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La campagna elettorale e l’attenzione all’economia circolare? “Del tutto inadeguata”. Il giudizio del Kyoto club, nelle parole del suo presidente Sergio Andreis, non lasciano dubbi.
Dottor Andreis, questa campagna elettorale e i programmi presentati dai partiti, secondo voi, hanno visto assegnare all’economia circolare (non solo al riciclo ma anche a prevenzione e riduzione) un ruolo adeguato? Perché? Quali partiti si sono in particolare distinti?
Del tutto inadeguato. Se ne parla, il che è già un gran risultato rispetto al passato, ma non sempre con chiarezza e visione all’altezza delle sfide del futuro e della tutela dell’ambiente. Nessuno, ad esempio, dice nulla sui rifiuti elettronici, che spesso finiscono all’estero. Nulla nemmeno sui pannelli solari, la cui prima generazione sta arrivando a fine corsa e a breve necessiterà di essere smaltita.
Dopotutto, il nostro è un Paese strano: da una parte ci sono imprese eccellenti nel campo dell’economia circolare – siamo poveri di materie prime, e puntare sul riciclo e sul riuso permette di sopperire a questa mancanza – dall’altra, vengono fatte scelte politiche non all’altezza della sfida. Ad esempio, abbiamo un sistema di raccolta della frazione organica molto avanzato, ma facciamo ancora fatica a superare le resistenze che ostacolano la realizzazione dei biodigestori indispensabili per produrre biometano e compost. Potremmo e dovremmo emanare i decreti end of waste che consentirebbero di rimettere in circolo la materia e invece siamo ancora in ritardo e con lentezze esasperanti. E così la nostra classe politica pensa di ricorrere all’incenerimento sprecando risorse. Occorre cambiare marcia e sostenere davvero quella parte del mondo imprenditoriale, pubblico e privato, in grado di cogliere appieno la sfida dell’innovazione.
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Le misure proposte per la progressiva riduzione delle forniture di gas russo (ad esempio i rigassificatori), sono un compromesso tra l’urgenza del bisogno di energia e i tempi fisiologici del passaggio alle rinnovabili? O vengono usati dai partiti come occasione per prolungare lo status quo?
È il tomorrow, tomorrow, tomorrow-never-comes di Shakespeare. Siamo nel pieno della crisi climatica: dobbiamo fronteggiare al più presto questo problema e accelerare la transizione ecologica. Bisogna tagliare drasticamente le emissioni di CO2 e di tutti i gas climalteranti, arrivare al 2030 con almeno la metà dello sforzo fatto e alle zero emissioni nette entro metà secolo, come prescrivono gli obiettivi europei. Ma dopo lo scoppio del conflitto in Ucraina e il conseguente dibattito sulla questione della sicurezza energetica, nel nostro Paese si discute soprattutto della diversificazione delle fonti (fossili), della riapertura di vecchie centrali a carbone, dei rigassificatori, e alcune forze politiche chiedono con insistenza il ritorno all’atomo. Questo dibattito è importante, ma non risolve il problema dell’alta dipendenza dall’estero e non incide sulla ricattabilità energetica dell’Italia da parte di altri stati, che sono spesso e volentieri regimi autoritari.
Contro la crisi climatica, come contro la crisi in Ucraina, servono azioni coraggiose, coerenza e velocità. Per fare a meno del gas (russo e non) bisogna puntare sulle energie rinnovabili, oltre che sul risparmio e sull’ efficienza energetica. Ma l’Italia sconta una certa arretratezza culturale sui temi ambientali di tutta la classe dirigente e ora c’è chi approfitta del conflitto per provare a frenare la transizione.
Il falso mito è che le fonti rinnovabili siano tecnologie di nicchia che non possono competere con i fossili. I sostenitori di questa tesi affermano che, per affrontare l’attuale crisi, dovremmo ragionare innanzitutto di gas e nucleare, e mentre di rinnovabili ce ne potremmo occupare più avanti, quando saranno tecnologie “mature”.
Da diversi anni nel mercato mondiale della generazione elettrica gli impianti alimentati da fonti rinnovabili rappresentano il mainstream, mentre quelli a gas e carbone sono diventati una nicchia. E questo lo sostiene non il mondo ambientalista, ma l’Agenzia Internazionale dell’energia (IEA) che ha stimato nel 2020 gli investimenti complessivi in nuovi impianti di produzione elettrica sono stati pari a 513 miliardi di dollari. Di questi quasi 360 sono andati alle rinnovabili, mentre poco più di 150 a fossili e nucleare.
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Il nucleare può essere una soluzione?
No, soprattutto quando con rinnovabili ed efficienza energetica sarebbe già possibile oggi coprire il nostro fabbisogno energetico. Investire nelle attuali tecnologie nucleari, con il problema dell’utilizzo delle scorie non ancora risolto, significherebbe contribuire alla proliferazione degli armamenti nucleari. In effetti nella campagna elettorale è rispuntato l’atomo.
Nel caso di un cambiamento nell’orientamento politico o nelle idee della popolazione, avrebbe senso ripartire oggi con il nucleare? Quali ostacoli si incontrerebbero?
È bene fare chiarezza su questo tema. Intanto, un dato. La quota di elettricità nucleare nel mondo è in continua riduzione, dal 17,5% nel 1996 al 10,1% nel 2020.
L’ aspetto più preoccupante di una ripresa della discussione sul nucleare sta nel fatto che rischia di distogliere l’attenzione e di rallentare la corsa delle rinnovabili. A chi continua a proporlo come utile per la transizione ecologica e per contrastare la crisi climatica, ricordiamo che la partita si giocherà nei prossimi 5 o 6 anni, ossia in tempistiche del tutto incompatibili con quelli dell’accensione di nuove centrali – stimati tra i 10 e i 15 anni. Stiamo vivendo nel secolo delle energie rinnovabili, e proprio da queste dobbiamo partire se vogliamo affermare la transizione ecologica. Basti pensare che dal 2010 al 2021 i costi del fotovoltaico sono crollati dell’88%; di oltre il 60% per l’eolico a terra e galleggiante offshore. La transizione ecologica non è solo un dovere ambientale, ma conviene.
Le nuove centrali atomiche sono inoltre diventate sempre più care e in alcuni paesi gli impianti esistenti faticano a reggere la concorrenza delle rinnovabili. Questo è il caso degli Stati Uniti, il paese leader con 94 reattori in funzione, dove ben 39 impianti hanno già chiuso. E, malgrado nel 2021 siano stati stanziati 6 miliardi di dollari per evitare altre dismissioni, alcune società ritengono questo supporto ancora insufficiente.
Infine, c’è la questione del nucleare di quarta generazione. Se ne parla molto, ma ad oggi non ci sono i prototipi funzionanti che ci permettono di avere un nucleare “sicuro”. Di fatto, per la “quarta generazione” non esistono ancora reattori commerciali. La previsione è che i primi reattori “commerciali” saranno pronti non prima del 2030, cioè quando dovremmo già aver decarbonizzato il 55% delle nostre economie. Se il nucleare di quarta generazione è una tecnologia pulita non lo possiamo sapere, e non possiamo permetterci il dubbio di poter aspettare ancora 18 anni. La crisi climatica non aspetta, è ora.
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Restiamo ancora sulla crisi energetica: le misure indicate dai partiti in questa campagna elettorale a favore dell’efficienza sono, secondo voi, adeguate? Vi convince il piano di riduzione dei consumi indicato dal governo, che spinge sulla sensibilizzazione dei singoli senza indicare misure coercitive?
Assolutamente inadeguate. Sosteniamo il prolungamento del Superbonus 110%, ma anche la sua modifica. Da una parte è giusto rifinanziare il “110%” perché ha consentito l’apertura di oltre 100mila cantieri per un valore di 18 miliardi di euro, la creazione di 130mila posti di lavoro, un salto di più di due classi energetiche in decine di migliaia di condomìni. È una misura “win-win”, vincono lo Stato, le imprese, il lavoro, vince l’ambiente. Tuttavia, questa misura ha bisogno di robusti correttivi strutturali: sarebbe indispensabile completare l’efficacia dello strumento con la distinzione netta tra combustibili fossili da disincentivare e impianti di riscaldamento/ raffreddamento alimentati da fonti rinnovabili. Questa è una delle richieste che stiamo portando avanti, assieme a Legambiente, con la nostra campagne “Per la decarbonizzazione: efficienza energetica e riscaldamento degli edifici in Italia”. C’è poi anche la questione delle emissioni derivanti dai materiali da costruzioni, che contribuiscono tra il 10 e il 20% all’impronta totale di carbonio degli edifici dell’Unione europea: con il progetto “Emissioni di carbonio incorporate nel settore delle costruzioni” chiediamo che Governo, Parlamento ed Enti locali approvino una normativa adeguata volta al risparmio e alla selezione dei materiali da costruzione al fine di rendere il costruito più sostenibile e favorire la circolarità nel comparto edile.
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Secondo voi le misure previste dai partiti per la transizione ecologica tengono in giusto conto anche la giustizia sociale e la difesa dei soggetti più deboli? Cosa bisognerebbe fare in tal senso?
Anche per questo aspetto i programmi elettorali dei partiti sono deludenti, lo specchio di un ritardo culturale e di un distacco crescente dalle forze migliori dell’economia e della società. L’Accordo di Parigi riconosce l’esigenza fondamentale che la transizione sia allo stesso tempo rapida ed equa. È dimostrato che il passaggio a un’economia green, a basse emissioni, stimolerà la prosperità e rappresenterà un traino decisivo per la creazione di posti di lavoro. Via via che tale cambiamento avrà luogo, emergeranno, nondimeno, sfide transitorie per i lavoratori, le comunità e i Paesi. Non è solo una questione di posti di lavoro: le conseguenze saranno ampie e trasversali su tutte le dimensioni della vita sociale. L’aspetto più delicato riguarda le regioni con un’economia basata soprattutto sulle fonti fossili. Se la scomparsa di alcuni posti di lavoro è inevitabile, governi nazionali e agenzie sovranazionali possono intervenire con programmi di riqualificazione del personale e aggiornamento professionale per offrire nuove opportunità di lavoro. Pensiamo al settore dell’automotive, che occupa in Europa 14,6 milioni di occupati, di cui 1,2 milioni in Italia. La transizione verso la mobilità elettrica dovrà avvenire, parallelamente, all’istituzione di un Piano nazionale di formazione e riqualificazione dei lavoratori del settore, per metterli nelle condizioni di saper gestire la transizione e i suoi effetti e costruire livelli di competenze adeguati.
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