Si può resistere alla dilagante tentazione autoritaria risvegliando una coscienza critica e una creatività ecofemminista per tessere le reti di un mondo solidale? È quello che abbiamo chiesto a Johanna Lenne-Cornuez, docente di filosofia morale ed etica applicata all’Università Jean Moulin Lyon-3.
I suoi interessi di ricerca comprendono le teorie del consenso e dei diritti delle donne, nonché la “libertà moderna” e l’etica ambientale; per Johanna Lenne-Cornuez “tessere una comprensione interdisciplinare della posta in gioco a scuola consente la costruzione della collettività e incita alla creatività cooperativa”. Comprendere quindi cosa implicano alcuni gesti che consideriamo scontati come consultare il proprio smartphone in termini di “risorse terrestri, disuguaglianza nella loro ripartizione e nel loro accesso, dispiegamento energetico, diversità delle tecnologie, rapporti geopolitici”. O come a partire dalle “immagini delle spiagge di Accra, la capitale del Ghana, dove i vestiti ammucchiati delle popolazioni occidentali formano dune alte più di venti metri, possiamo riflettere sull’impatto del sovraconsumo, della moda, del rapporto agli oggetti e sull’inquinamento dei fondi marini”.
Che cos’è l’ecologia politica ? Può essere una via d’uscita dall’impasse nella quale ci ha portato il sistema capitalista neoliberista ?
La via di un’ecologia politica è necessaria per dare soluzioni efficienti e rimediare a quella che non è tanto una “crisi” quanto uno stato presente del mondo. Gli appelli all’etica individuale restano quindi insufficienti.
Se le riforme morali individuali non possono prescindere dall’azione politica, una transizione sociale ed ecologica non può prescindere dalla riflessione etica, dalla consapevolezza civica della posta in gioco e da una trasformazione radicale delle aspirazioni, degli immaginari e dei comportamenti.
Di fronte all’emergenza climatica, molte pensatrici e pensatori ci mettono giustamente in guardia sui limiti dell’appello alla responsabilità individuale. Il mondo imprenditoriale promuove un discorso di responsabilità sulle questioni sociali e ambientali che incoraggia la convinzione che una riforma “dall’interno” del capitalismo neoliberista sia possibile. Eppure, questa convinzione sembra essere inefficace di fronte alla portata del disastro che si può già vedere in molte parti del mondo e serve in realtà a squalificare altri discorsi che prevedono un reale cambiamento in un sistema che deve liberarsi dall’imperativo della crescita che governa l’attività economica.
D’altra parte, i piccoli gesti quotidiani, per quanto utili e lodevoli, non sono all’altezza di questioni che richiedono iniziative politiche su larga scala, misure vincolanti e il coordinamento di tali misure, compensando in particolare gli effetti negativi che sono destinati ad avere – almeno a breve termine – su alcune categorie socio-professionali, ad esempio su chi lavora nell’agricoltura o nel trasporto di merci su strada. Inoltre, i rapporti e gli avvertimenti scientifici, assolutamente indispensabili, non possono sostituire l’ecologia politica, che deve confrontarsi con gli interessi contrastanti in gioco e fare scelte concrete per la società.
Infine, il catastrofismo o la collassologia potrebbero essere strategie pericolose, che promuovono uno shock inevitabile e un arresto della macchina capitalista, in realtà incapace di dare il via a vere e proprie misure di transizione ecologica e impotente nel condividere le responsabilità distribuite in modo molto diseguale tra paesi del nord e del sud e tra classi sociali.
Il livello politico della riflessione e dell’azione ecologica non può essere totalmente dissociato dal livello morale. L’innalzamento delle temperature previsto dai rapporti dell’IPCC non ci colloca in un futuro lontano, ma in un orizzonte molto prossimo – tra una trentina d’anni – e possiamo già vederne le disastrose conseguenze: il numero di rifugiati climatici è in costante aumento, gli ecosistemi vengono distrutti, i terreni diventano sterili, scoppiano incendi, tifoni… Una comprensione razionale degli sconvolgimenti ambientali e delle loro conseguenze può portare a una trasformazione tangibile degli stili di vita e dei modelli di consumo più energivori e inquinanti, a condizione che sia sostenuta da un rinnovamento delle forme di aspirazione alla felicità.
Nessuna politica ecologica di ampio respiro può essere efficace senza una riduzione e una trasformazione del nostro modo di consumare, senza un’etica della responsabilità che integri il valore ecologico nei suoi desideri e nei suoi obiettivi e che, di conseguenza, assuma la convinzione che la conservazione della terra, la qualità della sua abitabilità e la solidarietà tra le popolazioni del mondo siano parte integrante della vita desiderabile a cui aspirino le singole persone. La conoscenza scientifica della realtà sociale e naturale del mondo è, in questo senso, un prerequisito essenziale.
Leggi anche: Cosa c’entrano le questioni di genere con la crisi climatica?
Se i governi al potere sembrano aderire al mito della crescita infinita, i movimenti ecologisti sono sempre più numerosi e stiamo assistendo al riemergere degli ecofemminismi. Allo stesso tempo, nelle opere letterarie e artistiche si delineano immaginari intrisi di ecologia. È sufficiente per cambiare la situazione?
Impigliate nelle logiche elettoralistiche e di breve termine, sensibili alle lobby industriali, le politiche portate avanti attualmente da chi governa sono per lo più lontane da una prospettiva critica rispetto alle aspirazioni di una ripresa fulminea della crescita in un “mondo post-Covid”, come se vivessimo in un mondo con risorse illimitate.
Mentre alcuni movimenti di protesta fanno molto per la causa ambientale, la stragrande maggioranza delle persone perpetua un immaginario di profitto, performance e celebrità. Data l’urgenza della situazione, possiamo comprendere la radicalizzazione rivendicata o presunta di alcuni movimenti ecologisti. Possiamo sperare che ci sia in atto una presa di coscienza, ma dobbiamo ammettere che tarda ad arrivare, almeno in considerazione dell’accelerazione della distruzione delle risorse naturali e della biodiversità, della fragilità degli ecosistemi e dell’annientamento delle condizioni di abitabilità di vaste regioni della Terra. Non si tratta di sostenere una rivoluzione di massa delle coscienze attraverso la coercizione. Ma non possiamo nemmeno accontentarci di osservare lo stallo e la morsa che si sta stringendo, soprattutto sulle popolazioni più vulnerabili.
Non è sufficiente, eppure rinnovare il nostro immaginario è una condizione necessaria per avviare trasformazioni. Le opere eco-poetiche danno un contributo fondamentale al cambiamento, un cambiamento che, purtroppo, a livello mediatico non viene abbastanza raccontato. Lontani dalla visione monolitica e semplicistica che viene spesso trasmessa, i movimenti ecofemministi sono in realtà molto diversificati. Il punto di partenza, comune a diverse autrici, è la creazione di una correlazione tra la posizione dominante dell’uomo nei confronti della natura e quella dell’uomo nei confronti della donna. Ma ci sono molti modi di concepire questa correlazione, le sue conseguenze e la possibilità di abolire questo doppio dominio.
Dietro l’ecofemminismo, la singolarità delle posizioni delle autrici deve essere ascoltata, altrimenti questa categoria potrebbe essere l’ennesimo modo per allontanare e de-soggettivizzare le donne che rivendicano un modo diverso di relazionarsi con l’ambiente e con gli altri – come le streghe del passato. Per illustrare la diversità dei contributi ecofemministi, vale la pena di citare alcune delle grandi autrici che stanno dietro a questi movimenti di pensiero. Penso naturalmente a Françoise d’Eaubonne, una delle creatrici del termine ecofemminista, la cui opera Femminismo o morte, fa eco a quella dell’ecologista René Dumont L’utopia o la morte (edito da Laterza nel 1973), traccia esplicitamente un parallelo tra le lotte femministe e quelle ecologiste collegando l’appropriazione maschile della fertilità delle donne a quella della fertilità del suolo. La militanza di Françoise d’Eaubonne a favore del controllo delle donne sulla propria fertilità l’ha resa una grande oppositrice delle politiche pro-nataliste che stanno riemergendo nell’arena politica odierna, ma sembra anche molto lontana da altre forme di ecofemminismo che sostengono la promozione di atteggiamenti “femminili” di cura verso gli altri e il mondo. Vorrei anche citare il grande libro di Carolyn Merchant, La morte della natura. Donne, ecologia e rivoluzione scientifica (1980; Editrice Bibliografica, pubblicato in Italia nel 2022), in cui esplora il modo in cui la scienza moderna è stata costruita a partire dalla diffusione di una rappresentazione matematizzata, standardizzata, disincarnata e disincantata della natura, che la offre poi allo sfruttamento umano, e dall’emarginazione, se non addirittura dallo sradicamento, di altre forme di conoscenza e di rappresentazione del mondo, in particolare quelle veicolate dalle donne. Inoltre, le donne, poste dalla parte della natura e dell’irragionevole, sono soggette al potere degli uomini, che giustificano la sottomissione del femminile e il saccheggio delle risorse con la razionalizzazione.
Infine, vorrei citare un’altra grande autrice, Val Plumwood, che non è solo una pioniera dell’ecofemminismo ma dell’etica ambientale in generale. Navigando su un fiume australiano, viene ripetutamente attaccata da un coccodrillo, che la ferisce gravemente. Lungi dal trarre una banale lezione sul mondo spietato degli animali o sulla necessità di addomesticare il selvaggio, l’autrice sviluppa un’affascinante riflessione sulla dimenticanza o sulla repressione da parte dell’umanità della sua posizione di preda nel mondo naturale. Il suo “incontro” con il predatore non è solo una lezione di umiltà, ma un momento fondante di una rivoluzione nel modo in cui rappresentiamo il nostro posto nella natura e i legami rispettosi che dobbiamo instaurare con gli esseri viventi.
Leggi anche: Percorsi di lettura, storie e mondi che nascono dall’estinzione umana
© Riproduzione riservata