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giovedì, Novembre 14, 2024

Che cos’è e quanto “impatta” il coincenerimento dei rifiuti

All’interno degli impianti di cocombustione e degli inceneritori si bruciano rifiuti: ma non gli stessi. Cosa è il CSS e perché il coincenerimento, dal punto di vista tecnico, ha impatto minore dell’incenerimento e un utilizzo differente

Tiziano Rugi
Tiziano Rugi
Giornalista, collaboratore di EconomiaCircolare.com, si è occupato per anni di cronaca locale per il quotidiano Il Tirreno Ha collaborato con La Repubblica, l’agenzia stampa Adnkronos e la rivista musicale Il Mucchio Selvaggio. Attualmente scrive per il blog minima&moralia, dove si occupa di recensioni di libri. Ha collaborato con la casa editrice il Saggiatore e con Round Robin editrice, per la quale ha scritto il libro "Bergamo anno zero"

I rifiuti tal quali, ai sensi della normativa comunitaria, non possono essere smaltiti negli inceneritori (mass burning), ma può esservi destinata solo la loro frazione secca (combustibile derivato dai rifiuti), allo scopo, ove possibile, di produrre energia e calore. Un’opzione costosa e comunque esclusa dalla ‘lista positiva’ delle tecniche di recupero e riciclaggio ai sensi della Direttiva ‘Rifiuti’ della UE (in virtù di due sentenze di inizi ‘2000 della Corte di Giustizia europea, che evidenziano come i forni, quand’anche rispettosi della normativa sull’inquinamento dell’aria, genererebbero emissioni addizionali di gas climalteranti in contrato con i dettami degli allora Protocolli di Kyoto).

Per trovare anche un altro destino alla frazione secca, negli anni Novanta è stato sperimentato anche il coincenerimento nei forni industriali, in cui la combustione è funzionale a supportare i processi produttivi, ad esempio nei forni industriali dei cementifici, degli stabilimenti siderurgici, nelle centrali termoelettriche o nella fabbricazione di prodotti in legno.

Su questo tipo di tecnologia il dibattito è ancora più acceso rispetto ai termovalorizzatori. Da un lato c’è chi la ritiene più pericolosa per la salute rispetto agli inceneritori e chi, invece, sostiene sia più sicura per ragioni tecniche e normative. Con comprensibili preoccupazioni, di fronte a tale incertezza, dei cittadini, che magari abitano vicino a una cementeria che lavora in regime di cocombustione.

Per Walter Ganapini, co-fondatore di Legambiente, docente universitario e ambientalista con esperienza decennale sul tema dei rifiuti, fare un paragone tra incenerimento e coincenerimento non avrebbe neppure molto senso, visto che il materiale bruciato all’interno, sebbene composto da rifiuti, non è lo stesso e sono differenti le caratteristiche tecniche degli impianti. In ogni caso, è proprio da questi due aspetti che è necessario partire per una valutazione del coincenerimento.

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Cosa è il combustibile solido secondario

Innanzitutto, partiamo dal materiale bruciato all’interno degli impianti di coincenerimento: il Combustibile solido secondario (CSS). Il CSS è un combustibile derivato dai rifiuti, ottenuto estraendo la componente secca (plastica, carta, fibre tessili, ecc…) dei rifiuti non pericolosi, sia urbani sia speciali, tramite appositi trattamenti di separazione da altri materiali non combustibili, come vetro, metalli e inerti. Il CSS-rifiuto, in pratica, è un ammasso di rifiuti trattati e pressati (le cosiddette “ecoballe”) che verranno poi utilizzati in appositi forni degli stabilimenti o negli impianti dedicati.

Il combustibile derivato dai rifiuti ha, però, una particolare caratteristica. “Se il CSS rispetta una serie di parametri e requisiti nella scelta dei rifiuti e nelle fasi di lavorazione, individuati dal Decreto Clini del 2013 – spiega Antonio Buzzi, Direttore operativo della Buzzi Unicem e vicepresidente di Federbeton Confindustria, l’associazione che rappresenta la filiera del cemento – esso cessa di essere un rifiuto e diventa un prodotto a tutti gli effetti, con un maggior livello qualitativo e soprattutto maggiore tutela ambientale connessa al suo utilizzo”, conclude Buzzi.

La qualità necessaria al materiale per essere qualificato come CSS “end of waste”, spiega l’Arpa Piemonte (Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente) “è definita attraverso caratteristiche di classificazione (potere calorifico, contenuto in cloro e in mercurio) e caratteristiche di specificazione (contenuti in cenere, umidità e altri metalli pesanti)”.

“È un combustibile nobile – aggiunge il vicepresidente di Federbeton – e per le norme europee è considerato anche un combustibile rinnovabile, poiché la parte biodegradabile, cioè il contenuto di biomassa del CSS, oscilla tra il 30 e il 70 per cento. Inoltre è definito carbon neutral e, quindi, funzionale all’obiettivo della decarbonizzazione. Nel caso dei cementifici, l’utilizzo del CSS permette di ridurre le emissioni di CO2 di circa il 10 per cento”, precisa.

Buzzi è consapevole che nell’ottica della gerarchia europea dei rifiuti “non si tratti della miglior forma di impiego, ma in ogni caso – sostiene – si trova al di sopra dell’incenerimento e non danneggia la raccolta differenziata. Rispetto all’inceneritore, dove si brucia tutto indistintamente, qui parliamo del rifiuto urbano che residua dopo aver attivato le raccolte obbligatorie. Perciò abbiamo solo da guadagnarci da una differenziata efficiente, perché rende più facile ottenere la frazione secca da cui ricavare il CSS”, conclude Buzzi.

Non condivide questa lettura il presidente di Medicina Democratica, Marco Caldiroli: “La produzione di combustibile derivato dai rifiuti deprime la raccolta differenziata per quanto riguarda i rifiuti speciali, che vengono veicolati in grandi quantità per la produzione di CSS”. Mentre Massimiliano Varriale, del WWF, taglia corto: “I rifiuti restano rifiuti e, semplicemente non dovrebbero essere bruciati”.

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CSS ed economia circolare

Ai sensi dell’articolo 17 della Tassonomia, infatti, un’attività economica arreca un “danno significativo” se comporta un aumento sostanziale della produzione, dell’incenerimento o dello smaltimento dei rifiuti, ad eccezione dell’incenerimento di rifiuti pericolosi non riciclabili. L’articolo, ha precisato la Commissione europea, “si applica alle misure relative all’incenerimento e al coincenerimento dei rifiuti, segnatamente nei termovalorizzatori e nei cementifici”.

Una presa di posizione che lascia spazio a pochi dubbi, sebbene l’Unione europea al tempo stesso non si sia mai espressa “contro” questo tipo di trattamento dei rifiuti, e anzi riconosca come “il recupero di energia da rifiuti non riciclabili evita lo smaltimento in discarica ed è in linea con gli obiettivi della gerarchia europea e con l’economia circolare”. Insomma, la Commissione europea, sebbene non incentivi queste pratiche di produzione di energia non chiude neppure la porta.

E a livello nazionale il Tar del Lazio ha recentemente affermato che la produzione e l’utilizzo di CCS-Combustibili si colloca “nel quadro più generale delle politiche europee per la creazione e promozione dell’economia circolare. A fronte di tali finalità – continuano i giudici – non è sufficiente una generica, quanto assertiva, affermazione di violazione della gerarchia dei rifiuti, in quanto l’utilizzo dei CSS-Combustibili è esso stesso parte del recupero dei rifiuti”.

Una sentenza che sposa in pieno la posizione di Federbeton, ma che forse distoglie da quali siano gli obiettivi reali di un’economia circolare. E ricorda più un escamotage, o quantomeno “un’inadeguatezza normativa”, secondo Caldiroli. “Le norme negli ultimi anni in Italia si sono ammorbidite per favorire l’utilizzo dei rifiuti come CSS. Nelle altre nazioni – spiega il presidente di Medicina Democratica – che pur utilizzano i rifiuti per il recupero energetico, gli stessi sono considerati sempre tali e assoggettano integralmente l’impianto alle regole sul coincenerimento, senza alcuna semplificazione o scorciatoia”.

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Cosa c’è all’interno del CSS e il rischio criminalità

Non solo. Come spiega Arpa Piemonte, “l’impatto ambientale del coincenerimento del CSS è legato alla qualità di tale materiale”. La frazione secca è quella con maggior potere calorifero: può arrivare a 1500/1600 Kcal per chilogrammo. E “buona parte del potere calorifico del CSS – continua l’Agenzia – deriva dal suo contenuto in materie plastiche”.

E sta qui, secondo Varriale, il principale problema del Combustibile solido secondario. “Non è vero che il CSS abbia una qualità superiore: si tratta di un materiale eterogeneo in cui non sappiamo esattamente cosa c’è dentro e in che misura. Sebbene ci siano limiti per quanto riguarda un livello minimo di potere calorifico, l’esclusione dell’utilizzo di rifiuti pericolosi e tetti massimi di concentrazione di alcuni metalli, si tratta sempre di frazioni plastiche le cui emissioni sono giocoforza poco buone e con uno spettro molto ampio”, conclude il rappresentante del WWF.

Sicuramente, in ogni caso, è fondamentale la verifica sul rispetto dei parametri e del contenuto del CSS, perché è da qui che si valuta la qualità e l’impatto ambientale del CSS. E “l’Arpa – assicura l’Agenzia piemontese – ha lavorato a lungo con le amministrazioni competenti, regionali e nazionali, per definire adeguate procedure tecniche relative al campionamento, all’analisi, alla valutazione di conformità del CSS destinato al coincenerimento”.

“A volte, però, ci troviamo di fronte a comportamenti che vanno oltre la legalità”, ammette Walter Ganapini. Il peso crescente dei rifiuti nell’economia criminale non è certo una novità. “E non riguarda soltanto il traffico e lo smaltimento – avverte – ma anche la possibilità di mescolare nelle ecoballe rifiuti che non ci dovrebbero stare. Ciò ha destato preoccupazione anche a livello europeo, perché ‘ndrangheta e camorra utilizzano le cementerie dell’Est Europa come mercato per il CSS non a norma”.

In effetti, come evidenziano anche i dati Ispra, la Bulgaria è la principale meta del CSS prodotto in Italia. Anche nel nostro Paese, tuttavia, situazioni grigie, o quantomeno da chiarire, secondo il deputato Alberto Zolezzi del Movimento 5 Stelle, ci sono: “Abbiamo ricevuto richieste di autorizzazione a trattare il CSS da zone d’Italia in cui non c’è una necessità produttiva che lo giustifichi. La Commissione ecomafie sta approfondendo il dossier per valutare se dietro ci siano interessi della criminalità per liberarsi da rifiuti pericolosi”, spiega il parlamentare, membro della Commissione Ambiente.

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Il confronto tra inceneritori e impianti di cocombustione

L’altro aspetto fondamentale da guardare, è l’impianto utilizzato per il coincenerimento, ovvero i forni industriali dove viene bruciato il CSS. Rispetto agli inceneritori, gli impianti di cocombustione hanno un vantaggio che li rende meno inquinanti, spiegano Buzzi e Ganapini. Secondo quest’ultimo, i problemi del coincinerimento sono altri, ma non di ragione tecnica.

“Il nodo gordiano – afferma Ganapini – è stato sciolto molti anni fa dall’Autorità danese per l’Ambiente al termine di un’attenta serie di analisi sulla cementeria di Aalborg. La conclusione fu che era del tutto preferibile la cocombustione in cementeria rispetto a un impianto dedicato all’incenerimento: dal punto di vista ambientale, economico e sociale, perché aveva ricadute positive sull’occupazione. Per anni – conclude l’esperto – fu questa la pietra di paragone per ogni discorso sul tema”.

Il motivo principale, è nelle temperature di gran lunga superiori a quelle tipiche di un inceneritore: “Fino a 1400/1500 C° nei cementifici e 2000 C° negli impianti siderurgici, rispetto ai 900 C° dei termovalorizzatori”, precisa Buzzi. Temperature così alte sono in grado di disgregare le molecole degli agenti inquinanti più pericolosi, a partire dalle diossine e dai metalli pesanti.

Negli inceneritori, durante le fasi di raffreddamento nella parte finale del ciclo produttivo, la temperatura scende e tra i 400°C e i 250°C avviene una sorta di condensazione per cui le particelle si riaggregano e si riformano e di conseguenza compaiono nuovamente le emissioni, che a quel punto si cerca di abbattere con dei filtri.

Questo, spiega Ganapini, non succede con il coincenerimento grazie alla commistione intima tra la matrice cementizia e il combustibile. Infatti, ricorda Buzzi, “nel forno non si brucia solo combustibile, ma attraverso esso si cuoce la materia prima e questa interazione, per ragioni chimiche, ha una funzione di scrubbing (rimozione ndr) dei gas”, spiega Buzzi.

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“Mentre il quantitativo di combustibile immesso nel processo produttivo – continua il vicepresidente di Federbeton – è circa 15-17 volte in meno in peso rispetto alla materia prima introdotta nel medesimo ciclo produttivo. Quindi i gas emessi al camino sono per la maggior parte riconducibili alla composizione della materia prima e ed in parte molto minore al combustibile”.

Nel caso dei forni dei cementifici, poi, c’è un altro vantaggio. “La combustione della frazione secca all’interno dei forni industriali genera emissioni basiche”, spiega dal punto di vista tecnico Ganapini: “Questo neutralizza all’origine le emissioni acide che altrimenti si trovano in uscita al camino dopo la combustione dei rifiuti”

L’integrazione del processo produttivo all’interno del forno da cemento, aggiunge Arpa, ha effetti positivi per quanto riguarda anche gli altri inquinanti: “I metalli pesanti meno volatili (chiamati anche refrattari) contenuti nel CSS vengono largamente inglobati nel clinker, il materiale alla base del cemento, e non sono soggetti ad emissione se non in minima quota parte”.

Questo fatto potrebbe causare, però, un problema diverso, afferma Caldiroli: “Componenti particolarmente problematiche come i metalli pesanti e il cloro, presenti nei rifiuti, finiscono nel cemento così prodotto modificandone in modo consistente la qualità e la durata, sebbene nei range di accettazione tecnologica”.

Secondo Isde, inoltre, “numerose osservazioni sperimentali hanno dimostrato come gli eluati delle scorie pesanti siano tutt’altro che inerti” e dunque potrebbero essere rilasciate nell’ambiente. Allo stato attuale, tuttavia, gli studi ritengono che le scorie incamerate nel clinker non rappresentano un pericolo per la salute umana. Nonostante questo restano tante questioni aperte.

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