Nel mondo, le donne che lavorano in agricoltura rappresentano quasi il 40% della forza lavoro, lo apprendiamo da un rapporto pubblicato lo scorso anno dalla FAO dal titolo The status of women in agrifood systems. Nella prefazione si legge che “i sistemi agroalimentari efficienti, inclusivi, resilienti e sostenibili dipendono dall’emancipazione di tutte le donne e dall’uguaglianza di genere. Le donne hanno sempre lavorato nei sistemi agroalimentari. È ora di fare in modo che i sistemi agroalimentari funzionino per le donne. Incoraggiamo tutte le parti interessate a impegnarsi e a unirsi a noi nell’aumento dell’uguaglianza”. Eppure questa uguaglianza è ancora lontana perché, sempre nel rapporto, si legge che nel mondo le donne guadagnano 82 centesimi per ogni dollaro che guadagnano gli uomini.
Lo scorso 13 aprile si è svolto nella città tunisina Le Kef, un workshop organizzato dal Cife, Conseil International des Femmes Entrepreneurs, sul ruolo delle donne imprenditrici nella promozione dell’agricoltura biologica, dell’agritech e dello sviluppo agricolo sostenibile. Ma cosa vuol dire oggi in Tunisia portare avanti dei progetti che uniscono programmi di empowerment femminile e rispetto dell’ambiente?
Lo abbiamo chiesto a Carla Pagano, studiosa di paesi arabi e islamici e di studi di genere e esperta di politiche pubbliche e uguaglianza di genere. Carla Pagano è attualmente dottoranda all’università L’Orientale di Napoli in storia, cultura e società Asia, Africa e Mediterraneo con una ricerca sulle politiche europee per l’uguaglianza di genere applicate ai sistemi alimentari in Marocco e Tunisia.
Partiamo dall’inizio cosa si intende per sistemi alimentari?
Per sistemi alimentari intendiamo tutto ciò che ruota intorno alla produzione del cibo quindi l’agricoltura, la pesca però anche la distribuzione del cibo, la commercializzazione, la gestione dei rifiuti, dell’acqua e dell’energia.
Secondo la tua esperienza lavorativa, ormai di tanti anni, a che punto sono questi paesi sulle politiche pubbliche ambientali?
In tutto il Maghreb, in particolare in Tunisia e Marocco, c’è molta attenzione alle politiche ambientali. Entrambi i paesi hanno adottato una serie di strategie settoriali che sono in linea con alcune politiche europee come ad esempio il Green Deal e il Blue Deal che mirano alla sostenibilità ambientale e delle risorse idriche. In Marocco e Tunisia, la Commissione europea, così come diversi Stati europei, tra cui l’Italia, finanziano politiche governative volte a sostenere gli impegni internazionali che i due paesi hanno assunto in merito alla riduzione delle emissioni di gas serra e CO2 ma non solo. Per esempio, in Marocco nel 2008 è stato lanciato il Piano verde, poi rinnovato nel 2015 e nel 2020 sostituito dal nuovo Piano Generazione Verde 2020-2030 che prevede, tra le altre cose, investimenti privati per la meccanizzazione dell’agricoltura e lo sviluppo di politiche volte all’accompagnamento solidale delle piccole imprese agricole, attraverso il miglioramento del reddito degli agricoltori più precari, specialmente nelle zone rurali. In Tunisia, ai tempi del regime di Ben Ali, c’era già attenzione all’ambiente, ma si faceva in maniera molto populista attraverso gli spot pubblicitari del coniglio Habib che parlava ai bambini per incitarli a riciclare e a tener l’ambiente pulito. Oggi in Tunisia esistono delle politiche ambientali molto più strutturate e settoriali, sebbene il metterle in pratica sia ancora complesso perché richiede consistenti finanziamenti per le infrastrutture e la formazione, oltre ad un cambiamento della attitudini della popolazione.
Qual è la fotografia delle donne in agricoltura in Tunisia e Marocco?
Le donne in agricoltura rappresentano all’incirca il 30% in Marocco e il 19% in Tunisia, anche se moltissime sono lavoratrici stagionali quindi non sappiamo bene se rientrano in questi numeri. Inoltre sempre di più la desertificazione colpisce soprattutto le donne, così come i grossi eventi climatici quali le inondazioni, gli incendi. Fenomeni sempre più frequenti che quando colpiscono appezzamenti di terra da cui le donne ricavano sostentamento o perché è il loro lavoro come braccianti, è chiaro che sono le più colpite. Una donna bracciante che spesso lavora stagionalmente o sotto caporalato sarà la prima a perdere il lavoro. Comunque molte donne sono beneficiarie di fondi, soprattutto per fare impresa, per esempio per il riciclo; c’è un’azienda molto interessante specializzata nel riuso degli scarti vegetali delle palme da dattero per fare delle fibre naturali che possano sostituire la plastica. Ci sono anche molte aziende di donne che lavorano con le piante officinali o lavorano con l’erboristeria, soprattutto nella cosmesi. La maggior parte, però, continua a non essere sindacalizzata o a non avere contratti di lavoro in regola, a non beneficiare di piani di sicurezza sociale tipo malattia o ferie retribuite e questo genere di diritti. Sicuramente guadagnano meno degli uomini. Inoltre, l’ambiente sta diventando un brand per i governi e per i donatori, per le Agenzie delle Nazioni Unite che lavorano contro la desertificazione e la biodiversità o per quelle che lavorano con le donne, o sulle politiche del lavoro.
Sicuramente l’agricoltura è uno dei settori che maggiormente può aiutare nel contenere la desertificazione, ma servono delle politiche sull’uso dell’acqua e dello sfruttamento dei suoli, che al momento non sono ancora in vigore. È vero il Cife fa una grande formazione alle donne sul cambiamento climatico spinte anche dai donatori, ma questo in che politiche si traduce? Il cambiamento climatico è dato soprattutto dalle emissioni di CO2 e gas serra quindi che senso ha parlare di ambiente se poi installo l’aria condizionata nel vivaio gestito da donne? Se spingo la monocoltura che sfrutta le donne e tutto quel lavoro femminilizzato, che politiche sostenibili sto portando avanti?
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Qual è oggi la situazione della cooperazione dell’UE verso il Maghreb?
La Tunisia e il Marocco hanno degli accordi di cooperazione con l’Europa sin dagli anni ’80. La Commissione europea ha adottato nel 2010 il Piano d’Azione sulla parità di genere, ora siamo alla sua terza edizione. Questo Piano include un’intera sezione dedicata all’ambiente con una serie di obiettivi e indicatori. Esistono poi piani di azione multi-annuali con cui l’UE stanzia dei fondi che vengono dati ai Paesi partner in forma di sostegno al bilancio, tra cui fondi destinati al bilancio sensibile al genere. Si tratta spesso di finanziamenti diretti alla formazione del personale che dovrà poi decidere dove destinare le risorse, sia interne che provenienti da finanziamenti esterni. I fondi stanziati dai donatori internazionali vengono anche canalizzati verso le organizzazioni non governative. A volte i donatori arrivano con delle agende prestabilite, molto burocratizzate e quindi c’è poco spazio di contrattazione.
Una studiosa palestinese ha coniato il termine di onghizzazione della società, per definire la trasformazione di associazioni o gruppi di movimento in organizzazioni non governative finanziate da donatori internazionali che creano una situazione di pacificazione facendo evaporare delle istanze politiche che un tempo potevano portare a delle reali riforme da parte del governo o comunque a cambiamenti nella società. In un focus group di donne e comunità LGBTQI+ in Tunisia, a cui ho partecipato, ad una domanda su quali potrebbero essere i possibili alleati, il 70% ha risposto i donatori internazionali. Dobbiamo quindi pensare a quale sia il potere negoziale delle donne anche nell’imprenditoria. La Tunisia ha quattro ecosistemi con sottosistemi molto fragili, la desertificazione che avanza si può controllare piantando sempre di più, ma serve una politica sensata sull’uso dell’acqua. Le donne sicuramente praticano dei sistemi di raccolta di acqua piovana per esempio, ma sono su piccola scala e in alcune zone del paese piove ormai una volta all’anno.
Le ONG creano delle pratiche in grado di influenzare le politiche, ma il cambiamento su larga scala richiede tempo ed è costoso. Anche gli indicatori che l’UE o i donatori danno agli Stati per ottenere finanziamenti, sono veramente blandi, perché altrimenti questi paesi non riuscirebbero a raggiungerli.
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Per concludere, si può parlare di una coscienza ecofemminista in questi paesi e in queste organizzazioni?
Penso che una vera coscienza ecofemminista sia ancora marginale nella maggior parte del mondo. Ci sono delle esperienze che coniugano le questioni di genere con quelle ambientali, ma spesso lo fanno in maniera essenzialista che non affronta le differenze di potere ed economiche come importanti fonti di dominio. Sono esperienze, ma non intendo affatto generalizzare, per la maggior parte basate sui primi studi della filosofa statunitense Caroline Merchant, che stabiliscono una connessione tra la femminilizzazione della natura e la naturalizzazione delle donne, o di quelli della fisica ed ecoattivista femminista Vandana Shiva che ha lavorato sul principio della naturalità della differenza di genere. Le loro ricerche sono indubbiamente delle pietre miliari dell’ecofemminismo, ma da studiosa e femminista io penso che il genere femminile non sia necessariamente incline, “per sua natura” alla preservazione dell’ambiente naturale perché ci sono innumerevoli fattori sociali determinati da rapporti di potere e di genere che determinano i nostri comportamenti. Perciò è sempre complicato fare dei discorsi generali su questi argomenti.
Invece, quello che per me è interessante è indagare le pratiche, in particolare sociali e del mondo dell’associazionismo. Qui si ritrovano forme di resistenza al degrado dell’ambiente, sistemi di adattamento al cambiamento climatico, richieste informate per un ambiente più pulito. Queste forme di resistenza e azione cominciano a diventare coscienza ecofemminista in molte associazioni in Tunisia e in Marocco.
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