Migrare è storia antica, da sempre il modo più naturale ed istintivo per cercare habitat più ospitali, cibo, crescere la prole. Il clima, anche lui, è sempre cambiato, ma ora lo sta facendo in maniera più imprevedibile e repentina.
Dinanzi agli effetti della crisi climatica, non solo noi umani su questo pianeta in equilibrio precario cerchiamo una via di fuga. Ci sono altre specie, migranti in alcuni casi, che soffrono altrettanto e in silenzio le conseguenze della nuova era climatica. Parliamo di specie terrestri, marine e di acqua dolce, della fauna che è anch’essa vittima della crisi più attanagliante dell’antropocene. Animali a tutti gli effetti ‘on the move’, con conseguenze travolgenti sugli ecosistemi e sulla qualità della vita sulla terra.
Una redistribuzione su scala globale
Uno studio pubblicato nel 2017 sulla rivista Science e intitolato “Biodiversity redistribution under climate change: Impacts on ecosystems and human well-being” testimonia una vera e propria redistribuzione delle specie terrestri come risposta all’innalzamento delle temperature, all’alterazione delle correnti oceaniche, degli eventi climatici estremi e dell’alterata disponibilità di acqua, per citare alcuni fattori. Mentre il clima cambia, le specie devono tollerare il cambiamento, spostarsi, adattarsi o – se questo non è possibile – affrontare l’estinzione. I cambiamenti nella distribuzione delle specie attraverso la latitudine, altitudine e gradi di profondità dell’oceano sono stati ampiamente documentati. Stando a una meta-analisi pubblicata nel 2013 su Nature e intitolata “Global imprint of climate change on marine life”, i taxa terrestri, ovvero i diversi raggruppamenti, si spostano verso il polo di 17 km per decennio in media, quelli marini di 72 km per decennio.
Va sottolineato che i comportamenti e le alterazioni riscontrate sono risultati di fattori concomitanti e complessi, che vanno oltre al solo cambiamento climatico.
“I cambiamenti climatici stanno provocando delle alterazioni significative nella maggior parte degli ecosistemi del nostro pianeta, che si sommano ad altri effetti prodotti dalle attività umane ormai sempre più pressanti ed impattanti, come ad esempio il massiccio uso del suolo, lo sviluppo di infrastrutture, l’uso diffuso di pratiche agricole intensive o il sovra sfruttamento delle risorse” conferma a EconomiaCircolare.com Flavio Monti, biologo di esperienza decennale e ricercatore presso l’Istituto di Ricerca sugli Ecosistemi Terrestri (IRET) del CNR. “L’aumento delle temperature è sicuramente uno degli elementi del cambiamento climatico con maggior impatto sulle specie selvatiche, costrette a modificare i loro comportamenti per adattarsi alle nuove condizioni ambientali. Tali incrementi di temperature si accompagnano spesso anche a fenomeni di siccità e desertificazione, e ad una ridistribuzione delle risorse trofiche”.
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L’impatto sulle specie migratorie
Immaginiamo un animale, ad esempio un uccello migratorio europeo, che percorre chilometri lungo le flyway intercontinentali durante uno degli spostamenti periodici tra habitat, propri delle specie migratorie, che permettono loro di ottimizzare le risorse in più luoghi in diversi periodi dell’anno. Gli spostamenti su lunghe distanze delle specie migratorie le rendono particolarmente vulnerabili, esponendole a impatti multipli e differenziati. Questi uccelli infatti, soprattutto quelli acquatici, ci racconta Monti, “contano sulle zone umide usate come zone di sosta – i cosiddetti “stopover” – per fare rifornimento e recuperare le energie prima di riprendere il viaggio migratorio. Anche una minima alterazione o addirittura la scomparsa di questi siti di fondamentale importanza lungo le rotte migratorie, può compromettere la sopravvivenza di questi animali e, nel lungo periodo, comportare squilibri significativi a livello di intere popolazioni. A causa dei cambiamenti climatici, circa un quarto delle oltre 500 specie di uccelli presenti in Europa sta mostrando significativi decrementi in termini di abbondanza e distribuzione geografica”.
È stato confermato in questi giorni, durante il quattordicesimo incontro della Conferenza delle Parti sulla Convention on the Conservation of Migratory Species of Wild Animals (in sigla CMS COP 14) in Uzbekistan, che una specie migratoria su cinque è sull’orlo dell’estinzione. Tra le cause più rilevanti, la perdita di habitat, il sovrasfruttamento, il cambiamento climatico, l’inquinamento e le specie invasive.
Presentato alla COP 28 sul clima di Dubai dello scorso dicembre come contributo al lavoro del CMS, il Rapporto “Climate change and migratory species: a review of impacts, conservation actions, indicators and ecosystem services” conferma cambiamenti significativi nella demografia, nella composizione e nell’ecologia complessiva delle specie migratorie, così come alterazioni dei pattern, tempi e rotte di migrazione come risposta al cambiamento climatico. Gli spostamenti di areale verso i poli sono difatti uno degli impatti più frequentemente dimostrati sugli animali migratori.
“Per quanto riguarda gli uccelli migratori – testimonia Flavio Monti a supporto del Report – sia la migrazione primaverile verso i siti di nidificazione sia la riproduzione stanno subendo un’anticipazione di circa 2-3 giorni per decennio”. La stessa rotta è alterata e i volatili “in alcuni casi tendono a trascorrere meno tempo negli stopover (con ripercussioni sulle capacità di rifornimento) o in altri stanno riducendo le distanze di migrazione”.
La letteratura scientifica sul tema sottolinea tuttavia come le risposte alle sfide che la fauna incontra variano a seconda della specie e dei gruppi, e sono difficili da misurare a causa della natura stessa delle specie migratorie. “Gli uccelli migratori che percorrono brevi distanze (short-distance migrants) tra i luoghi di riproduzione e di svernamento sono più abili a rispondere ai cambiamenti stagionali dovuti ai cambiamenti climatici e, di conseguenza, potrebbero essere in grado di riprodursi con maggiore successo rispetto agli uccelli che percorrono distanze più lunghe (long-distance migrants). Ciò si deve probabilmente al fatto che i primi sono in grado di tracciare meglio le alterazioni del clima e dell’ambiente dei luoghi di riproduzione, rispetto ai migratori a lungo raggio che trascorrono gran parte dell’anno a migliaia di chilometri di distanza dai loro siti di riproduzione”. In sintesi, più lunghe sono le distanze coperte, maggiore è la vulnerabilità al cambiamento climatico.
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Disallineamenti fenologici: il ritmo della natura cambia
La maggior parte delle specie migratorie proviene da regioni ad alta quota, dove i cambiamenti di stagione e delle risorse disponibili sono più marcati. La sfida è ancora più grande per le specie che tornano nelle regioni polari, dove la velocità e l’entità dei cambiamenti climatici sono maggiori. Molte faticano ad arrivare quando il cibo di qualità è ancora abbondante, quando il clima è ancora adatto a specifici stadi del ciclo vitale, la pressione della predazione o della competizione è equilibrata o parassiti e agenti patogeni sono meno numerosi. Tutto ciò è infatti espressione di quelli che vengono definiti “disallineamenti fenologici”, dove la fenologia, spiega un recente studio dell’United Nations Environment Programme (Unep), è la scienza che esamina la tempistica delle fasi ricorrenti del ciclo di vita guidate da forze ambientali e il modo in cui le specie interagenti rispondono ai cambiamenti temporali all’interno di un ecosistema.
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Gli ecosistemi marini e il clima che cambia velocemente
Le risposte fenologiche al cambiamento climatico avvengono più velocemente negli ambienti marini che nella terra ferma. Diversi gruppi marini, infatti, da plancton a predatori, stanno modificando la loro fenologia in diversi modi, causando disallineamenti in tutta la comunità oceanica. La principale sfida per i mammiferi marini e i cetacei, che coprono lunghe distanze migrando tra gli equatori e i poli per cercare sostentamento, sembra proprio gestire l’effetto dei cambiamenti climatici sulla disponibilità di cibo.
Il fitoplancton, un insieme di organismi unicellulari, è un indicatore dello stato ecologico degli ecosistemi marini, nonché la base della catena alimentare. Un insieme di organismi, però, altamente sensibile ai cambiamenti ambientali. Alcune ricercatrici della Fondazione CIMA (Centro Internazionale in Monitoraggio Ambientale, un ente di ricerca senza scopo di lucro e di interesse generale del Paese) hanno analizzato gli impatti delle variabili climatiche e oceanografiche sulla fioritura del fitoplancton, dunque la presenza di clorofilla nel Mediterraneo nord-occidentale, e le conseguenze per la mega fauna nella zona. Dalla ricerca è nato lo studio ‘Phytoplankton spring bloom in the NW Mediterranean Sea under climate change’. Il risultato più eclatante: una forte correlazione negativa tra l’aumento delle temperature e la presenza di clorofilla, che si è tradotto in un forte calo della fioritura negli ultimi 7 anni e una presenza instabile e variabile di cetacei.
“Il Mediterraneo – spiega Francesca Grossi, prima autrice dello studio e dottoranda dell’Università di Genova – è considerato un ‘laboratorio’, un ambiente che fa un po’ da campanello d’allarme per scenari futuri, essendo un’area semichiusa, più calda di altri mari e considerata hot-spot del cambiamento climatico. Il fitoplancton, inoltre, è il ‘polmone della Terra’ per quanto riguarda gli ecosistemi marini; nonostante ciò, ad oggi scarseggiano dati e studi su questo aspetto e sulle aree pelagiche – quelle a largo della costa – del Mar Mediterraneo”.
L’area oggetto di studio, comprensiva del Santuario Pelagos, è una zona di transito per molti cetacei e per le balenottere comuni che migrano tra nord e sud nel Mare Nostrum, o che arrivano dall’oceano attraverso lo stretto di Gibilterra. Le alterazioni riscontrate stanno avendo, anche in questo caso, un effetto importante anche se ambiguo sul timing delle migrazioni della specie.
“Lo studio è nato proprio perché stiamo riscontrando anomalie nel comportamento delle balenottere e nella loro distribuzione” continua la biologa marina. “È un primo tentativo di vedere cosa sta succedendo negli anni più secchi e caldi. In alcune aree, le balenottere comuni sembrano avvicinarsi di più alla costa, o arrivano in gruppi e composizioni non costanti ed alterate. In altri casi, migrano più verso nord, o in acque più o meno profonde. C’è molta variabilità interannuale, e stabilire dei trend e una correlazione causale importante con il cambiamento climatico non è affatto semplice. Sono molte le variabili che entrano in gioco, tra cui le attività turistiche e commerciali lungo la costa, ma anche il fattore memoria: le balenottere sono animali che vivono più di 60 anni”.
I servizi ecosistemici
Il benessere delle società umane è legato alla capacità degli ecosistemi di produrre un’ampia gamma di beni e servizi, chiamati servizi ecosistemici. Le alterazioni riportate sino ad ora hanno e avranno effetti sia diretti che indiretti sul genere umano, con conseguenze massive sulla disponibilità di cibo, l’economia, l’emergenza di nuove patologie e la capacità di stoccaggio di carbonio degli ecosistemi, tra gli altri.
Gli insetti impollinatori, ad esempio, hanno la capacità di diffondere sementi nell’ambiente e di contenere la diffusione di alcune malattie, mentre gli uccelli marini forniscono nutrienti per la crescita delle barriere coralline, che a loro volta sono importanti per lo stoccaggio del carbonio e la protezione da eventi meteorologici estremi.
Un ruolo molto simile viene giocato dalle balenottere comuni: “Questi animali sono in cima alla catena alimentare, dunque detengono il controllo ‘top down’ di tutto ciò che avviene al di sotto. Ad esempio, ciò che producono funge da fertilizzante per l’oceano, e le loro feci e carcasse aiutano nella cattura del carbonio dai fondali” conferma la ricercatrice CIMA.
Gli spostamenti dell’areale delle specie e la loro redistribuzione geografica, dunque, influiscono anche sulle nostre economie, nonché sul settore del turismo. L’accumulo di meduse dovuto all’aumento delle temperature in una laguna del Mediterraneo, ad esempio, ha avuto un effetto negativo sulle economie locali legate al turismo e alla pesca. Il settore della pesca è a sua volta fortemente colpito dalle nuove distribuzioni degli stock ittici e dalla presenza di specie aliene introdotte dalle attuali pratiche commerciali e ricreative, la cui diffusione è peraltro favorita dai cambiamenti climatici. “Il messaggio quindi è chiaro” incalza Flavio Monti del CNR, “serve una gestione attenta e saggia di questi fragili ecosistemi non solo per evitare alterazioni nelle comunità vegetali o animali che dipendono direttamente da questi habitat per il loro ciclo vitale, ma anche per supportare la nostra salute, economia e sopravvivenza, nel presente e per le generazioni future”.
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Le responsabilità della ricerca e della politica
“Nature knows no borders – la natura non conosce confini” recita il Rapporto redatto come contributo alla Cop 14 che si è svolta in Uzbekistan. “I processi che oggi stanno comportando le alterazioni principali accadono non solo su scala locale o nazionale, ma hanno una portata transnazionale che spesso interessa più continenti, sulla quale la CMS si sta esprimendo in questi giorni. Le convenzioni internazionali hanno proprio questo scopo: perseguire progressi congiunti per affrontare le principali minacce” afferma il ricercatore del CNR commentando le iniziative internazionali sul tema.
La cooperazione e la condivisione di informazioni tra Paesi è fondamentale per massimizzare il successo di qualsiasi azione volta a frenare gli impatti del cambiamento climatico sugli ecosistemi e sulle alterazioni trattate; tuttavia, manca un presupposto fondamentale: la presenza di dati dal Sud del mondo e dai tropici. Ancora una volta, infatti, la letteratura scientifica sul tema sembra essere ‘biased’, cioè prevenuta, in favore dell’Europa e dal Nord America. “Nel Sud del Mondo vi è una discrepanza significativa tra priorità e possibilità di ricerca e conservazione. Una ridistribuzione dell’attenzione scientifica e degli sforzi di conservazione verso i paesi in via di sviluppo e le specie meno studiate e a rischio di estinzione risulta fondamentale per conservare molti gruppi tassonomici, e le loro funzioni ecologiche in tutto il mondo” sottolinea Monti.
La dottoranda presso l’Università di Genova, Francesca Grossi, mette l’accento sulla rilevanza e l’urgenza di comprendere l’impatto che la crisi climatica sta avendo sulla fauna: “L’allarme è stato dato molto tempo fa, ma le cose sono lente. Le specie reagiscono molto più lentamente di noi: alcune si stanno già adattando, altre cambiano habitat, altre ancora vengono sopraffatte dalla portata degli eventi. Non è chiaro quale sarà l’entità del cambiamento, ciò che è certo è che le cose cambieranno, e ciò che temo è che arriveremo a un punto di non ritorno”.
L’ Europa dal canto suo ha preso atto della pesante crisi in cui versa la stragrande maggioranza dei suoi habitat e ha individuato una prima risposta nella cosiddetta “Nature restoration Law”. L’obiettivo di questo nuovo quadro normativo è quello di ripristinare almeno il 20% delle aree terrestri e marittime dell’UE entro il 2030 e tutti gli ecosistemi che necessitano di ripristino entro il 2050. La speranza è che questa iniziativa riesca a innescare una reazione globale in grado di scongiurare il rischio che si arrivi al punto di non ritorno.
Questo articolo è stato realizzato nell’ambito del workshop conclusivo del “Corso di giornalismo d’inchiesta ambientale” organizzato da A Sud, CDCA – Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali ed EconomiaCircolare.com, in collaborazione con IRPI MEDIA, Fandango e Centro di Giornalismo Permanente
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