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venerdì, Ottobre 4, 2024

Palestina, donne e clima: considerazioni amare di fine anno consolate da un’orchestra

Tre questioni derimenti per la nostra società sembrano lontane da una soluzione e ci ricordano il difficile rapporto dell’uomo con il limite. Ma aspirare all’armonia è ancora possibile

Nicoletta Fascetti Leon
Nicoletta Fascetti Leon
Giornalista pubblicista, allevata nella carta stampata. Formata in comunicazione alla Sapienza, in giornalismo alla Scuola Lelio Basso, in diritti umani all’E.ma (European Master’s Programme in Human Rights and Democratisation) di Venezia. Ha lavorato a Ginevra e New York nella delegazione UE alle Nazioni Unite. Vive a Roma e da nove anni si occupa di comunicazione ambientale e progetti di sostenibilità

Alcuni avvenimenti sul finire del 2023, sembrano fatti per ricordarci quali siano gli ostacoli invalicabili per un pieno sviluppo umano. Apparentemente scollegati tra loro, la guerra di Israele contro Gaza, a seguito dell’attacco di Hamas del 7 ottobre, la drammatica uccisione di una studentessa italiana da parte dell’ex fidanzato e, infine, il deludente risultato della Conferenza delle Parti di Dubai, sono eventi che raccontano la stessa storia sui nostri tempi e su di noi.

Per dirla in tre parole, l’uomo rifiuta il limite, aggiungendone altre tre, senza nessuna pietà.

Nessuna pietà in Palestina

La questione israelo-palestinese, per molti anni dimenticata dai media di massa, è un conflitto con radici profonde. È una catastrofe universale, paradigma della drammaticità di tutte le guerre, del fallimento della diplomazia e della politica internazionale, ma anche simbolo dell’impossibilità di conciliare e far convivere, nel rispetto delle differenze, due popoli legati da una storia comune di lotta e sopravvivenza.

Edward Said, intellettuale arabo in esilio in Occidente, teorizzò che comprendere ciò che accadde agli ebrei sotto il nazismo in Europa significa cogliere l’universalità dell’esperienza umana in circostanze catastrofiche. Significa riconoscere la sofferenza dell’altro, provare compassione e simpatia umana che, secondo Said, dovrebbero condurre al rifiuto assoluto dell’idea che sia possibile uccidere un essere umano per ragioni etniche, religiose o nazionalistiche.

La cronaca del conflitto israelo-palestinese continua a negare questo assioma. Netanyahu ha dichiarato di recente che niente fermerà l’attacco su Gaza, nemmeno le pressioni internazionali o le parole dell’ONU che descrivono “un inferno sulla Terra” per la popolazione civile palestinese. La violenza che rincorre altra volenza sembra confermare il rifiuto del limite, alla propria forza, al proprio bisogno di predominio e vendetta. Nega la “simpatia” umana, la compassione e la comprensione dell’altro.

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Nessuna pietà sul corpo di Giulia Cecchetin

La terribile cronaca del femminicidio di Giulia Cecchettin è un altro evento simbolico dell’assenza di simpatia umana e del rifiuto del limite al proprio dominio. Un copione della relazione tra i sessi con radici lontane, che ha fatto riecheggiare nel dibattito una parola quasi dimenticata: patriarcato. Un’altra questione derimente per la nostra società. È infatti il sessismo, secondo il pensiero femminista, alla base di tutte le forme di dominio. La storia ha avuto un unico protagonista, come unica è la rappresentazione del mondo che abbiamo ereditato. “Un dominio che – ci ricorda Lea Melandri – non ha solo sfruttato, sottomesso, violato il corpo femminile ma ha anche colonizzato la mente e i pensieri delle donne”.

La relazione tra i sessi che, seguendo il pensiero di Lea Melandri, interseca tutte le nostre appartenenze, è lontana dall’essersi pacificata, equilibrata, evoluta. L’uomo non sembra ancora capace di accettare i limiti al suo dominio, ma elimina gli ostacoli al suo primato. Sembrano ancora oggi evidenti i nessi tra sessismo, razzismo, colonialismo e così via. Alla lista si può aggiungere, oggi, l’atteggiamento nei confronti della questione climatica.

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Nessuna pietà per le catastrofi climatiche alla COP28

“Sembra – dice ancora Lea Melandri – che l’uomo si sia accanito sul corpo femminile come sulla natura”. Gli interessi economici legati alle fonti fossili, come dimostra l’esito deludente della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici a Dubai, sono più forti del rischio a cui espongono le popolazioni e i territori più fragili, come le piccole isole di Tuvalu, che rischiano di scomparire.

 La biologa americana Rachel Carson, nel suo noto Primavera silenziosa, già nel 1962 scrive: “L’uomo a mano a mano che procede verso i suoi conclamati obiettivi di conquista della natura, lascia dietro di sé una spaventosa scia di distruzioni dirette non soltanto verso la terra, ma anche verso gli esseri viventi che vi abitano assieme a lui”. È dal rapporto del Club di Roma del 1972, che sappiamo che la crescita infinita in un pianeta dalle risorse finite non è possibile. Sappiamo ad ogni COP che la lotta al cambiamento climatico diventa sempre più urgente. Eppure stentiamo ad occuparcene con coraggio, ci affidiamo a soluzioni tecnologiche di la da venire, rifiutiamo di accettare, ancora una volta, il limite.

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Il coro, l’orchestra e la pietà

Di recente il maestro Philippe Jordan ha diretto a Roma l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, che ha eseguito il Deutsches Requiem di Johannes Brahms. Il componimento, datato tra il 1865 ed il 1868, non è una musica liturgica ma una meditazione sulla morte, basata su testi dell’antico e del nuovo testamento. Il tema è il sentimento amaro della caducità, il profondo sconforto per il distacco dagli esseri amati ma è anche la consolazione, in una vita giusta e riscattata nell’Aldilà.

Oltre alla pietà universale che suscita il limite temporale sulla terra di tutti gli umani, colpisce nella settima parte del concerto, la maestosità del coro e la sua grandiosa fuga. La sintonia delle voci, l’unisono delle sezioni d’orchestra, provocano commozione, anche in chi è a digiuno di musica classica, e riempiono di speranza e fiducia per la bellezza e l’armonia di cui è capace, certe volte, l’uomo.

Il maestro Ezio Bosso usava ripetere che l’orchestra è come una società ideale. Dove ogni sezione nella sua singolarità (“non individualità”) è fondamentale e porta con sé la responsabilità dell’altro. Forse, se riuscissimo a essere più simili a dei componenti di un’orchestra o di un coro, ognuno consapevole del proprio limite e in sintonia (o simpatia) con gli altri, potremmo affrontare le sfide che ci attendono, con più speranza.

Quella speranza che ci trasmettono pensatori come Said, i pacifisti che lavoro per la convivenza in Israele e Palestina, intellettuali come Melandri, le femministe che riempiono le piazze di maree contro il patriarcato, scienziate come Rachel Carson e i giovani ambientalisti che portano in tribunale i governi per violazione dei propri diritti umani.  Quella speranza che certamente meritano la Palestina, le donne, il clima. Questioni che non possiamo fallire a meno che non vogliamo arrenderci alla narrazione amara di un uomo che rifiuta il limite, senza nessuna pietà, nemmeno per sé stesso.

© Riproduzione riservata

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