Il riutilizzo dei beni, che vuol dire prevenzione dei rifiuti, è un po’ l’ancella dell’economia circolare, monopolizzata nell’immaginario comune dal riciclo. A favorire questo sbilanciamento influisce anche il fatto che mentre il riciclo è misurato con sempre maggiore accuratezza, il riutilizzo resta in un limbo di incertezza. Prova ne sono i dati pubblicati il 6 marzo dell’Agenzia europea per l’ambiente (AEA) che restituiscono un difforme e incoerente panorama continentale. Proprio su quei dati e sul lavoro di misurare ha riflettuto il Rapporto Nazionale sul riutilizzo 2024, curato dall’Osservatorio sul Riutilizzo e realizzato col sostegno di Rete Onu (gli operatori dell’usato, che insieme ad ISPRA sono dietro italiani ai dati forniti all’AEA) e della piattaforma Labelab, col patrocinio di ISPRA.
Il riutilizzo “si colloca al vertice della gerarchia delle soluzioni ambientali proposte dalla normativa europea e italiana – spiega nel Rapporto Mario Sunseri, vicepresidente di Labelab – eppure fino a poco tempo fa mancava formalmente una quantificazione chiara di questa pratica vitale”. La mancanza di informazione rappresenta un vulnus conoscitivo ma anche operativo: difficile mettere in campo iniziative corrette a favore di un comparto quando non si conoscono le realtà che di queste iniziative dovrebbero essere oggetto. Ecco perché il Rapporto Nazionale sul riutilizzo 2024 si apre proprio con i primi dati ufficiali pubblicati dall’Agenzia Europea per l’Ambiente: “Un momento importante per il settore”, sottolinea Sunseri.
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Riutilizzo e direttiva quadro sui rifiuti
Tutto parte dalla Direttiva quadro sui rifiuti (2008/98/CE), che stabilisce l’obbligo per gli Stati membri di adottare misure per incoraggiare il riutilizzo come parte dei loro programmi di prevenzione dei rifiuti e di monitorare e valutare l’attuazione delle misure adottate misurando il riutilizzo secondo una metodologia comune, stabilita dalla Commissione. Questi obblighi di misurazione e reportistica, d’accordo con la decisione EU 2021/2019, sono operativi a partire dall’anno scorso, con dai che fanno riferimento all’anno 2021. D’ora in avanti, ogni anno, i Paesi dovranno inviare alla Commissione informazioni aggiornate.
Il 6 marzo scorso l’Agenzia Europea per l’Ambiente ha reso noti i dati ricevuti dai diversi Paesi, secondo i quali l’Italia è tra gli ultimi in Europa per quantità di beni riutilizzati procapite.
Il lavoro sui dati di riutilizzo italiani
“Il primo approccio dell’Italia per riportare i dati su Riuso – spiega l’Agenzia – è stato coinvolgere i portatori d’interesse dell’universo dei negozi di seconda mano. L’associazione nazionale degli operatori dell’usato (Rete ONU) ha acconsentito di condividere liberamente i propri dati”. “Per quanto riguarda l’Italia – ha dichiarato il portavoce di Rete ONU, Alessandro Giuliani – i dati sono il risultato di un accurato lavoro di analisi compiuto da ISPRA con l’aiuto di Rete ONU che si è concentrato sul segmento più formalizzato, che è il comparto dei negozi dell’usato conto terzi”.
Vediamoli questi dati. Nel 2021 sono stati riutilizzate 231.714 tonnellate di beni, di cui:
- 933 tonnellate di tessili
- 434 tonnellate di apparecchi elettrici ed elettronici
- 067 tonnellate di mobili
- 280 tonnellate di altre frazioni merceologiche.
Questi numeri partono dalle stime di Rete Onu secondo cui il mercato nazionale vede circa un negozio di seconda mano ogni 20.000 abitanti, con un totale di circa 3000 negozi distribuiti in tutto il Paese. Prendendo come base i dati dei software gestionali che tracciano le vendite di un campione di 1453 negozi, queste informazioni sono state proiettate sul totale dei negozi, usando, per le diverse merceologie di prodotti (36 le categorie utilizzate) anche stime fatte da Rete Onu qualche anno fa.
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La punta dell’iceberg
Ma quello che abbiamo davanti è solo la punta dell’iceberg. Infatti ISPRA, in pima battuta, ha scelto di puntare sulle informazioni più solide, quelle tracciabili attraverso la contabilità dei negozi di seconda mano. Ma la stessa AEA afferma che “dati ottenuti rappresentano solo una parte, anche se una grande parte, dell’universo delle vendite di seconda mano. Altri canali di vendita o di donazione non sono stati considerati in questo primo report, quindi il valore totale è sicuramente sottostimato”. Il riutilizzo infatti è “una attività affidata oggi in gran parte alla piccola imprenditorialità, in alcuni casi su scala maggiore, ma sempre lontana dai processi industriali del riciclo: questo ne ha fatto una piccola isola, con contorni non facilmente definibili, che sfugge alle analisi tradizionali e che quindi ha una dimensione ancora da esplorare, che abbraccia cooperative sociali, contoterzisti, mercatini storici e di libero scambio, raccolta del tessile e ambulantato, senza soluzione di continuità”, precisa Alessandro Stillo, presidente Rete ONU. Per questo, se i dati presentati da ISPRA e pubblicati dall’Agenzia europea “sono importantissimi, perché offrono per la prima volta a livello ufficiale un dimensionamento del fenomeno che è basato sull’economia reale del settore” commenta il direttore del Comitato Scientifico di Rete ONU Pietro Luppi, “tuttavia non è stato ancora possibile procedere alla quantificazione del riutilizzo operato dalle innumerevoli microimprese ambulanti che, spesso in modo informale, contribuiscono in modo decisivo alla prevenzione dei rifiuti nel nostro paese”.
Per quanto riguarda gli ambulanti, per provare a capire quando valgono in termini di riutilizzo, la normativa di riferimento in quanto a tracciabilità del venduto “è il testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (TULPS). Che dice che tu puoi prendere le merci in blocco senza particolari obblighi di tracciabilità, se non le ricevute alla fonte e poco altro. Ma questa non è una tracciabilità che ti dà quantificazioni reali dei beni, se non per gli oggetti di pregio, ma qui non stiamo parlando di oggetti di pregio”, ricostruisce Luppi. Tra l’altro, aggiunge, nel 1998 “c’è stata la riforma Bersani, coi decreti attuativi nel 2000, che ha tolto di mezzo i cosiddetti ‘centoventunisti’, i commerciante ambulanti di cose usate”. Soggetti, ragiona, “che prima erano autorizzati, oggi non più. Una figura che operava legittimamente e che è stata poi centrifugata fuori dalla norma. Ne è nata quindi un’enorme zona grigia di soggetti che ora lavorano nell’informalità o nella semi-informalità. Questo ovviamente sta complicando ulteriormente le cose”.
Le stime di Rete Onu e Osservatorio sul riutilizzo
L’Osservatorio sul riutilizzo (già Occhio del riciclone) ha messo a punto negli anni scorsi una metodologia per “pesare” il lavoro degli ambulanti. Questi soggetti che lavorano nell’informalità, era il ragionamento fatto, “per sostenere i loro costi minimi di trasporto, di posizionamento dei banchi nei mercati, etc., allora dovevano guadagnare almeno 10.000 euro l’anno”, argomenta Luppi. Stimando un valore di 3 euro al chilo dei beni venduti e rapportandolo ai 10.000 euro, “significa che questi soggetti lavoravano circa 3 tonnellate e mezzo l’anno di beni usati”. In Italia, continua il direttore del Comitato Scientifico di Rete ONU, “abbiamo almeno 50.000 microimprese di riutilizzo ambulanti”. Quindi tre tonnellate e mezzo per 50.000 venditori “allora ci portavano a 175 mila tonnellate di beni da aggiungere ai dati ISPRA, per i soli ambulanti. Un dato di minima che andrebbe aggiornato”. E proprio di recente Rete Onu è stata di nuovo coinvolta da ISPRA per mettere a punto – includendo anche questi ragionamenti e ovviamente aggiornando i dati – una metodologia più ampia che renda conto anche del valore dell’ambulantato e degli aspetti meno formalizzati del riutilizzo.
Quindi tre tonnellate e mezzo per 50.000 venditori “ci porta a 175 mila tonnellate di beni da aggiungere ai dati ISPRA, per i soli ambulanti”. Proprio di recente Rete Onu è stata di nuovo coinvolta da ISPRA per mettere a punto, includendo anche questi ragionamenti, una metodologia più ampia che renda conto anche del valore dell’ambulantato e degli aspetti meno formalizzati del riutilizzo.
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I dati europei
Come abbiamo scritto, insieme all’Italia, con ISPRA, anche gli altri Paesi europei hanno inviato le proprie stime sul riutilizzo alla Commissione. Se nel 2021 ogni italiano riutilizzava 4 chilogrammi di beni l’anno, i portoghesi ne riusavano 2 e gli spagnoli uno, a fronte dei 94 chilogrammi procapite di beni riutilizzati in Norvegia, degli 88 dell’Estonia o dei 53 del Belgio e i 36 della Germania. Ma confrontare i dati dei diversi Paesi non ha senso. Perché non è confrontabile la ratio che ha guidato le stime.
Chiarisce Luppi: “la Commissione Europea ha posto come unico vincolo metodologico per l’invio dei dati quello di dividere in merceologie, senza però fissare i perimetri. Quindi ognuno ha fatto più o meno come voleva”. E mentre ISPRA “ha argomentato metodologicamente i dati nel suo report, sostenendo che siamo in un percorso ancora non completato di mappatura, altri Paesi hanno presentato dati senza esplicitare la metodologia utilizzata”.
Ecco perché “i dati procapite che risultano dai rapporti degli Stati Membri sono molto diversi e a volte incoerenti”, riflette Luppi. Perché “in questa fase incipiente a influire in modo determinante sono le discrepanze metodologiche”. A contare moltissimo, spiega, è il conteggio degli scarti di costruzione riutilizzati nel settore edile, che l’Italia invece non ha incluso nel conteggio e che in Paesi come la Germania e il Belgio rappresenta circa il 50% del volume dichiarato. A cambiare nei dati dei deversi Paesi sono anche i perimetri merceologici o di attività considerati: “I Paesi spesso non parlano degli stessi fenomeni, con il risultato che la Francia dichiara solo 1 kg di riutilizzo ad abitante, perché ha scelto di considerare solo le attività formalmente collegate ai sistemi di responsabilità estesa del produttore, mentre la Germania ne dichiara 36”.
Il caso dei Paesi Baltici
Un caso a sé sarebbe rappresentato dai Paesi Baltici. Che hanno comunicato sopra i 70 kg di abitante: “cose onestamente fuori dal mondo”, commenta Luppi. Che di fronte a questi dati pensa alla Tunisia: “Paese che sembrerebbe avere un consumo stratosferico e compulsivo di abiti usati, quando invece la Tunisia è il posto dal quale questi abiti poi transitano illegalmente in Libia, in Algeria, in Marocco”. Tornando ai Paesi baltici, “ci sono state le sanzioni alla Russia, il primo importatore di usato in assoluto di tessili ma anche di altre frazioni, sono stati chiusi i mercati di esportazione dell’usato e, guarda caso, i Paesi baltici che stanno al confine con la Russia comunicano quei 70 chilogrammi per abitante”.
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