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venerdì, Novembre 15, 2024

Le quattro imposture dell’economia lineare

Il paradigma intoccabile e mainstream del neoliberismo, della crescita economica senza fine da raggiungere costi quel che costi (crisi climatica, depauperamento degli ecosistemi, aumento delle differenze sociali), avrebbe avuto vita meno facile senza “quattro grandi imposture”

Antonio Pergolizzi
Antonio Pergolizzi
PhD in Scienze Sociali, laurea in Scienze Politiche e master in Relazioni Internazionali. Analista ambientale, esperto di (eco)mafia e corruzione e in genere di Compliance e Public Affaires, è Advisory per Ref Ricerche e consulente di enti pubblici (tra cui il Commissario Straordinario per le bonifiche presso la Presidenza del Consiglio dei ministri) e privati. È membro dell’Osservatorio Antimafia della Regione Umbria, insegna e fa ricerca in diverse università e svolge docenze in numerosi master e percorsi formativi, sia accademici che professionali. Dal 2006 è tra i curatori del Rapporto Ecomafia di Legambiente

Prima che l’economia circolare diventasse il nuovo messia mandato sulla terra per salvare gli uomini da loro stessi, a decidere le sorti del mondo, quanto meno di quello ingrassato dall’industrializzazione (area Ocse), è stata l’economia lineare di ispirazione neoclassica, leggasi neoliberista. Dottrina diventata presto mainstream che – dopo aver contribuito a infuocare i cuori e ad armare gli eserciti nelle due guerre mondiali – si è cristallizzata in una sorta di ideologia di mercato, che ha indirizzato i cannoni questa volta verso le risorse ambientali (non più verso gli eserciti), spiazzando ogni critica e costruendo con facilità i suoi fasti grazie ad almeno quattro imposture. Imposture o mezze verità, fa poca differenza. È certo che senza di queste, il paradigma intoccabile avrebbe avuto vita meno facile e oggi non ci troveremmo a fare i conti con il global warming come un’arma puntata alla tempia.

Certo, ha creato sviluppo e un certo benessere materiale, si dirà, ma con quali costi? È questo il tema di oggi, per non fare in futuro gli stessi errori. Nessuno immagina un ritorno al mito del buon selvaggio di Rousseau, al De Rerum Natura di Lucrezio o allo struggimento naturalistico di Thoreau, né tantomeno a un ritorno naïf a quando si stava peggio. Proviamo però ad arricchire il quadro con aspetti spesso sottaciuti, provando a essere onesti fino in fondo.

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Prima impostura: l’economia scienza esatta

La prima impostura dell’economia lineare/neoliberista è semplicemente quella di voler trasformare, arbitrariamente, una scienza sociale come l’economia in scienza esatta, al pari della fisica o della chimica. L’ascesa all’olimpo è stata offerta dalla rivoluzione marginalista di seconda metà dell’Ottocento, grazie ai contributi di William Stanley Jevons, Carl Menger e Leon Walras, che sposterà l’analisi economica verso i sentieri paludati del formalismo matematico, allontanandosi drasticamente dal considerare il ruolo di quelle istituzioni che l’economia classica, a partire da Adam Smith, non aveva mai mancato di considerare. I marginalisti cominciano a picconare mettendo in discussione le già consolidate “teorie del valore”, cioè la scuola di pensiero classico che considerava il valore unitario dei beni prodotti determinato solo dai costi di produzione, in particolare dai costi del lavoro. Secondo loro, invece, per comprendere il valore occorre partire dalla domanda e non dall’offerta. In questo modo i prezzi riflettono il grado di soddisfazione, o meglio l’utilità, attribuita dagli attori economici, cioè i consumatori. Da lì il concetto che l’utilità tenderà a diminuire con il consumo di ogni unità aggiuntiva (appunto, marginale) dello stesso bene, con una funzione che è, appunto, decrescente. Insomma, per i marginalisti il punto di partenza è dato dalla scelta dei consumatori, che determinano a loro volta l’offerta, spingendo le imprese a posizionare il livello di produzione in modo che il costo marginale, cioè il costo dell’ultima unità prodotta, sia uguale al prezzo di mercato.  Questo schema fornirà loro un elevato livello di formulazione teorica che arriverà fino a teorizzare un punto di Equilibro generale del sistema, cioè quel punto in cui tutte le risorse scarse sono allocate nel modo più efficiente. Secondo l’elaborazione teorico-matematica di Léon Walras, si ha un equilibrio quando ai prezzi correnti nessuna transazione è reciprocamente vantaggiosa per due agenti. Teoria spinta fino al suo apice politico dalla scuola economica austriaca, in particolare da Friedrich Von Hayek, principale ispiratore delle politiche neoliberiste e conservatrici, di sostanziale distruzione dello stato sociale, adottate negli anni Ottanta nel Regno Unito e negli Usa per mano, rispettivamente, di Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Con il suo culto del libero mercato e della mano invisibile – una sorta di darwinismo sociale –, le tesi di Von Hayek finisce per negare allo Stato qualsiasi possibilità di interventi redistributivi e tanto meno di controllo dell’inquinamento, aggiungeremmo noi. Una colossale opera di mistificazione euristica che ha ingabbiato l’azione economica in una trappola di modelli matematici tanto perfetti quanto inutili, che invece di provare a comprendere la realtà l’hanno ri-fondata da zero, a loro immagine e somiglianza: la performatività delle teorie economiche mainstream, la definiscono i sociologi (MacKenzie, 2006; Gallino, 2013). Un blocco mentale l’avrebbe definito Thomas Khun (1962), un paradigma chiuso montato su un gigantesco apparato formalistico che dimentica sistematicamente la realtà, non considera il ruolo delle istituzioni (in senso lato), delle asimmetrie informative, dei bias cognitivi e così via. Sebbene abbia guidato e condizionato le scelte di politica economica dei Paesi Ocse sin dalla sua comparsa e non abbia azzeccato nessuna previsione, né tanto meno previsto nessuna crisi economica.

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La seconda impostura: sfruttamento “no limits”

La seconda impostura è armare l’economia come una macchina capace di ingoiare risorse e territori senza curarsi dei limiti fisici e biochimici, quindi della loro rinnovabilità. Agire come in una dimensione piatta, in assenza di limiti, senza considerare la termodinamica, come ci ha insegnato Nicholas Georgescu Roegen con il suo concetto di bioeconomia, concetto – si badi – completamente diverso da quello espresso con la stessa terminologia dalla Commissione Ue e dal nostro ministero per la Transizione Ecologica, che considerano bioeconomia, banalmente, tutto ciò che ha a che fare con la materia biologica (sic!). Un astrattismo metodologico che ha sacrificato gli ecosistemi sull’altare di una irrazionalità ecologica (Dryzek, 1989) che ha semplicemente omesso di considerare, come parte del gioco, la distruzione degli equilibri naturali e delle stesse relazioni umane. Come se queste fossero solo colpa del fato. Così risorse ambientali e beni comuni sono stati risucchiati in quel meccanismo spietato che Allan Schnaiberg (in “The Environment: From Surplus to Scarcity”, 1980, e in lavori successivi) ha definito “Treadmill of production – ToP”, ossia l’impietosa macina della produzione, in cui le rivendicazioni economiche, le vere leve che muovono il nuovo mondo, non lasciano scampo a considerazioni di carattere ambientale, né tanto meno di giustizia sociale. In questo modo la società degli uomini ha finito per “buttare fuori” la natura, vittima di una visione antropocentrica bieca e supponente, consentendo che le sue risorse potessero essere selvaggiamente depauperate senza riguardo né alla loro riproducibilità, né alle esternalità negative che si andavano a generare (Zamagni, 2015).

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Treadmill of production facilitato anche dalla sostanziale mancanza di prezzo delle risorse ambientali e dei beni comuni, vizio che Garret James Hardin definì già negli anni Sessanta La tragedia dei beni comuni, ossia l’inconciliabilità tra la massimizzazione del profitto tramite l’appropriazione individuale delle risorse ambientali e la loro tutela nell’interesse collettivo. Si pensi alle attività estrattive, alla captazione delle risorse idriche, alla possibilità per le imprese di immettere in circolo sostanza tossiche (emissioni in atmosfera o reflui nei corsi d’acqua) senza sostenere per questo dei costi minimamente paragonabili ai margini attesi di ricavo. Aprendo in tal modo anche un tema di giustizia intergenerazionale, poiché si sono usate e si continuano a usare risorse sottraendole alle generazioni future.

La normativa, non solo in Italia ma in generale nei paesi area Ocse, ha nella sostanza consentito l’agibilità politica di tale mega macchina, garantendo la sostanziale gratuità dell’accesso alle risorse, agevolando il loro sovra sfruttamento, e allo stesso tempo spingendosi fino a garantire i potenziali responsabili dai rischi di sanzioni penali anche nei casi di violazione delle regole: in Italia solo nel 2015 i delitti ambientali entreranno nel Codice penale.

Insomma, si è dato sfogo a quella che è stata definita la mega-macchina sociale (Mumford, 1934; Gallino 2011) che – come scrive Luciano Gallino in “Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi” (Einaudi, 2011) – “negli ultimi decenni si è sviluppata al solo scopo di massimizzare e accumulare, sotto forma di capitale e insieme di potere, il valore estraibile sia dal maggior numero possibile di esseri umani, sia dagli ecosistemi […] usando un altissimo grado di razionalità strumentale e un grado catastroficamente basso di razionalità oggettiva”. L’illusione di poter lasciare andare all’impazzata la mega macchina, guardando solo il contachilometri del Pil, senza considerare verso quale meta e, soprattutto, con quali costi umani e ambientali, è la maschera fedele di questo modello economico, che ancora oggi, proprio mentre si spertica di lodi all’economia circolare, continua a dettare le scelte di politica economica. Recentemente lo ha ammesso senza troppi giri di parole la stessa Agenzia europea per l’ambiente.

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La terza impostura: i costi sociali sono “danni collaterali”

La terza impostura dell’economia lineare, legata indissolubilmente a quanto appena detto, è non aver contemplato nell’analisi costi/benefici delle singole scelte economiche, oltre ai danni ambientali, i costi sociali cagionati da quelle stesse scelte. Costruire un’autostrada, una centrale nucleare o un grande impianto oppure cementificare un’area boschiva non ha conseguenze solo sull’ambiente ma anche sulle dinamiche comunitarie coinvolte, la sociologia del territorio lo dimostra in maniera chiara (Osti, 2003).

Dinnanzi al classico dilemma economico sull’uso efficiente di risorse scarse per fini alternativi, i problemi socio-ambientali sono stati semplicemente accantonati. Nel migliore dei casi persino l’economia ambientale mainstream non si è spinta oltre il concetto minimo di esternalità, curandosi comunque di non intaccare l’intelaiatura di base, riconoscendo al massimo meccanismi di ristoro a queste esternalità, anche quando producono danni incommensurabili e irrimediabili. Esternalità che, al contrario, dovrebbero essere intese come veri e propri costi sociali e ambientali da tenere in conto, fino a condizionare in maniera decisiva i meccanismi decisionali. Può servire a poco impegnarsi a metterci, domani, una pezza dopo aver fatto scientemente il buco, oggi.

Per gli ideologi del mercato, insomma, la società sarebbe un idealtipo generalizzante e universalistico, cioè valido ovunque, a Scicli come a Brescia, a Sofia come ad Amsterdam o Glasgow o Tiblisi. Senza dubitare, invece, sul fatto che la società sia piuttosto il frutto di un tessuto connettivo, un sistema di relazioni osmotiche tra soggetti, che producono regole comportamentali e modelli valoriali capaci di fissare confini diseguali all’interno degli spazi dove si svolge l’azione sociale.

Il mercato, al contrario, dovrebbe essere inteso come una costruzione sociale, non un esperimento in vitro, e non è per definizione un ring in cui vince il più forte, chi sferra i ganci dritti in faccia e rimane in piedi fino all’ultimo gong. Lo hanno argomentato in tempi non sospetti illustri intellettuali, puntualmente marginalizzati e irrisi dal grande dibattito, dalla scuola napoletana dell’economia civile, su tutti Antonio Genovesi (1765) e Gaetano Filangieri (1784), o di economisti anglosassoni come Karl William Kapp (1950-1963), che già negli anni Cinquanta mettevano in guardia sui costi sociali e ambientali originati dal business enterprise, o ancora economisti istituzionalisti della scuola germanica oppure come Sombart o Shumpeter. Approcci che si riconoscono, tutti, nell’insegnamento aristotelico, ossia considerano l’uomo un essere sociale e l’azione economica per nulla comprensibile solamente in termini individualistici, in quanto necessariamente influenzata dalle istituzioni sociali. Seguendo il ragionamento di Karl Polanyi (1944), il mantra della logica del profitto come regola principe dell’agire umano è una forzatura ideologica, posto che la motivazione del guadagno non è sempre stato l’unico scopo del comportamento economico. Quel campo darwiniano in cui vince il migliore è una delle peggiori invenzioni dell’economia lineare/neoclassica. Si può essere migliori e condividere i risultati, si può essere competitivi inseguendo motivazioni solidaristiche e/o di giustizia sociale. Non a tutti interessa avere un posto esclusivo al prossimo Billionaire.

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La quarta impostura: per fare scelte razionali non serve l’etica

La quarta impostura, legata a tutte le altre, è basata su una declinazione cinica e amorale della teoria della rational choice, ossia della scelta razionale di ogni azione economica. L’attore razionale dei modelli e delle curve economiche che si insegnano in ogni università è un soggetto razionale solo in quanto persegue, cinicamente, il suo tornaconto, senza alcuna preoccupazione etica. Costui acquisterebbe, per esempio, solo al prezzo più basso, senza considerare se in quel prodotto c’è o meno dumping sociale, sfruttamento di lavoro nero, asservimento alle organizzazioni mafiose e così via. E non è così, per fortuna. La verità è che la scelta non può nemmeno essere razionale per definizione in quanto è gravata da profonde asimmetrie informative e da limiti cognitivi che la spingono molto di più verso una dimensione irrazionale, come ci insegnano autori come Vilfredo Pareto (1916) o l’intera branca dell’economia comportamentale.

Uno degli autori più originali che provò a smascherare questa trappola metodologica è stato, in piena orgia sviluppista degli anni Ottanta, l’intellettuale austriaco Fred Hirsch. Nel suo celebre saggio “I limiti sociali allo sviluppo”, in maniera completamente anticonformista rispetto alla cultura dominante, lanciò un sasso nello stagno spiegando con precisione chirurgica il cosiddetto paradosso dell’opulenza: la crescita economica invece di alleviare i problemi degli individui ne aumenta la frustrazione. Quel che i singoli riescono a ottenere nella competizione economica e nella scarsità sociale, piuttosto che un’astratta scelta razionale è inesorabilmente legato alle rispettive posizioni relative nella gerarchia economica. Piuttosto che guardare ai beni in quanto tali, come fa l’economia classica e neoclassica, occorrerebbe guardare ai beni posizionali, la cui disponibilità dipende dalla posizione dei consumatori nel mercato. Alcuni beni e servizi che generano soddisfazioni per gli individui sono soggetti a ovvie limitazioni assolute nell’offerta, che derivano da tutta una serie di condizioni. La prima è la scarsità, ossia la limitata disponibilità fisica, mentre la seconda – più importante per Hirsch – è la scarsità sociale, nel senso che la domanda di consumo è concentrata su particolari beni e servizi la cui offerta assoluta è limitata dal fatto che un aumento nella disponibilità fisica di questi beni o servizi modifica le rispettive caratteristiche generando, conseguentemente, una soddisfazione minore. Non tutti, cioè, possono avere una splendida e riservata casa con vista mare senza distruggere la costa, o comunque ottenere ciò che vogliono senza con questo erodere quello stesso bene fino ad annullarne la desiderabilità, mettendo in pericolo le risorse naturale e l’equilibrio sociale. La loro disponibilità è socialmente limitata e quindi riservata a pochi. Per Hirsch, insomma, il principale punto debole del pensiero neoclassico sta nel fatto che applica alla scelta razionale un criterio approntato per situazioni statiche a delle situazioni dinamiche, in cui i parametri fissati in precedenza mutano essi stessi. Un po’ come avviene con la legge dell’entropia sul fronte delle scienze esatte.

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La vera meta: prima le persone

Detto ciò, occorre aggiungere che l’economia circolare non è un pranzo di gala, né uno spazio aperto o un mercato senza limiti in cui vincono tutti per forza di cose. Al contrario, dopo aver messo al bando le contraddizioni appena elencate, serve accettare l’idea che l’economia circolare non deve portare necessariamente a mirabolanti performance economiche e occupazionali, che, se arriveranno bene, ma non sono la vera meta. La vera meta è riportare l’economica al servizio della società e dei suoi bisogni, considerarla come uno strumento per perseguire un fine collettivo, che non può che essere di costruire una società più giusta e sostenibile, nell’interesse di tutti.

Ci devono essere parimenti delle rinunce e dei cambiamenti nei nostri stili di vita e, soprattutto, l’economia circolare non può e non deve diventare la continuazione dell’economia lineare sotto mentite spoglie. La sostenibilità, insomma, non dovrebbe diventare la foglia di fico, o meglio la zattera di salvataggio, del sistema lineare. Ci sono invece molti segnali, anche nell’impostazione del PNRR che ci porta a pensare che, al di là dei preamboli roboanti e politicamente corretti, si stia facendo di tutto per salvare la struttura ideologica portante dell’economia lineare, sebbene ingentilendola con qualche spiraglio circolare a suon di euro (pardon, debiti). Il nostro compito è anche quello di vigilare affinché ciò non avvenga. In caso contrario faremo la fine di Re Mida e allora avrà ragione Greta, che è stato solo un gran bla bla bla.

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