A Baku la COP29 sul clima si conclude con un accordo per molti versi analogo a quello della COP28 di Dubai: se la diplomazia del clima dimostra di poter ancora avere un ruolo, il risultato delle trattative si rivela ancora una volta largamente insufficiente rispetto all’allarme lanciato dalla comunità scientifica e all’urgenza di affrontare con determinazione l’emergenza climatica. Un altro elemento di continuità è il peso preponderante dell’industria delle fossili, che anche quest’anno ha avuto la possibilità di influenzare i negoziati trovando spazio nelle delegazioni governative e presenziando direttamente ai momenti decisionali più rilevanti, come denunciato nel nostro Paese dalla campagna Clean the COP.
La novità della conferenza che si è conclusa ieri in Azerbaigian, invece, riguarda il ruolo giocato dalla Cina da un lato e la capacità di giungere comunque un compromesso nonostante l’assenza degli Stati Uniti, il ritiro dai negoziati dell’Argentina e le proteste dell’India per non aver avuto la possibilità di intervenire prima dell’ok finale all’accordo.
Ma vediamo qual è il contenuto del documento conclusivo approvato a Baku.
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Più fondi – ma non abbastanza – per il clima
La presidenza della COP29 ha annunciato l’accordo sul Baku Finance Goal, che contiene l’obiettivo per i cosiddetti Paesi sviluppati di sostenere con almeno 300 miliardi di dollari l’anno entro il 2035 l’impegno per ridurre le emissioni, mettere in campo azioni di adattamento e riparare i danni nei cosiddetto Paesi meno sviluppati e negli Stati insulari. “Un significativo miglioramento rispetto al precedente obiettivo di finanziamenti per il clima di 100 miliardi di dollari” rivendicano i negoziatori. I rappresentati dei Paesi emergenti parlano però di “una barzelletta” e di “una somma irrisoria”, in considerazione del fatto che già oggi la crisi climatica costa a queste aree del Pianeta tra i 100 e i 500 miliardi di dollari l’anno. A loro avviso, la cifra congrua oscillerebbe tra i 400 e i 900 miliardi l’anno e per questo i riflettori sono ora puntati sulla COP30 di Belém, in Brasile, dove si potrebbero definire le modalità con cui raggiungere lo stanziamento di 1.300 miliardi di dollari l’anno entro il 2035 previsto in maniera generica dall’accordo di Baku.
L’accordo prevede infatti una Road Map Baku-Belem, verso la COP30 brasiliana del prossimo anno, finalizzata a circostanziare e concretizzare l’obiettivo di stanziare i 1.300 miliardi per la transizione dei Paesi in via di sviluppo. La preoccupazione rispetto alla vacuità dei nuovi impegni è tutt’altro che campata in aria, dal momento che lo stanziamento dei 100 miliardi annui era stato deciso nella COP 2009 di Copenaghen ma è stato attuato soltanto nel 2022.
Altro risultato rivendicato dalla presidenza della COP è l’attivazione, altrettanto tardiva, del Fondo loss and damage: dal 2025 si cominceranno finalmente a erogare i ristori delle perdite e dei danni conseguenti agli sconvolgimenti climatici nei paesi vulnerabili.
Mercato del carbonio e target di emissioni
I negoziati partiti l’11 novembre hanno dato il via alla condivisione di standard globali per il commercio di carbonio tra Paesi, un modo per facilitare lo scambio di crediti di emissioni, mercato su cui si appuntano diversi dubbi legati all’effettività degli interventi di riduzione delle emissioni correlati e alla trasparenza delle procedure, come confermano recenti inchieste giornalistiche. Parliamo di un mercato che oggi vale circa un miliardo di dollari l’anno, ma che promette di arrivare a centinaia di miliardi nel 2050.
E a proposito di emissioni, la COP29 ha anche stabilito che entro febbraio 2025 i 195 firmatari degli Accordi sul clima di Parigi dovranno ufficializzare i nuovi e più ambiziosi obiettivi di riduzione. I padroni di casa azeri, non hanno annunciato nuovi obiettivi durante la COP e sarebbe stato strano il contrario, dal momento che il presidente Ilham Aliyev, nell’assemblea plenaria, ha definito le fonti fossili “un dono di dio”. Tra i Paesi che lo hanno fatto durante la COP c’è il Regno Unito, che ha portato al 68% l’obiettivo di riduzione delle emissioni entro il 2030 e all’81% entro il 2035, rispetto ai livelli del 1990. Anche il Messico ha annunciato l’impegno verso emissioni zero al 2050. Il Brasile, che come detto ospiterà la COP del prossimo anno, ha mantenuto intatti gli obiettivo del 2030: d’altro canto sarebbe impossibile prevedere una riduzione a fronte di una previsione di maggiore estrazione di petrolio e gas, addirittura del 36%, entro il 2035. Entro lo stesso anno gli Emirati Arabi Uniti prevedono, invece, da una parte di aumentare le estrazioni di petrolio e gas del 34% e dall’altra di ridurre del 47% le emissioni in vista dell’annunciato zero netto al 2050.
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Che fine ha fatto la fuoriuscita dalle fossili?
Il pressing dei grandi inquinatori ha indubbiamente fatto sentire i suoi effetti: dopo il timido riferimento al “transitioning away from fossil fuels in energy systems” stabilito a Dubai a fine 2023, a Baku non si sono registrati progressi su come realizzare effettivamente la fuoriuscita dalle fossili, che non vengono neppure citate nei documenti conclusivi. Non c’è da meravigliarsi, dal momento che la presidenza azera ha consentito alla rappresentanza dell’Arabia Saudita di modificare il testo per scongiurare ogni riferimento all’abbandono delle fossili. Alcuni osservatori rilevano che questa pessima notizia ha rischiato di essere ancora peggiore, perché la penultima versione dell’accordo sponsorizzava il ruolo dei “combustibili di transizione” – vale a dire il gas – come strumento da valorizzare per garantire la sicurezza energetica.
D’altro canto la lobby fossile si è sentita spalleggiata dal nuovo corso annunciato da Trump, che ha già dichiarato di voler abbandonare gli Accordi di Parigi, definiti invece dal rappresentante ONU Simon Stiell “la zattera di salvataggio dell’umanità”.
Il ruolo della Cina e quello dell’Europa
Riempiendo il vuoto creato dagli USA, sulla zattera degli Accordi sul clima siglati nel 2015 nella capitale francese si sono accomodate grandi potenze come la Cina e altri Paesi come Australia, Canada e Regno Unito, che hanno dato man forte alla coalizione più favorevole alla decarbonizzazione, composta dai piccoli Stati insulari, dall’Unione Europea e da Paesi a guida progressista come la Colombia.
La Cina ha inviato a Baku un migliaio di delegati mettendo in evidenza il proprio impegno per le ecoenergie e rivendicando i 24,5 miliardi di dollari destinati fin dal 2016 in favore dei Paesi in via di sviluppo. Nel tracciare il proprio bilancio dei negoziati, il think tank Ecco auspica “una rinnovata collaborazione tra Europa e Cina” in grado di trainare l’azione globale per il clima, finalizzata a riaffermare il comune “interesse a ridurre la dipendenza dalle importazioni di combustibili fossili, di costruire mercati verdi globali e di creare partenariati per lo sviluppo nelle economie meno avanzate”. Il presupposto per questa nuova collaborazione è che l’Europa sia in grado di ritrovare un ruolo da protagonista che in Azerbaigian non si è visto e che a Belèm sarà indispensabile, non tanto perché si dovranno aggiornare gli impegni di riduzione delle emissioni previsti per il 2030 e fissare quelli nuovi per il 2035, ma soprattutto perché un risultato deludente come quello di Baku comprometterebbe in maniera definitiva gli obiettivi fissati a Parigi.
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