Il nome dell’avvocato statunitense Robert Bilott è da più di vent’anni legato indissolubilmente alla lotta ai PFAS e all’inquinamento chimico: da quando alla fine degli anni Novanta ricevette la telefonata di un agricoltore di Parkersburg, in West Virginia, Wilbur Tennant. Il bestiame di Tennant stava morendo senza alcun motivo apparente e secondo Tennant la causa era la vicinanza a un sito dove l’azienda DuPont – si sarebbe scoperto in seguito – scaricava tonnellate di PFOA (una sostanza chimica della classe dei PFAS, noti anche come “forever chemicals”).
Fino ad allora, però, nessuno tra le autorità locali, medici, avvocati o giornalisti lo aveva ascoltato. Nel 1999 Robert Bilott intentò causa all’azienda e diede il via a un processo che, quasi vent’anni dopo, stabilì le responsabilità di DuPont e i relativi risarcimenti alla cittadinanza. E soprattutto portò per la prima volta all’attenzione globale queste sostanze, diventando l’emblema della lotta dei cittadini contro l’ingiustizia ambientale e l’inquinamento delle imprese mosse dalla logica del profitto a tutti i costi. Raggiunto nel suo studio negli Stati Uniti da EconomiaCircolare.com, Bilott non ha ancora interrotto la sua battaglia.
Se il caso DuPont è da un lato il segnale che qualcosa si può fare anche di fronte allo strapotere delle multinazionali, dall’altro ha evidenziato il fallimento della politica: perché secondo lei su questi temi manca il coraggio di agire?
La regolamentazione sui PFAS è estremamente carente e il percorso di presa di coscienza è stato lento e pieno di ostacoli. Prove sulla tossicità, la persistenza, il bioaccumulo e la possibile cancerogenicità di queste sostanze chimiche c’erano già da decenni, ma sono state insabbiate dalle aziende che le producevano e nascoste alle agenzie governative e alle autorità di regolamentazione. Era il 6 marzo 2001 quando per la prima volta ho avvertito l’Agenzia per la protezione dell’ambiente degli Stati Uniti sui pericoli di queste sostanze che erano ovunque, arrivavano fino all’acqua potabile, non erano regolamentate e perciò era necessario intervenire in fretta.
Eppure ci sono voluti anni perché la verità sui PFAS venisse divulgata e raggiungesse non solo gli ambienti governativi, ma quelli scientifici, i media e il grande pubblico. Nel mentre le aziende che li producevano continuavano a mettere ostacoli, a sostenere che i dati erano incompleti e non si potesse affermare nulla di definitivo sulla tossicità dei PFAS. Sono passati 23 anni e negli Stati Uniti abbiamo ottenuto solo adesso che il governo federale annunciasse l’intenzione di regolamentare due di queste sostanze e che i PFAS venissero per la prima volta considerati sostanze pericolose ai sensi delle leggi federale: ma stiamo ancora aspettando l’ufficialità di queste misure.
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Le istituzioni locali, dalle amministrazioni comunali alle agenzie di protezione ambientale, quelle che dovrebbero tutelare la salute dei cittadini e garantire i loro diritti, sono all’altezza della sfida dei PFAS? Oppure hanno avuto un ruolo nella diffusione di questi inquinanti?
È un aspetto che ho cercato di spiegare nel mio libro Exposure. Il problema innanzitutto è che molto spesso le agenzie di protezione ambientale ricevono informazioni errate da parte dei produttori di PFAS. Ma nei casi peggiori, sono state direttamente influenzate dalle lobby di queste industrie e addirittura dipendenti delle agenzie governative sono stati successivamente assunti dalle stesse aziende che avrebbero dovuto controllare.
Perciò bisogna assicurarsi che le agenzie per la protezione dell’ambiente non siano influenzate in modo improprio, che rimangano indipendenti e ottengano in maniera trasparente tutte le informazioni di cui hanno bisogno per le loro indagini. Purtroppo, però, sono quasi sempre sotto organico, con sovraccarichi disumani di lavoro e sottofinanziate: anche senza influenze indebite lavorare bene in queste condizioni è complicato.
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Pensa che a livello governativo, la ragione economica abbia prevalso sulla salute pubblica dei cittadini?
Sicuramente la regolamentazione di queste sostanze chimiche avrà un impatto economico, perché negli ultimi decenni sono state utilizzate in moltissimi prodotti che non potrebbero essere più commercializzati se affrontassimo seriamente il problema. Sono presenti negli involucri dei fast food, negli imballaggi, negli abiti, nelle moquette, nei cosmetici, nei chip dei computer, nelle schiume antincendio. Più in generale in quasi tutto ciò che è impermeabile all’acqua e ai grassi. Dobbiamo però chiederci: è più importante dare priorità ai possibili impatti economici come hanno fatto finora i governi su pressione delle aziende produttrici di PFAS o pensare alla salute pubblica di miliardi di persone? Peraltro i casi in cui i PFAS sono stati regolamentati e limitati non hanno mai portato alla chiusura di nessuna azienda.
Ci sono oltre 10.000 PFAS prodotti nel mondo, e solo di pochi conosciamo le conseguenze sulla salute. Secondo lei è sensato applicare il principio di precauzione rispetto all’uso di tutte le altre sostanze? Sarebbe possibile farlo?
Inizialmente avevamo scoperto la pericolosità di PFAS con una catena a otto atomi di carbonio, i cosiddeti “C8” come il PFOA e il PFOS. Quando il problema è emerso, la comunità scientifica e molte autorità di regolamentazione di tutto il pianeta hanno iniziato finalmente a interessarsi e hanno cominciato a regolamentarli. Il problema è che le aziende hanno smesso di produrre quelli con otto atomi di carbonio, modificandone leggermente la struttura, ma di fatto continuando ad utilizzare la stessa sostanza chimica nei soliti prodotti. Le nuove sostanze sono tantissime: con meno atomi come i C4 e C6 o con più atomi, come i C9 e C10. E potrebbero esserci altre migliaia di prodotti chimici correlati, con gli identici problemi di tossicità, persistenza e bioaccumulo.
Le aziende si appigliano agli studi in cui sono stati approfonditi solo i rischi dei C8 e quindi sostengono che andrebbero fatte nuove ricerche sulle altre sostanze, in una rincorsa senza possibilità di successo visto che ci sono voluti venti anni per dimostrarne la pericolosità e, anche nel caso si riuscisse ad arrivarci in tempi brevi per le altre sostanze, nel mentre le aziende ne avrebbero prodotte di nuove, usando noi cittadini come cavie umane. Per questo motivo non si può più procedere una sostanza alla volta: immetterla sul mercato, studiarla, scoprire che è pericolosa e, infine, vietarla. Quello che molti scienziati e medici adesso sostengono è che è necessario un bando dell’intera classe PFAS, frutto di un approccio il più precauzionale possibile.
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L’Unione europea nella recente regolamento imballaggi (PPWR) ha previsto il bando dei PFAS nel packaging del cibo. La situazione in Europa è dunque migliore?
L’approccio europeo tende a essere più precauzionale di quello statunitense. Invece di regolamentare i PFAS uno per uno, in una rincorsa teoricamente infinita, come fanno gli Stati Uniti, l’Unione europea sta considerato queste sostanze un’unica classe, come dimostra il recente divieto di impiegare tutte le tipologie di PFAS nel Regolamento imballaggi (PPWR). Tuttavia, proprio come negli Stati Uniti, sto vedendo una reazione molto organizzata da parte dell’industria contro l’idea di regolamentare tutti i PFAS.
Una delle principali strategie con cui le lobby tentano di opporsi è l’argomentazione che limitare queste sostanze chimiche potrebbe avere un impatto sulla transizione energetica e digitale, perché presenti in molte tecnologie importanti nel campo delle energie rinnovabili e nei semiconduttori. È vero che queste sostanze sono impiegate anche in questi ambiti, ma ritengo che sia sbagliato concentrare tutta l’attenzione solo su questi utilizzi, che rimangono comunque marginali se consideriamo la diffusione dei PFAS in tanti altri settori.
Affrontare l’intera classe dei PFAS con un approccio precauzionale è, infatti, l’unico modo in cui la maggior parte degli scienziati ritiene si possano prevenire i danni alla salute pubblica prima che sia troppo tardi. C’è chi sostiene che l’onere della prova dovrebbe essere invertito: dimostrare prima di usarle che queste sostanze sono sicure, piuttosto che provare la loro dannosità solo dopo che sono state in circolazione per anni.
Perché le aziende si ostinano a usare i PFAS, non ci sono alternative?
È la tesi delle aziende produttrici di PFAS: ogni volta che c’è un tentativo di regolamentazione, sostengono che non ci sono alternative altrettanto efficaci e con un prezzo altrettanto basso, ma la realtà delle cose è un’altra: ogni volta che sono state messe fuori legge, sono state trovate in fretta soluzioni per continuare a produrre gli stessi oggetti. Un ottimo esempio viene dalla Danimarca, con le confezioni di popcorn per microonde. Quando il governo ha vietato l’uso dei PFAS come prima reazione le aziende hanno detto che era impossibile continuare a produrli senza usare queste sostanze. Ma l’esecutivo è andato avanti con le restrizioni e nel giro di alcuni mesi sono arrivati sacchetti senza PFAS. Lo stesso sta accadendo per quanto riguarda le schiume antincendio, dove la ricerca sta velocemente trovando nuove generazioni di schiume prive di fluoro ma con elevate prestazioni.
In base alla sua esperienza, noi comuni cittadini siamo abbastanza informati sui rischi di queste sostanze? Il mondo dell’informazione fa abbastanza?
Purtroppo la consapevolezza generale del pubblico sui PFAS è stata molto carente per parecchio tempo e continua ad esserlo. Questo è uno dei motivi per cui abbiamo cercato di sensibilizzare l’opinione pubblica con un’opera di divulgazione attraverso il mio libro Exposure, il film Dark Waters o il documentario The Devil We Know. Volevamo assicurarci di far capire ai cittadini che la stessa sostanza chimica scoperta in una piccola cittadina del West Virginia la troviamo ovunque, è prodotta dalle solite aziende e ha lo stesso potenziale cancerogeno.
Non è facile perché si tratta di sostanze chimiche di cui la maggior parte delle persone non ha mai sentito parlare. Non si vedono, non hanno sapore né odore. Hanno nomi difficili da pronunciare e negli anni sono cambiati continuamente: C8, PFOA, PFAS, forever chemicals. Si tratta sempre degli stessi composti chimici, ma ciò ha contribuito ad aumentare la confusione. Sensibilizzare un numero crescente di persone è l’unico modo per fare la differenza e, fortunatamente, anche in Europa, diversi media stanno facendo una corretta informazione.
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Ha dei consigli da dare a tutti quei singoli cittadini o associazioni che lottano contro poteri che sembrano inattaccabili?
È assolutamente importante far capire che ogni cittadino può far sentire la propria voce. La storia raccontata nel film Dark Waters sul signor Tennant è l’esempio di come una singola persona si è opposta all’ingiustizia, nonostante dall’altra parte ci fosse una delle più grandi aziende chimiche del pianeta e sebbene ci siano voluti molti anni, è riuscito a resistere e a cambiare le cose in meglio. Sempre più consumatori stanno prendendo posizione contro la presenza delle sostanze chimiche nei prodotti che usiamo quotidianamente e questo ha un potenziale dirompente.
Succede con crescente frequenza che le aziende, prima ancora degli interventi normativi del governo, volontariamente decidano di intercettare questa nuova consapevolezza e preoccupazione dei consumatori. Così assistiamo a rivenditori di abbigliamento o fast food che esplicitamente dichiarano di non avere imballaggi con PFAS. Ci sono state aziende di cosmetici che si sono pubblicamente impegnate a non usare più queste sostanze e addirittura lo scorso anno la 3M, uno dei principali produttori di PFAS al mondo ha annunciato che smetterà completamente di produrli entro la fine del 2025.
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