“Perché le donne sono più colpite dall’inquinamento da plastica (e come possono essere protette)?”. Titolava così, qualche tempo fa, un articolo su Vogue France. A fare da copertina l’immagine di una donna dal trucco vistoso e glitterato. “L’inquinamento da plastica inizia molto prima che un prodotto di plastica diventi un rifiuto. Inizia dal momento in cui viene creato, perché la plastica genera microplastiche nel corso del suo ciclo di vita” racconta a Vogue Rosalie Mann, presidente dell‘associazione No More Plastic.
Una questione di bellezza
“La nostra società – ricorda Mann – spinge le donne a usare tutti i tipi di prodotti di bellezza che contengono plastica. Di fronte alla pressione di rimanere giovani e belle, le donne usano quotidianamente creme, trucchi e smalti. Un quarto delle donne nei Paesi industrializzati usa fino a 15 prodotti di bellezza diversi ogni giorno”. Molti marchi cosmetici, spiega la presidente di No More Plastic, “aggiungono volontariamente microplastiche alle formule dei prodotti di bellezza e igiene. Queste microplastiche, chiamate ‘microbeads’, sono incluse in scrub per il viso e per il corpo, dentifrici, shampoo e creme da barba, ma anche in trucchi, smalti, creme solari e deodoranti”. E cita i dati della Plastic Soup Foundation: “Circa l’83% delle creme solari, l’80% dei disinfettanti per le mani, il 71% degli shampoo e il 61% delle creme per il viso contengono microplastiche nella loro formulazione”.
In Italia siamo (appena un po’) più fortunati: una legge del 2016 presentata dall’allora deputato Pd Ermete Realacci ha messo al bando (dal 2020) i “prodotti cosmetici da risciacquo ad azione esfoliante o detergente contenenti microplastiche”. Ma parliamo di una piccola parte dei prodotti per la bellezza. Nel 2021 Greenpeace Italia ha fatto incursione nel settore con un rapporto (“Il trucco c’è ma non si vede”) analizzando alcuni prodotti non inclusi nel divieto: “Rossetti, lucidalabbra, mascara, cipria e fondotinta, ovvero alcuni dei prodotti più comuni per il makeup, contengono ingredienti in plastica”. L’indagine ha riguardato 11 marchi presenti sul mercato italiano (Bionike, Deborah, Kiko, Lancôme, Lush, Maybelline, Nyx, Pupa, Purobio, Sephora e Wycon) e si è articolata in due fasi: una online, in cui sono state verificate le liste degli ingredienti di 672 prodotti; l’altra in laboratorio, per verificare la presenza di microplastiche in 14 prodotti.
Dal controllo delle liste dei componenti “è emersa la presenza di ingredienti in plastica nel 79% dei prodotti”. Tra questi, il 38% è costituito da plastiche in forma solida (le microplastiche) e il restante da polimeri in forma liquida, semisolida o solubile”. Le 5 marche con le percentuali maggiori di prodotti contenenti ingredienti in plastica, dall’analisi di Greenpeace, sono risultate: Lush (99%), Maybelline (85%), Deborah (84%), Sephora (83%) e Wycon (78%). I prodotti dove la presenza di materie plastiche è risultata più frequente sono invece, nell’ordine, mascara (90%), rossetti e lucidalabbra (85%), fondotinta (74%), illuminanti (69%), e ciprie (43%).
Le analisi di laboratorio – a causa dei limiti dell’attuale metodologia di analisi per i polimeri sintetici in forma liquida, semisolida e solubile – si sono concentrate esclusivamente sulla verifica della presenza di microplastiche, riscontrate in 10 prodotti su 14 prodotti. “I risultati ottenuti – commentava Greenpeace – evidenziano come gli ingredienti in plastica siano frequenti in numerosi prodotti che entrano in contatto con parti sensibili del nostro corpo come occhi e labbra, con la concreta possibilità di ingerirli. Servono quindi interventi a più livelli per evitare potenziali rischi per la salute umana e per l’ambiente”.
Ma il problema delle plastiche nei cosmetici può essere legato al genere? Riflette Federica Tommasi, ingegnere chimico e tecnologo dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS): “Se ci limitiamo ai soli cosmetici, e ricordando il bando italiano per alcuni prodotti con microplastiche, forse è uno dei pochi problemi legati alle MicroPlastiche (MPs) in esaurimento (vista la messa al bando ormai a regime), è inoltre vero che le donne si truccano e lo fanno più degli uomini, ma attualmente riscontriamo nelle generazioni più giovani una maggiore fluidità ed osmosi nei costumi sociali, tale che non è più così vero pensare ad una netta separazione tra uomo e donna nell’uso di questi prodotti. Può avere senso, in termini socio-culturali, per le generazioni oltre i 50 anni, ma non per quelle al di sotto di tale età. Basti pensare all’attenzione delle pubblicità per i prodotti per la bellezza e la cura per l’uomo che passano attraverso tutti i media. Non lo dico sulla base della letteratura scientifica, ma dall’esperienza condivisibile da tutti”.
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(Micro)Plastiche e salute
A questo punto la domanda essenziale è: che effetto fanno le microplastiche sulla salute persone? “Gli effetti negativi delle microplastiche sulla salute ci sono e sono documentati dalla recente letteratura scientifica internazionale”, sottolinea Tommasi. Che ci parla della “più referenziata, dettagliata e recente” review sul tema plastica e salute, coordinata (col supporto e contributo della Minderoo Foundation) dal professor Philip J. Landrigan (Global Observatory on Planetary Health, Boston College), luminare sull’argomento, e pubblicata su Annals of global health: “The Minderoo-Monaco Commission on Plastics and Human Health”.
La metanalisi (uno studio che analizza centinaia di altri studi) riporta le esposizioni alla plastica, e le loro conseguenze sulla salute, in tutte le fasi della vita dei polimeri: dall’estrazione delle materie prime al loro trasporto e lavorazione al consumo dei prodotti in plastica fino al riuso, riciclo, smaltimento, incenerimento. Non è questa la sede per illustrare la lunga serie di risultanze della metanalisi dell’equipe di Landrigan (dalle patologie di chi estrae il petrolio per dare vita alla plastica a quelle di chi lavora negli impianti di riciclo o in incenerimento): ci limiteremo a sintetizzare quanto si può leggere nell’abstract dello studio relativamente al consumo, la parte che qui più ci interessa
“Durante l’uso e anche durante lo smaltimento – leggiamo – la plastica rilascia sostanze chimiche tossiche, compresi gli additivi e i monomeri residui, nell’ambiente e nelle persone”. Gli additivi di plastica “alterano la funzione endocrina e aumentano il rischio di nascite premature, disturbi dello sviluppo neurologico, difetti riproduttivi maschili, infertilità, obesità, malattie cardiovascolari, malattie renali e tumori”. Le micro e nano plastiche (MNP) “cariche di sostanze chimiche” che si formano attraverso la degradazione ambientale dei beni e dei rifiuti plastici possono entrare negli organismi viventi, compresi gli esseri umani. “Le prove emergenti, anche se ancora incomplete, indicano che le MNP possono causare tossicità a causa dei loro effetti fisici e tossicologici, nonché agendo come vettori che trasportano sostanze chimiche tossiche e patogeni batterici nei tessuti e nelle cellule”. Ancora: “I neonati nel grembo materno e i bambini piccoli sono due popolazioni a rischio particolarmente elevato di effetti sulla salute legati alla plastica. A causa della particolare sensibilità dello sviluppo precoce alle sostanze chimiche pericolose e dei modelli di esposizione unici dei bambini, le esposizioni associate alla plastica sono collegate a un aumento del rischio di prematurità, di nati morti, di basso peso alla nascita, di difetti congeniti degli organi riproduttivi, di compromissione dello sviluppo neurologico, di alterazione della crescita polmonare e di cancro infantile. L’esposizione precoce alle sostanze chimiche associate alla plastica aumenta anche il rischio di molteplici malattie non trasmissibili in età avanzata”.
Lo studio coordinato da Landrigan valuta anche i costi economici legati ai danni della plastica alla salute umana: ”Secondo le nostre stime – si legge – nel 2015 i costi sanitari della produzione di plastica hanno superato i 250 miliardi di dollari a livello globale”.
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Una questione di biologia (e di emarginazione)
Il quadro non è rassicurante. Ma torniamo alla domanda iniziale: riguarda soprattutto le donne? Non per il makeup, abbiamo detto. Le cose cambiano se allarghiamo lo sguardo ai Paesi più poveri, dove “la donna subisce spesso una marginalizzazione sociale che comporta una maggiore esposizione alla plastica ed all’inquinamento che deriva dalla sua mancata corretta gestione. Vive in luoghi più contaminati, fa lavori più umili: nei Paesi sono infatti poveri donne e bambini gli informal pickers, ovvero coloro che frugano nelle montagne di rifiuti per la raccolta della plastica da avviare ad operazioni di recupero informali, molto spesso non gestite in modo da garantire la salute di tali operatori/trici”, spiega Tommasi.
Ancora Mann su Vogue: “In tutto il mondo, milioni di cosiddetti ‘raccoglitori di rifiuti’ arrancano ogni giorno nelle discariche a cielo aperto, dove l’accumulo di rifiuti può talvolta raggiungere gli 80 metri di altezza. La maggior parte di loro sono donne e bambini che passano le loro giornate alla ricerca di prodotti elettronici o di plastica cosiddetta ‘riciclabile’. Anche questo è il vero volto del business che ruota attorno alla plastica riciclata: lo sfruttamento di queste donne e bambini che inalano tutto il giorno i sottoprodotti chimici rilasciati dai rifiuti in decomposizione. Senza alcuna protezione, gli incidenti sono frequenti: tagli, ferite profonde e voragini. Più di due terzi delle vittime di questi incidenti sono donne”.
Ma soprattutto, centrale, è la questione biologica: “Le donne – argomenta il tecnologo dell’Istituto Superiore di Sanità – sono più sensibili ai rischi legati all’esposizione alle plastiche perché sono il soggetto deputato alla riproduzione e all’allattamento, e come tale il loro sistema endocrino è più sensibile, così come quello dei bambini sin dai primi stadi della crescita, a tutti quegli additivi usati negli articoli prodotti di (e con) la plastica che hanno la caratteristica di agire quali interferenti endocrini (fondamentalmente si tratta di Bisfenolo, Ftalati, Plastificanti)”.
Spiegava Rosalie Mann a Vogue: “Il corpo delle donne assorbe più facilmente le tossine delle sostanze chimiche presenti nelle materie plastiche perché la proporzione tra estrogeni e indice di massa corporea (IMC) nel sistema metabolico femminile è più elevata rispetto a quello maschile, il che implica una maggiore sensibilità a determinati interferenti endocrini presenti nelle materie plastiche. Le tossine si accumulano nelle zone con un maggior numero di cellule adipose (seno, glutei, fianchi e cosce), il che è particolarmente importante durante la pubertà, le mestruazioni, la gravidanza, l’allattamento e la menopausa”.
Per illustrare quanto il problema riguardi più direttamente le donne, Mann ricorda come “utilizzano ogni mese anche prodotti per l’igiene che contengono plastica. I tamponi contengono fino al 6% di plastica e gli assorbenti possono arrivare al 90% di plastica. In media, una donna in Francia utilizza tra le 12.000 e le 15.000 unità di questi prodotti per l’igiene femminile nel corso della sua vita. Secondo uno studio del 2022, si stima che dagli assorbenti vengano rilasciati in media 9,4 miliardi di fibre nanoplastiche, il che significa una media di 86.000 miliardi di fibre nell’arco della vita. La domanda rimane: come possono questi prodotti contenere ancora plastica quando conosciamo gli effetti nocivi di questo materiale sulla salute delle donne?”
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Anche età e fragilità contano
Nei suoi ragionamenti, Tommasi cita sempre i bambini, “la categoria più esposta”: “I bambini che oggi vivono nel plasticene (o, visto l’inquinamento ubiquitario della Plastica, potremmo dire nella Plastisfera), sono i più esposti: in fasi delicatissime della loro vita, particolarmente legate ai bilanci ormonali, entrano in contatto (per contatto dermico, inalazione, ingestione) con la plastica e con gli interferenti endocrini usati come additivi” (e vale la pena ricordare rapidamente qui l’appello della società italiana di endocrinologia, di quella europea e di oltre 40 associazioni di medici per la revisione del regolamento europeo REACH sulle sostanze chimiche per “ridurre la presenza di sostanze chimiche nel nostro ambiente che interferiscono con il sistema endocrino”).
Il contatto con la plastica risale addirittura alla gestazione, “come ha documentato nel 2021 il professor Antonio Ragusa, ginecologo del Fatebenefratelli di Roma – racconta Tommasi – fatto citare a suo tempo, come avanguardia della ricerca italiana, nel documento “Policies to reduce microplastics in water” (OECD, 2021) poi assorbito anche nel Global Plastic Outlook della stessa Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OECD)”. Lo studio ha infatti dimostrato la presenza di microplastiche nella placenta: “Segno di un’esposizione profonda, visto che si trova nel mezzo di nutrimento del feto già nei primi stadi di evoluzione, nel corpo materno”.
Soggetti fragili particolarmente esposti agli effetti negativi della plastica sono le persone malate, che necessitino di cure ospedaliere, anche prolungate (a partire, ancora una volta, dai più piccoli), come i dializzati o gli emotrasfusi. “Per ricevere cure sanitarie, infatti, i piccoli pazienti – anche neonati – vengono quasi sempre a contatto con dispositivi medici che per la gran parte sono dei prodotti in plastica realizzati coi plastificanti di cui abbiamo già parlato, i quali impattano, come effetto collaterale, sulla salute del neonato. Pensiamo a tal proposito ai neonati in terapia intensiva: per intubare, alimentare, cateterizzare, e somministrare farmaci endovena tali prematuri, si impiegano dispositivi medici prodotti in plastica (quasi tutti, e molto spesso plastificati). All’interno dell’organismo questi materiali plastici ed i loro additivi possono venire a contatto coi fluidi corporei ed essere assorbiti dall’organismo, esponendo i piccoli pazienti ad una serie di sostanze indesiderate che hanno effetti avversi alla loro salute, pur nell’intento di somministrare loro delle cure”. Se loro sono i più fragili fra i fragili, pensiamo anche ai pazienti cronici, come i dializzati, “sottoposti loro malgrado al rischio legato a rilascio, durante l’infusione del sangue, di questi plastificanti”.
Una preoccupazione che ha spinto la Ong Health Care Without Harm Europe (HCWH) a provare a cambiare le cose: “Con il supporto ed il coordinamento di colleghi di HCWH insieme ad altri Ricercatori sparsi per l’Europa ho partecipato alla redazione di uno studio per sostenere la restrizione del PVC nell’UE e l’eliminazione del PVC dal settore sanitario“. Nel documento possiamo leggere che “numerosi studi rivelano che la produzione, l’uso e lo smaltimento del PVC comportano gravi rischi per la salute e l’ambiente, sottolineando la necessità di eliminare il PVC. Ciò è particolarmente importante nel settore sanitario, dove il PVC plastificato è una fonte di esposizione: infatti i pazienti entrano spesso in contatto con sostanze nocive, come i plastificanti utilizzati nei dispositivi medici prodotti in PVC (PoliVinilCloruro). Questo rappresenta un rischio significativo per pazienti vulnerabili sottoposti a molteplici interventi medici o che sono esposti a terapie croniche per periodi prolungati, tra cui i neonati in terapia intensiva neonatale o i pazienti in dialisi”. Le alternative senza PVC sono già in uso, fa sapere il Report cui ha partecipato anche Tommasi, “e molti Paesi hanno avviato una eliminazione graduale per alcune categorie di prodotti adattando i criteri di acquisto per i prodotti sanitari, cosa cui potremmo uniformarci anche in Italia, implementando, nel Servizio Sanitario Nazionale, un Public Procurement sostenibile e verde per l’ambiente ma soprattutto a minor impatto per la salute umana”.
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