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venerdì, Novembre 15, 2024

Come le microplastiche stanno cambiando l’ambiente. La storia di Fabiana Corami

Dalla fiaba che da bambina la ispirò a scegliere una carriera da scienziata, ai suoi studi sulle microplastiche. A colloquio con la ricercatrice e divulgatrice Fabiana Corami

Barbara Bonomi Romagnoli
Barbara Bonomi Romagnoli
Giornalista freelance, consulente in uffici stampa e comunicazione, ricercatrice indipendente in studi di genere e nel tempo libero apicultrice e esperta in analisi sensoriale dei mieli.

Fabiana Corami è ricercatrice dell’Istituto di Scienze Polari del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Comprendere le dinamiche dei processi ambientali e come i diversi inquinanti abbiano un impatto sull’ambiente è il suo lavoro praticamente da sempre, sin da quando comincia a lavorare alla tesi di laurea in Scienze biologiche. Con Beatrice Rosso scrive il libro “Mostri di plastica. Come le microplastiche stanno cambiando l’ambiente a livello globale”, pubblicato da Phoresta Ets nel 2023, dove si legge: “La parola monstrum in latino ha diversi significati; nelle sue accezioni positive è mostro o creatura mostruosa, ma anche evento straordinario, portento, miracolo, cosa incredibile, ma nelle sue accezioni negative è nefandezza, atrocità, atto mostruoso, cosa orrenda, ripugnante. Perché associare questa parola alla plastica? Intanto, la parola plastica va declinata al plurale, perché le materie plastiche sono svariate e con esse veniamo a contatto quotidianamente, anche senza sospettarlo. La cosa incredibile è che le plastiche si trovano ovunque. La cosa orrenda è che le plastiche si trovano ovunque”. Una sorta di paradosso dunque che riguarda la vita di tutt3 noi.

Fabiana Corami
Fabiana Corami

Senza dubbio Corami è diventata un’ottima divulgatrice e racconta spesso un aneddoto, soprattutto a studenti delle scuole superiori che segue nei percorsi di Pcto – Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento: “Da che ho ricordi, ho sempre amato leggere e, da piccola, avevo anche la collana I Quindici. Ero in prima elementare e, dopo il volume delle fiabe, ero affascinata da due volumi: uno dedicato ai personaggi famosi e l’altro dedicato a scienziati e inventori. Fu così che incappai in un racconto di una bimba incuriosita dai vetrini e dal microscopio del suo papà, scienziato, che però non aveva il permesso di toccare. Nel farlo di nascosto, però quella bimba combinò un guaio e sapeva di doverlo dire a suo papà, ma aveva paura. Trovò il coraggio di dire tutto al suo papà, che invece di metterla in punizione, le insegnò ad usare il microscopio. Quella bambina era Maria Skłodowska, meglio conosciuta come Marie Curie. Quel racconto mi catturò così tanto che andai da mia mamma e le dissi: ‘Da grande voglio fare come Maria. Voglio fare la scienziata’ “.

E così è stato: è diventata una scienziata, passando dal microscopio e i batteri al mondo animale, dopo un innamoramento anche per i cetacei e i documentari di Cousteau. All’università sceglie Biologia con un percorso focalizzato alla zoologia, all’ecologia e alla vita acquatica in ogni sua forma. “La vita prende spesso strane pieghe – prosegue Corami – Così, la chimica rispuntò nella mia vita. La mia tesi di laurea riguardò l’ambiente e la chimica e la laguna di Venezia, città della quale mi innamorai. Alla fine, sono finita proprio a Venezia, per amore e per la scienza, e da quando mi sono trasferita ho sempre lavorato nell’ambito della chimica ambientale”.

microplastiche ambiente venezia

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Si può dire che si sia addirittura appassionata alla plastica, anzi alle plastiche.

Mi piace la parola “appassionata”, perché in effetti essere una scienziata è avere passione per la conoscenza la mia passione per le plastiche è arrivata dopo venti anni e quattro mesi di precariato nell’ambito della chimica ambientale, dei quali vado molto orgogliosa.

Ecco, in questi venti anni e quattro mesi, ho avuto modo di partecipare a diversi progetti, di ampliare la mia conoscenza sull’inquinamento ambientale da metalli nella laguna di Venezia, ma anche sui percorsi ed il destino di questi inquinanti in aree remote come l’Antartide; ho conseguito un dottorato in Scienze Ambientali e una borsa post-doc sempre in questo ambito. Quindi, la mia vita da ricercatrice sembrava avere già una rotta semi definitiva. Dopo questo intervallo temporale, ho vinto un concorso da ricercatrice a tempo indeterminato presso l’Istituto per La Dinamica dei Processi Ambientali del Cnr (istituto che poi è diventato l’odierno Istituto di Scienze Polari). Era l’inizio del 2017 e si presentò la possibilità di seguire l’argomento delle microplastiche in ambiente. Da quel momento le plastiche e le microplastiche sono diventate il 100% del mio lavoro di ricerca.

Abbiamo oramai chiaro che le microplastiche sono perfino nel nostro organismo, la domanda è d’obbligo. È diventata come una sorta di epidemia?

Più che di epidemia, è più corretto parlare di ubiquitarietà e globalità. Le plastiche sono ovunque, le microplastiche sono ovunque e il problema dell’inquinamento delle microplastiche è globale. Non a caso le abbiamo osservate nelle acque della laguna di Venezia, ma anche in aria, nella pioggia, come anche in piccoli crostacei che sono stati raccolti in Artico (presso le isole Svalbard). È fondamentale però avere un approccio corretto nello spiegare le problematiche legate all’inquinamento da microplastiche, senza demonizzazioni, senza rincorrere sensazionalismi, ma divulgando conoscenza. Pur essendo l’inquinamento da microplastiche una problematica globale, nella ricerca ci sono diversi gap of knowledge (carenza di conoscenze, ndr) da colmare. Nonostante si parli di microplastiche in acque marine e oceaniche dai primi anni 2000 – Thompson nel 2004 coniò il termine microplastiche –, le metodologie di analisi non sono state standardizzate.

Cosa comporta questo?

Dare un nome e un cognome a qualcosa significa conoscerlo profondamente e capire che è un problema e cominciare a trovare possibili soluzioni. Bisogna però procedere tutti con le stesse modalità. Ecco, molto è stato fatto ma non siamo ancora a questo punto. Le microplastiche sono ancora considerate inquinanti emergenti perché non c’è ancora una norma, anche nell’ottica dell’One-Health approach (un approccio integrato che bilancia la salute di persone, animali e ambiente, ndr), che indichi qual è il limite al di sotto del quale l’ambiente e le specie che ci vivono sono in un buono stato di qualità e, viceversa, al di sopra del quale possono invece insorgere effetti negativi. Le microplastiche ingerite fanno male? Sì, possono far male, ma quanto? Ecco, dare contezza di questa pericolosità è fondamentale per fornire dati comparabili e robusti al decisore politico, che potrà poi progettare azioni di mitigazione e di salvaguardia ambientale. È anche compito di noi ricercatrici diffondere conoscenza e non titoli sensazionalistici per fornire conoscenza alla cittadinanza e farla divenire sempre più responsabile e scientifica.

I rifiuti di plastica sono il problema madre delle microplastiche. Quanto funziona in Italia la raccolta e il riciclo?

È difficile dirlo. Pensiamo al fatto che l’Italia è composta da venti regioni, che ad ogni regione spetta la pianificazione della gestione dei rifiuti, che ai singoli comuni spettano le funzioni operative della gestione dei rifiuti, la cui raccolta è demandata alle aziende municipalizzate. Queste ultime sono circa settecento in tutto il territorio nazionale. I regolamenti riguardanti la raccolta dei rifiuti non sono tutti uguali, mentre il conferimento in discarica va bene per tutto, ma non va bene per tutti. Sicuramente non va tanto bene per l’ambiente. Tutto questo ci fa capire quanto intricato e sensibile sia l’argomento. Per far sì che l’efficienza del recupero e, soprattutto, del riciclo sia massima ovunque, serve una strategia comune su tutto il territorio nazionale.

È chiaro che allungare la vita degli oggetti di plastica, recuperarli e riciclarli siano i comportamenti virtuosi che ognuno di noi deve fare propri. Nel nostro quotidiano possiamo fare azioni semplici ed efficaci, come ad esempio diminuire o eliminare del tutto i prodotti fast fashion dal guardaroba, valutare se l’utilizzo della plastica è davvero necessario o se possa essere sostituita da materiali meno impattanti per l’ambiente. A livello comunale, regionale, nazionale si può agire impedendo che le plastiche presenti nei fiumi arrivino in mare o sui suoli. Credo però che per rendere davvero circolare il distretto economico della plastica ragionare sulle politiche da adottare e sulle azioni da compire, siano necessarie azioni concertate, abbandonando i sensazionalismi e diffondendo conoscenza.

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