La settima edizione di InQuiete, festival di scrittrici a Roma svoltasi a ottobre 2023, si è aperta nella sua sezione Kids con un incontro dedicato a Stem – in inglese Science, technology, engineering and mathematics, ovvero il campo scientifico-tecnologico e i relativi corsi di studio – e divario di genere nel corso del quale è stata sottolineata l’importanza dei dati e della loro analisi per poter fornire un racconto della rappresentazione delle donne nelle Stem.
LEGGI LE RIFLESSIONI EMERSE DALLA PRIMA PARTE DELL’INCONTRO
“Senza dati non esiste scienza – esordisce Francesca Colaiori, ricercatrice del CNR e organizzatrice del festival ScienzaPop – I dati vengono presi come simbolo dell’obiettività della scienza, eppure ci sono molti esempi di distorsioni, e le distorsioni possono causare ingiustizie sociali. Basta guardare l’uso dei dati nella medicina. Per moltissimo tempo, le donne sono state escluse dai trial clinici, suppostamente perché avendo delle fluttuazioni ormonali avrebbero ‘rovinato’ il campione. Questa scelta ha comportato che la nostra informazione sugli effetti di malattie e dei farmaci sulle donne è molto parziale. Solo di recente è cambiata questa situazione e si sono introdotti trial equilibrati dal punto di vista di genere. Quello che accade nella medicina accade in molti altri campi e proprio perché tendiamo a considerare i dati neutri e la scienza basata sui dati oggettiva, si rischia di incorrere in diverse problematiche”.
Stessi dati, risultati diversi
Va nella stessa direzione anche un articolo pubblicato su Nature a ottobre 2023 il cui titolo, come sottolinea Edwige Pezzuli comunicatrice della scienza dell’Istituto Nazionale di Astrofisica e promotrice di WeSTEAM, recitava: “Trial di riproducibilità, 246 biologhe e biologi ottengono risultati diversi dagli stessi dati”. È vero che ci sono delle marginalità che non vengono mappate quindi un pregiudizio che determina cosa viene rilevato e quindi diventa dato, ma è vero che anche quando si lavora con gli stessi dati, si possono ottenere risultati completamente diversi. E questo accade perché la distorsione può esserci anche nell’analisi (e quindi nell’occhio di chi guarda) e non solo nella costruzione dei dati.
Un ulteriore esempio dato da Francesca Colaiori riguarda un presunto gender bias (pregiudizio di genere) verificatosi negli anni settanta nell’Università di Berkeley dove i ragazzi ottenevano risultati nettamente migliori delle ragazze nei test di ammissione.
“Quando i risultati dei test sono stati disaggregati ed esaminati per ambito disciplinare – spiega Colaiori – è emerso che le ragazze ottenevano risultati uguali o migliori dei ragazzi in ogni singola disciplina. Lo scarto nasceva dal fatto che il numero di ragazze che tentavano l’ammissione nelle discipline più difficili era significativamente più alto”. In statistica, questo fenomeno viene chiamato paradosso di Simpson ed è utile ad evidenziare che un dato in sé non è oggettivo. Motivo per cui, secondo Colaiori “bisogna presidiare tutti i luoghi in cui si ha a che fare con i dati”.
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La fragilità nei percorsi accademici
Tra questi ovviamente c’è l’accademia che patisce il fatto di essere sempre più “improntata all’iper-prestazione, efficientismo, eccellenza” secondo le parole dell’astrofisica Raffaella Schneider. Un aspetto che influenza non solo le scelte di carriera ma anche le capacità di apprendimento di chi studia. Tra le persone laureate in Sapienza, ricorda Edwige Pezzulli, basandosi sui dati Almalaurea, “il 61% non ha nessun genitore con un titolo di laurea, ma per chi studia Fisica la percentuale scende al 35%. In media, chi si laurea proviene da classi basse per il 18% mentre per Fisica la percentuale scende al 10 percento. C’è chiaramente un problema di accesso all’ambito disciplinare. C’è anche un discorso di abilismo perché l’accademia neoliberale nella quale ci troviamo è un’accademia che distrugge psicologicamente le persone. Ci sono molti dati che mostrano come 50 percento dei dottorandi soffrono di problemi di salute mentale. […] In questo contesto a fare la differenza non è il merito o l’eccellenza ma la fragilità, la fragilità intersezionale dei soggetti che restano o che vengono tagliati fuori fin da principio”.
La posta in gioco è quindi quella di cambiare il contesto accademico. Francesca Colaiori invita a “ripensare la scienza, spostare lo sguardo, creare un ambiente più collaborativo, più interdisciplinare e portare un pensiero diverso, meno specializzato”. E trova d’accordo Raffaella Schneider, che suggerisce di “fare scouting per raggiungere un campione più equilibrato dal punto di vista del genere e così avere una ricchezza di visione e di esperienza che aiutano poi le studenti e gli studenti a non sentirsi scoraggiati. La sindrome dell’impostore, che ha un nome maschile, in realtà è una sindrome dell’impostora: ha un’incidenza molto alta sulle donne e parte da molto prima. La questione della parità non può essere ridotta a una questione numerica, altrimenti resta problematica”.
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