non ha una pistola o un fucile in casa. Lo stesso accade in Nicaragua, in Salvador (sono i Paesi dove sono stato). Tutti vanno in giro armati. Più c’è democrazia più la gente chiede pace, più c’è partecipazione, più si tutela l’ambiente. È così che si capisce che dei militari si può fare veramente a meno.
Questa è la tesi centrale che penso si possa evincere leggendo il suo libro. A parte quelli già nominati, gli altri stati senza esercito hanno altre forme “per difendersi”, che dipendono da poteri non proprio pacifici. Come per esempio il potere religioso mondiale del Vaticano…
Quella è una categoria a parte, secondo me…
…ma anche la protezione economica del potere finanziario, dato che molti degli stati senza esercito sono dei “paradisi fiscali”, o alla protezione da parte di altri eserciti stranieri. Mi sembra che la maggior parte degli esempi che porta nel suo lavoro rientrano in questa macro categoria della difesa dovuta ad altri poteri…
Sì, ma esiste anche un’altra categoria. Sono gli Stati che non possono avere l’esercito perché non viene loro concesso. Come Panama o Grenada. Gli Usa ancora oggi si sono arrogati il diritto di intervenire a Panama, per esempio, nel caso fosse messa a rischio “la sicurezza mondiale”. Che non si capisce bene cosa voglia dire, ma presumo che ho dei criteri diversi per valutare la sicurezza mondiale rispetto agli Usa. Esistono anche degli Stati nel Pacifico che, una volta andato via il colonizzatore, sono stati obbligati a firmare degli accordi di assistenza militare da parte di altri Paesi. Come per esempio quel gruppo di isole che scompariranno per effetto del surriscaldamento climatico, e i cui cittadini dovranno per forza di cose stabilirsi in Australia. A parte il fatto che la popolazione è pacifica di per sé, e per questo non hanno avuto bisogno dell’esercito e la polizia è disarmata, ma i loro veri problemi sono ambientali e non di difesa. Non avrebbero bisogno di quell’accordo. Sono stati obbligati da un ricatto. Li hanno obbligati ad essere aiutati, in caso di aggressione, da altri eserciti. Lo stesso che è successo a quei Paesi, ex colonie inglesi, che sono entrati nel Commonwealth. Quella è stata una scelta obbligata. Nel caso dei paradisi fiscali, invece, direi che fanno comodo ad altri Paesi ricchi.
Soprattutto a dei soggetti privati, legati all’economia finanziaria. Che sono quelli che dominano l’economia mondiale.
Certamente. Ma fanno comodo anche al dollaro e ai Paesi ricchi. Sono una sorta di “valvole di sfogo” dove i privati, appoggiati dai governi, riversano i loro soldi. In effetti, questa è la garanzia di questi piccoli Stati, per non essere invasi, come avviene anche nel caso della Svizzera. Per sopravvivere. Alcuni di loro, infatti, visto che sono stati oggetto di esperimenti atomici, non possono più usare l’acqua, che arriva con dei container dagli Usa o dall’Australia. Nelle isole Marshal, per esempio, sono state fatte esplodere 47 bombe nucleari in una decina d’anni. Ciò significa che non possono neanche coltivare la verdura. Come non possono mangiare il pesce. Sono a tutti gli effetti delle vittime di guerra, più che degli “apostoli di pace”. Su questo ho avuto molte difficoltà a reperire informazioni, anche perché la politica oceanica non interessa a nessuno.
L’informazione al tempo della guerra in Ucraina
Nella seconda parte del suo libro, quando tratta delle “strategie di pace”, sottolinea alcune verità che dovrebbero diventare senso comune, ma che invece sono scomparse dalla discussione pubblica. Come l’impatto devastante delle guerre e della produzione delle armi sull’ecosistema, o quello che sottolinea Giulio Marcon (portavoce della campagna “Sbilanciamoci”) sulla possibilità e fattibilità di ridurre le spese militari, o di trasformare progressivamente l’esercito in un’istituzione sempre meno armata. Queste che sembrerebbero delle ovvietà e dei discorsi di buon senso, nel panorama dei nostri mass media raramente hanno trovano lo spazio che meritano. Anzi, sembrerebbe proprio che siamo circondati da un “silenzio assordante” su questi, come su altri temi pacifisti analoghi, mentre la guerra è tornata ad essere “pane quotidiano” per il sistema mediatico, anche a causa della guerra in Ucraina.
Condivido. Lo spazio per intervenire c’è. Ci sarebbe. Nessuna delle strategie di pace che riporto nel libro, come anche quella dell’ecofemminista Franca Marcomin, trova spazio. Tra l’altro, più in generale, una strada esiste già, ed è la bellissima agenda dell’Onu (Agenda 2030, ndr), anche sul disarmo. Questa agenda non comprende solamente l’obiettivo di ridurre le armi, ma indica anche di spendere progressivamente di meno e di affidare all’Onu alcuni reparti, alcuni armamenti, che permetterebbero di creare l’ormai famosa polizia mondiale. Ma la cosa che viene sottolineata, tra le altre, è che non basta ridurre l’esercito, ma bisogna sviluppare la democrazia. Più si allontanano gli eserciti, e più cresce la democrazia. Bisogna portare democrazia, anche all’interno dell’Onu. Dove ancora dominano cinque Stati sul resto del mondo. Chi può sviluppare democrazia? I Paesi aderenti all’Onu. Dato che ho poca speranza nell’Italia in questo momento, sarebbe importante che l’Europa si impegnasse in modo deciso in questo senso. Dovrebbe parlare dell’Agenda dell’Onu, per discutere sul da farsi. Su come seguire i punti indicati dall’Agenda. Come è stato fatto nel caso del Trattato di non proliferazione delle armi nucleari. Perchè farlo? Perché sarebbe una strada per sviluppare la democrazia. Anche perchè oggi, nel mondo, ce n’è sempre di meno, purtroppo. E perchè ci troviamo in una fase dove tutti si avventano sulle ultime, poche, risorse fossili del pianeta. Dove questa ultima fase del capitalismo sta massacrando il mondo. Alzando e rafforzando sempre di più la famosa “piramide del comando”, indicata invece dagli zapatisti come l’obiettivo da abbattere. La base è sempre più stretta e la punta sempre più alta. Aumentano contemporaneamente i ricchi e i poveri, e la forbice si allarga. Quindi, il problema, secondo me, è quello della democrazia. E nessuno ne parla. In un’altra intervista che riporto nel libro, lo psichiatra Ugo Zamburru parla della “divisa che divide”. La divisa divide in due: destra, sinistra. Giusto, sbagliato. Coppi o Bartali. Rivera o Mazzola. Ed è quello che fa la guerra. In questo conflitto ucraino, per esempio, come in tutti i conflitti, la prima vittima è sempre la verità. Di conseguenza è sempre un bavaglio per i giornalisti. Bisognerebbe attenersi alla realtà sostanziale dei fatti. Ma se la prima vittima è la verità, quali sono i fatti sostanziali a cui possiamo attingere? E come possiamo farlo se i giornalisti, dalla guerra del golfo in poi, sono sempre “embedded”? Loro lavorano sulle carte che gli arrivano dagli alti comandi.
Nel caso della guerra in Ucraina mi sembra che molti giornalisti si siano arresi al racconto forgiato dai militari, e quindi anche dall’industria bellica. Non trova?
Assolutamente sì, come ho appena cercato di spiegare. Ma non c’è solo questo. Con la guerra si diventa tutti tifosi. Nessuno “tifa” per la pace. O si tifa per l’Ucraina o per la Russia. Si è arrivati al paradosso per cui alcuni putiniani indicano nei pacifisti i veri “putiniani”. Prima lo sostenevano, e adesso è diventato il cattivo. Ovvio che esiste un aggredito e un aggressore. Ma non si vede nessuno sforzo diplomatico che chiama in causa l’Onu. E soprattutto non c’è nessun tentativo, nè prima che scoppiasse, nè dopo, di fare una vera politica di pace. Vogliamo parlare dei corpi civili di pace di Alex Langer? Tra l’altro, sono stati anche, in parte, finanziati. Ma non esiste nessun Paese che li ha davvero portati avanti. Ci sono anche molti giovani che vorrebbero fare le volontarie e i volontari in questi corpi civili di pace, ma non riescono a farlo. Se l’Europa li avesse usati bene, formati, strutturati, e poi inviati nel Donbass, dove gli ucraini non si comportavano proprio benissimo con chi parlava la lingua russa, forse Putin non avrebbe avuto l’occasione di intervenire. O forse sarebbe stato costretto a trovare un altro modo per farlo. Ma quello che è certo, è che non è stato fatto nessun tentativo dall’Europa in questo senso. Perchè l’obiettivo non è quello.
Come si spiega che esiste un giornalismo così gregario al potere militare e alla sua logica?
Lo metterei in relazione con la crisi internazionale del giornalismo. Anche con l’arrivo dei social media, che usano ancora di più la logica divisiva, e distinguono spesso tra chi è per Coppi e chi è per Bartali. Il giornalismo, in qualche modo, sta andando dietro ai social. Adesso è impossibile per un giornalista non passare attraverso i social. In un corso di giornalismo ho sentito dire da un docente: “Ragazzi non mi interessa quello che pensate dei social, è obbligatorio prenderli in considerazione”. E per certi versi aveva anche ragione. Per un giornalista è obbligatorio. Ma sono una serie di informazioni non verificate, e sono una serie di sensazioni che dividono, che ti impongono di stare o di qua o di là, che ti portano a stargli dietro. Ora, noi abbiamo iniziato a scrivere con la carta stampata, e quindi ci veniva chiesto di stare in un tot di battute e cartelle; oggi molti giornali online, anche nel caso di quelli molto belli, hanno perso di vista la pratica di condensare la notizia per ragionarci su e capire quali siano le cose importanti da esprimere. Oltre al fatto di andare dietro i social, di aver perso la funzione tipica del giornalismo, di sintetizzare e far riflettere, esiste anche il ricatto economico. È più facile guadagnare e restare del mestiere parlando bene o male di Putin, o fare un bell’articolo ma non vero, ben scritto ma pieno di invenzioni, piuttosto che seminare dubbi. Magari per via degli sponsor o dei lettori. Ma c’è alla base un ricatto economico.
Questa semplificazione, e questa logica quasi calcistica, che poi è la logica della guerra, o con me o contro di me, ha una delle sue radici nell’emergere e nell’affermarsi della comunicazione social?
I social hanno sicuramente portato a questa dicotomia. Hanno fatto in modo che si desse lo stesso peso, tra l’altro, all’intellettuale o alla persona che ha studiato, e conosce bene il problema, e a quello che non sa assolutamente nulla e che non si è informato, ma che vuole solamente parlare. Sui social queste due opinioni hanno esattamente lo stesso peso. Anzi, se vogliamo dirla tutta, più sei ignorante e più possibilità hai di sfondare sui social. A volte, come se non bastasse, davanti alla montagna di bugie dei social, non serve fare il fact checking. Che finisce per rafforzare le balle che si cerca analiticamente di confutare. Alla fine, se uno vuole credere a qualcosa, lo fa lo stesso. Il problema è che sui social l’articolo di colui che è stato sul campo di battaglia e racconta quello che ha visto, vale lo stesso di quello scritto con l’intelligenza artificiale.
Tutto ciò però genera un’informazione conformista. Non è un paradosso il fatto che il giornalismo è finito con l’essere uno strumento conformista?
Sì, è proprio un vero paradosso. Tra l’altro c’è conformismo non solo in una direzione, ma nelle due direzioni opposte. Da destra e da sinistra. Prendiamo l’esempio dei migranti. È un problema grande. Come tutti i problemi grandi, si possono generare delle risposte facili, semplici, accessibili a tutti, che però sono completamente sbagliate. Prendiamo il caso dei migranti che arrivano da noi e non rispettano i diritti delle donne. Che hanno matrimoni combinati o le cui figlie non vengono fatte andare a scuola. Questi sono dei veri problemi, e solo se sei di destra sembra che tu li debba affrontare. Invece, pur essendo inclusivi e accoglienti, bisognerebbe affrontare anche questo genere di problemi. Sia da destra sia da sinistra, il problema non viene affrontato. Sono uniformati agli stereotipi: accogliamoli tutti, perchè siamo tutti buoni, oppure respingiamoli, perchè non li vogliamo. Il giornalismo segue questi schemi, falsi e sbagliati. Anche per questo la sua crisi è globale.
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