L’acquacoltura è l’insieme delle attività umane, distinte dalla pesca, praticate per la produzione controllata di organismi acquatici come pesci, molluschi, crostacei e alghe. Può essere praticata in mare, nei fiumi, nei laghi, ma anche negli stagni, nelle lagune e nei bacini artificiali, ed è diffusa in tutto il mondo. Tuttavia non tutti i pesci e molluschi possono essere allevati in cattività. Per esempio i polpi e le seppie in cattività non si riproducono, anche se recentemente la multinazionale spagnola Nueva Pescanova ha fatto sapere che la prossima estate inizierà a commercializzare polpi allevati in cattività. Questa notizia ha sollevato qualche dubbio etico da parte della comunità scientifica che ritiene il polpo un animale molto intelligente, capace di provare dolore non solo fisico ma anche emotivo, e quindi inadatto ad essere rinchiuso in vasche per allevamenti intensivi.
“Ci sono diversi tipi di allevamento e tipologie di acquacoltura – spiega Gian Marco Luna, direttore dell’Istituto per le Risorse Biologiche e le Biotecnologie Marine del Consiglio Nazionale delle Ricerche (IRBIM CNR) –; c’è quella intensiva, estensiva e semi-intensiva, e viene praticata sia in ambiente marino che in quello di acqua dolce. L’acquacoltura rappresenta una risorsa importante per il futuro del pianeta, dal momento che molti degli stock ittici vivono una situazione di sovra-sfruttamento e che la domanda di cibo dal mare sta aumentando per sfamare la crescente popolazione del pianeta. Tuttavia questa industria deve affrontare una serie di sfide enormi che riguardano l’impatto ambientale, la salute dell’uomo e degli organismi allevati, all’interno del concetto di One Health ovvero di salute unica di queste tre componenti”.
Una delle sfide più difficili da affrontare è quella della crisi climatica. Il riscaldamento delle acque influenza il metabolismo dei pesci e quindi la produzione della filiera. I pesci, infatti, sono animali a sangue freddo, e sono in grado di resistere anche a temperature molto basse (dipende anche dalla specie) ma con una caratteristica: il loro metabolismo rallenta quanto l’acqua è più fredda. Questo significa che se l’acqua è a 15° invece che 30°, mangeranno a metà della velocità, digeriranno a metà della velocità, si muoveranno a metà della velocità e ovviamente cresceranno nel doppio del tempo. “Anche l’innalzamento del livello del mare ed i cambiamenti nella circolazione delle acque possono aver effetti importanti – fa notare Luna-. L’aumento di eventi estremi come le mareggiate e dell’intensità del moto ondoso hanno già conseguenze negative sugli impianti di acquacoltura in mare. Mentre l’acidificazione dei mari potrebbe influire sulla sopravvivenza degli organismi marini calcificanti e quindi sulla mitilicoltura (allevamento di cozze) che rappresenta un’attività importante per molte regioni italiani, come Marche, Emilia Romagna e Veneto”.
I numeri di un settore in crescita
Secondo l’ultimo The State of World Fisheries and Aquaculture della FAO e di World Fish, il numero delle persone occupate nel settore primario della pesca e dell’acquacoltura è di 59,5 milioni, di cui il 14% sono donne. L’Asia è la regione con il maggior numero di pescatori e piscicoltori (contadini dell’acqua) con l’85% del totale. 20 milioni di persone sono direttamente impegnate nell’acquacoltura e la sua produzione è aumentata dal 1990 del 527%. Circa l’80% della produzione mondiale di acquacoltura proviene da Paesi in via di sviluppo.
Per rendere meglio l’idea della crescita del settore, globalmente l’acquacoltura ha prodotto 82,1 milioni di tonnellate di animali acquatici nel 2018, mentre la pesca selvaggia 97. L’Europa è il continente con il più alto consumo di prodotti ittici (24,5 kg/pro capite), superiore alla media mondiale di 18 kg per anno. Attualmente contribuisce al 18% della produzione mondiale in acquacoltura e il settore rappresenta oggi quasi il 20% della produzione di pesce dando lavoro a circa 85.000 persone (i primi produttori sono Spagna, Francia, Italia e Grecia). Si prevede che la produzione dell’acquacoltura aumenterà di un terzo entro il 2030, raggiungendo 109 milioni di tonnellate, ed entro il 2050 fornirà la maggior parte delle proteine “acquatiche” nella dieta delle persone.
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I nuovi mangimi vegetali e le alghe cattura-CO2
In un contesto di produzione alimentare, in passato il rapporto costo/benefici dei mangimi per pesci e crostacei era poco sostenibile. “Negli anni ‘80, quando si usavano enormi quantità di farina di olio di pesce selvatico, per produrre un kg di pesce allevato si aveva bisogno di quasi 10 kg di pesce selvatico – ci dice Alessio Bonaldo, professore dell’Università di Bologna, che svolge da anni ricerche nell’ambito dell’alimentazione e nutrizione degli animali acquatici -. Negli ultimi anni si sta lavorando molto sullo sviluppo di nuovi ingredienti sostenibili e circolari, a zero impronta carbonica”. L’introduzione di proteine vegetali (plant protein) ha giocato un ruolo importante, ma Bonaldo prevede che le proteine “circolari” saranno il futuro. Proteine batteriche da singola cellula che sono recuperate da lieviti, funghi e scarti di altre filiere.
Un chiaro beneficio ambientale lo garantisce l’allevamento di alghe che, come i molluschi, non richiedono l’intervento dell’uomo per nutrirsi. “Le alghe assorbono anidride carbonica e di conseguenza riducono l’acidificazione dell’acque – continua Bonaldo -. Inoltre le piante aquatiche rappresentano il 17% della produzione di acquacoltura che è un dato sorprendente. Anche se in Europa non c’è ancora un mercato pronto per la vendita e commercializzazione di questi prodotti”.
Le alghe, inoltre, possono rimuovere i nutrienti in eccesso (come l’azoto), che contribuiscono alla formazione di aree di acqua povera di ossigeno (note come dead zone) dove la vita marina ha difficoltà a sopravvivere.
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Se le malattie entrano in vasca
Una delle minacce più rilevanti alla sostenibilità dell’acquacoltura è rappresentata dalle malattie che possono provocare ogni anno una perdita di un valore che si aggira intorno ai 6 miliardi di dollari. Tra le malattie più dannose c’è quella dei pidocchi di mare nel salmone; oppure il virus della “Sindrome delle macchie bianche nei gamberi” (White Spot Syndrome Virus), emerso all’inizio degli anni ’90, che ha devastato allevamenti di gamberi in tutta l’Asia.
“Uno degli effetti del cambiamento climatico sull’acquacoltura – dice Luna – è sicuramente la proliferazione di malattie negli allevamenti. L’aumento di temperatura delle acque, oltre a influenzare il metabolismo dei pesci e quindi il tasso produttivo finale – favorisce anche la virulenza e la proliferazione di agenti patogeni, specie nelle gabbie dove tipicamente c’è una densità altissima di organismi allevati”.
L’obbiettivo di riduzione degli antibiotici
Per frenare la diffusione delle malattie, gli antibiotici sono sempre stati tra le sostanze chimiche più utilizzate in acquacoltura per uccidere o inibire la crescita dei patogeni. Tuttavia, il crescente uso di antimicrobici negli esseri umani e negli animali da produzione alimentare sta portando verso la diffusione delle antibiotico-resistenze, un che è tra le sfide sanitarie globali. Alessio Bonaldo e sta lavorando ad un progetto su additivi pro health, molecole che permettono di migliorare il benessere dell’animale e ridurre l’uso di antibiotici.
“Attualmente le grandi aziende vendono pesci antibiotic free (senza antibiotici) certificati – sottolinea Bonaldo a Economica Circolare. Si sono migliorate tanto le condizioni di allevamento e il settore può vantare un ridotto utilizzo di antibiotici e sostanze chimiche rispetto ad altri. Quando aumentano le malattie può essere segno di scarsa qualità delle tecniche di allevamento. Di certo il riscaldamento climatico influisce, facilitando la presenza di batteri, virus, parassiti infestanti (forse il problema più urgente)”.
A proposito di antibiotici, Gian Marco Luna e il suo team sono coordinatori di un progetto europeo di nome Arena che mira a migliorare la valutazione della qualità delle pratiche e dei prodotti dell’acquacoltura facendo ricerche sulla presenza di antibiotici e geni di antibiotico-resistenza lungo tutto la filiera del ciclo produttivo, incluso l’ambiente circostante. Tra le finalità del progetto, anche quella di mettere a punto strumenti di allerta precoce per il rilevamento rapido di residui di antibiotici e di innovativi sensori per la loro quantificazione.
Secondo un articolo scientifico apparso su Nature, i livelli e le modalità di utilizzo degli antimicrobici nell’acquacoltura a livello globale rimangono in gran parte non documentati. Questo limiterebbe l’applicazione di interventi mirati e politiche che promuovono una sana gestione antimicrobica in un settore in forte crescita.
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I progetti che rendono l’acquacoltura circolare
Ma il settore dell’acquacoltura non deve essere solo sostenibile, può diventare anche circolare. Il CNR IRBIM sta lavorando anche ad un progetto di nome Agri-FiSh, appena partito e coordinato dall’Università di Camerino che ha l’obiettivo di produrre mangimi innovativi e sostenibili da impiegare in acquacoltura, anche in territorio montano, utilizzando prodotti di scarto principalmente di agricoltura biologica. Il mangime che sarà realizzato avrà quindi un alto valore aggiunto perché, provenendo da scarti di qualità, sarà molto più ricco di composti attivi antiossidanti, caratteristica che consentirà di migliorare la salute del pesce riducendo o addirittura azzerando la necessità di interventi curativi con antibiotici e simili.
“L’orizzonte entro cui l’Unione europea si sta muovendo è di sfruttare maggiormente sistemi a ricircolo a terra – ci spiega Alessio Bonaldo -. Si parla di vasche a ricircolo chiuso in cui le acque utilizzate passano attraverso filtri che depurano l’acqua e la reimmettono riducendo l’uso di acqua. Quindi fanghi, feci e prodotti di scarto possono essere riutilizzati. Per adesso questo approccio è usato in pochissime realtà per una questione di costi e di energia”.
Un altro interessante scenario è quella dell’acquacoltura multi-trofica integrata (Integrated Multi-Trophic Aquaculture). Fino a non molto tempo fa la produzione di pesci veniva attuata in condizioni di monocoltura, nell’IMTA vengono coltivate diverse specie in modo tale che alcuni invertebrati e le macroalghe possono riciclare le sostanze di rifiuto derivanti dall’allevamento dei pesci. Questo approccio ottiene un doppio vantaggio di riduzione dei reflui e produzione di biomasse aggiuntive.
Un altro esempio di circolarità è progetto europeo GAIN, coordinato da Roberto Pastres, professore di ecologia a Ca’ Foscari, che si è focalizzato su due aspetti per rendere circolare il settore dell’acquacoltura: dati e scarti. “Mediante l’utilizzo di intelligenza artificiale, abbiamo raccolto e processato i big data al fine di elaborare previsioni – ha spiegato il professor Pastres a fine progetto -. La piattaforma che abbiamo elaborato funziona come un hub centrale in cui confluiscono i dati ottenuti. Questo permette di fare proiezioni evolutive, che forniscono informazioni utili agli allevatori come previsioni sull’alimentazione e l’ossigeno da fornire agli animali”. Questi modelli predittivi permettono quindi di garantire il benessere dei pesci e quindi produrre alimenti di maggiore qualità per i consumatori.
Un altro aspetto circolare è quello di riuscire a riutilizzare i sottoprodotti di scarto. “Quando il pesce viene utilizzato per la produzione di filetti o altri prodotti in vendita nella grande distribuzione, il 30-50% diventa biomassa di scarto”. Anche le acque reflue degli impianti possono essere trattate, recuperando azoto e, soprattutto, fosforo, un elemento che, in prospettiva, potrebbe diventare prezioso per mantenere le attuali rese in agricoltura”. Infine, il secondo filone del progetto si è occupato di convertire in prodotti secondari, utilizzabili sia in acquacoltura sia in altri settori, e gli scarti ottenuti dalla lavorazione del pesce per scopi commerciali.
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