L’uso globale dell’idrogeno (formula chimica H2) è in espansione, lo conferma l’ultimo report pubblicato dall’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA). Tuttavia, la domanda è monopolizzata da raffinazione e industria chimica. Nel 2022 solo lo 0,1% della domanda globale di H2 proveniva da nuove applicazioni nell’industria pesante e nei trasporti.
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Rischi e opportunità del “vettore del futuro”
L’idrogeno è un vettore energetico, prodotto e raccolto da una fonte di energia precedente. A seconda di come questo avviene si distinguono diversi “colori” di idrogeno di cui solo due si qualificano come low-carbon. L’H2 verde prodotto per elettrolisi dall’acqua usando energia elettrica rinnovabile; e l’H2 blu, prodotto a partire da combustibili fossili con cattura e stoccaggio delle emissioni di carbonio (tecnologia CCS).
C’è chi sostiene che sia necessario passare dall’idrogeno blu per stimolare il mercato – ancora relativamente rachitico – dell’H2 affinché possa vestirsi poi solo di verde. C’è chi mette in guardia dal fatto che questo compromesso strizzi l’occhio ai giganti dell’oil & gas.
Ma al di là della diatriba verde e blu, solo verde, prima blu e poi verde, il 99,3% della domanda globale di idrogeno nel 2022 è stato coperto dall’idrogeno grigio, prodotto da combustibili fossili senza CCS.
La IEA ha detto chiaramente che “c’è bisogno urgente di spostarsi verso l’idrogeno a basso contenuto di carbonio”. Il problema è che costa molto di più, fino a 4 volte di più. C’è tuttavia spazio per l’ottimismo.
L’energia elettrica rinnovabile ha raggiunto costi minimi storici, la capacità globale di elettrolisi continua a crescere e la nascita di economie di scala per queste tecnologie potrebbe abbattere notevolmente i costi di produzione dell’idrogeno verde.
Una volta prodotto, però, bisogna anche pensare a come stoccare, trasportare e distribuire l’idrogeno. Il trasporto impatta fortemente sui costi finali e pone particolari questioni di sicurezza. Sulla breve distanza è possibile trasportare l’idrogeno su strada con una buona efficienza. Su medie e lunghe distanze la questione diventa complessa; in particolare per le tratte e i volumi che impongono il trasporto via mare. La densità estremamente bassa dell’idrogeno implica che converrebbe trasportarlo in forma liquida. Il condizionale è dovuto.
Converrebbe se non fosse che per liquefare l’H2 bisogna raffreddarlo a -252,87°C, un processo chiaramente molto energivoro. Laddove il trasporto avviene in forma gassosa tramite condotti (pipe), si pongono altri problemi ancora.
In un’ottica (futura) di grande sviluppo del mercato, l’idea è quella di riconvertire l’infrastruttura esistente per il trasporto del metano all’idrogeno – con le dovute modifiche – e costruire nuovi condotti. Il fatto è che queste dovute modifiche implicano l’uso di acciaio ad alta resistenza, leghe speciali, guarnizioni e giunte progettate appositamente per alte volatilità del gas, condutture (pipe) resistenti alla corrosione etc., per costi potenzialmente molto significativi, come osservato dal think tank italiano AWARE.
Alcuni sostengono che il problema possa essere ovviato inizialmente con l’iniezione progressiva dell’idrogeno, ovvero miscelandolo al metano. Questa proposta pone per AWARE “il rischio che l’iniziale dipendenza dello sviluppo della catena del valore dell’idrogeno dall’infrastruttura del gas naturale prolunghi il peso di questa fonte fossile nei sistemi energetici”, da cui l’importanza di adeguati incentivi e sostegno finanziario per lo sviluppo e l’implementazione delle tecnologie dell’idrogeno verde, nonché investimenti in R&D.
Numerosi studi hanno valutato la possibilità di adattare l’infrastruttura di trasporto esistente con diversi livelli di blend (miscele) di idrogeno, di solito fino al 20% in volume. “L’attuale infrastruttura di trasmissione su lunga distanza sarebbe relativamente pronta a gestire blend significativi di H2 in volume, ma c’è il problema delle reti di distribuzione agli utenti finali”, spiega il professor Michel Noussan, ricercatore presso il Dipartimento di Energia del Politecnico di Torino. Oltre a quesiti di inerzia infrastrutturale e sicurezza, c’è anche un tema di inefficienza legato a questi blend. Al di là di sperimentazioni isolate come quella recentemente conclusa da Snam in cui una miscela di metano e idrogeno al 10% è stata usata per alimentare le turbine dell’impianto di compressione di gas naturale di Istrana nel trevisano; i blend sarebbero destinati ad alimentare le caldaie domestiche, vanificando il costo di produzione e trasporto dell’idrogeno, o ad essere nuovamente divisi con ulteriori perdite.
Tutte queste criticità fanno dell’idrogeno “un vettore energetico molto prezioso, che quindi andrebbe utilizzato per applicazioni specifiche”, sottolinea il professor Noussan.
Applicazioni nei trasporti
Lo spoiler c’era già nel titolo. L’idrogeno non ha un ruolo da protagonista nella decarbonizzazione del settore dei trasporti. Partiamo dalla mobilità leggera su gomma dove, a dispetto di grandi slogan di inizio anni 2000, la domanda per l’idrogeno è irrisoria.
Perché? “Perché la tendenza è la batteria”, spiega il responsabile trasporti del think tank ECCO Massimiliano Bienati. Le prestazioni delle batterie continuano a migliorare e il mercato dei veicoli elettrici cresce esponenzialmente (dal 4% delle vendite del 2020 al 14% del 2022), mentre chi aveva puntato tanto sulle auto a fuel cells (celle a combustibile) alimentate ad idrogeno – come Toyota – ha fatto un deciso passo indietro. La differenza in termini di maturità e capillarità del mercato tra batterie e idrogeno è abissale.
Qualche applicazione di nicchia c’è, vedi la flotta di taxi Hype a Parigi. Oppure vedi l’interesse di alcuni marchi di auto di lusso verso l’idrogeno, non tanto per alimentare le fuel cells quanto per ottenere combustibili sintetici che mantengano in vita la tradizione del motore endotermico.
D’altra parte, l’idrogeno offre alcuni vantaggi rispetto all’elettrico puro (velocità di ricarica e autonomia) in virtù dei quali potrebbe avere un’applicazione nella mobilità pesante su gomma, come riconosciuto dalla stessa Toyota. Qui entra la testimonianza di Eni, proprietaria di una delle due stazioni di rifornimento a idrogeno attive e accessibili al pubblico in Italia (Mestre). Nell’audizione del 16 gennaio in seno all’8° Commissione Permanente del Senato, il direttore di Affari Pubblici di Eni, Lapo Pistelli, ha definito la mobilità a idrogeno “ampiamente acerba” raccontando che la stazione serve oggi solo una piccola flotta di camion (heavy duty) che fa la spola tra la Germania e Trieste.
Proprio nell’heavy duty ci sono migliori prospettive di crescita per l’idrogeno perché questo tipo di mezzi percorrono sempre le stesse tratte, facilitando la pianificazione di un’adeguata rete di stazioni di rifornimento; rete che in qualche modo si dovrà comunque realizzare a prescindere dalla domanda perché prevista dalla direttiva 2014/94/UE.
Quindi c’è qualche prospettiva per la mobilità a idrogeno su gomma, ma è concentrata in poche nicchie, combustibili sintetici per auto d’élite e heavy duty, e probabilmente non crescerà oltre a quanto già stabilito a livello europeo.
E nel trasporto ferroviario invece?
La strategia largamente condivisa dagli esperti dovrebbe essere quella di elettrificare le tratte a diesel e solo laddove non sia possibile – o conveniente – optare per l’idrogeno. La conversione a idrogeno ha il vantaggio di non richiedere stravolgimenti dell’infrastruttura ferroviaria, ma implica importanti costi relativi alla costruzione e all’approvvigionamento di sufficienti stazioni di rifornimento lungo la linea.
È indicativo che la Germania – paese pioniere nella sperimentazione di idrogeno nella mobilità ferroviaria – abbia fatto decisivi passi indietro su questo fronte, sebbene senza abbandonarlo del tutto. Insomma: anche su rotaia c’è una piccola fetta per l’idrogeno, ma solo dove l’opzione elettrica non è realizzabile per complessità tecniche o valutazioni economiche.
Infine il trasporto pesante, nave e aereo, dove l’elettrificazione ha un potenziale limitato. Se nel trasporto marittimo esistono casi di collegamenti su tratte medie, in quello aereo non si va oltre distanze irrisorie. Qui “l’idrogeno sostenibile emerge come elemento cruciale grazie ai suoi derivati” secondo AWARE.
Per il trasporto navale di lunga percorrenza si parla di ammoniaca derivata da idrogeno verde; per l’aviazione si parla di jet fuel derivati da idrogeno (anche qui verde). Soluzione quest’ultima che secondo il dirigente di ENI Lapo Pistelli non è “nemmeno futuribile”.
Oggi ammoniaca e jet fuels prodotti da idrogeno verde non reggono la competizione con i biocombustibili, ma la situazione potrebbe cambiare in futuro. Questo “anche e soprattutto in considerazione della limitata disponibilità di biocarburanti avanzati in grado di offrire una buona, per quanto mai completa, riduzione delle emissioni di CO2“, sottolinea Bienati; e aggiunge “entrambi questi vettori energetici, biocarburanti avanzati e idrogeno, si devono considerare al pari di risorse scarse” da usare quindi strategicamente.
E allora l’idrogeno dove va?
Se non nei trasporti bisogna chiedersi dove metteremo quel +12% di idrogeno previsto nel mix energetico europeo al 2050. Oltre agli usi già consolidati, si prevede un’importante applicazione dell’idrogeno nelle produzioni industriali definite hard to abate (acciaio, ceramica, vetro, etc.). Processi altamente inquinanti e non elettrificabili.
Secondo Massimiliano Bienati, è verosimile che la gran parte della produzione di idrogeno prevista dai progetti Pnrr per le hydrogen valleys venga assorbita da questi settori. Un altro potenziale uso dell’idrogeno potrebbe essere lo stoccaggio dell’energia rinnovabile in eccesso, dove tuttavia c’è una competizione importante con le batterie. L’esito di questo confronto dipende anche dalla possibilità di approvvigionamento responsabile di minerali critici e soprattutto da un migliore riciclo degli stessi.
Lo sviluppo della filiera dell’idrogeno è comunque un obiettivo dichiarato del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza per uno stanziamento complessivo di 3,6 miliardi di euro, cui aggiungere parte dei fondi del REPowerEU. Quanto e su quali misure non è ancora chiaro, spiega Martina Lovat della fondazione Openpolis. Mancano dati aggiornati.
Certo è che con sole due stazioni di rifornimento per auto operative (Mestre e Bolzano) e un’unica linea ferroviaria pronta a partire a fine anno sulla tratta Brescia-Edolo, siamo lontani dagli obiettivi per la mobilità fissati al 2026.
I bandi per le stazioni di rifornimento su strada (36 nuove da obiettivo) soffrono della fumosità del quadro normativo europeo, dello stadio acerbo della sovrastruttura di produzione, e della prospettiva di sottoutilizzo iniziale.
Su rotaia, il caso della tratta Terni-Sulmona ha messo in luce le difficoltà tecniche ed economiche della conversione a idrogeno, evidenziate dal Ministro Musumeci nella risposta all’interrogazione parlamentare presentata dalla deputata pentastellata Ilaria Fontana.
Secondo i collaboratori dell’on. Fontana, in questo caso l’ostacolo è stato di natura principalmente economica ed era in realtà superabile (mancavano circa dodici milioni all’appello a fronte di 120 totali) soprattutto considerati i costi ancora più insostenibili per l’elettrificazione della tratta.
E quindi? Quindi siamo rimasti con una linea a gasolio.
Viene da chiedersi se e quanti dei progetti del Pnrr legati alla mobilità a idrogeno verranno realizzati, ma la limitatezza delle applicazioni dell’idrogeno nei trasporti è evidente molto al di là dell’inerzia dei progetti italiani. A fronte di grandi obiettivi di produzione e di capacità infrastrutturale, l’idrogeno avrà con ogni probabilità un ruolo consistente, ma settoriale, nella transizione verso un’economia decarbonizzata.
Questo articolo è stato realizzato nell’ambito del workshop conclusivo del “Corso di giornalismo d’inchiesta ambientale” organizzato da A Sud, CDCA – Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali ed EconomiaCircolare.com, in collaborazione con IRPI MEDIA, Fandango e Centro di Giornalismo Permanente
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