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giovedì, Novembre 14, 2024

Nessuno può giudicare Eni? ReCommon e Greenpeace fanno ricorso in Cassazione

Il procedimento sulle responsabilità climatiche di Eni giunge a un possibile momento di svolta. Le due ong si rivolgono alla Cassazione per accertare se in Italia è possibile “procedere legalmente per tutelare i diritti umani messi in pericolo dall’emergenza climatica”. Eni le accusa di voler “continuare la disinformazione”

Andrea Turco
Andrea Turco
Giornalista freelance. Ha collaborato per anni con diverse testate giornalistiche siciliane - I Quaderni de L’Ora, radio100passi, Palermo Repubblica, MeridioNews - e nazionali. Nel 2014 ha pubblicato il libro inchiesta “Fate il loro gioco, la Sicilia dell’azzardo” e nel 2018 l'ibrido narrativo “La città a sei zampe”, che racconta la chiusura della raffineria di Gela da parte dell’Eni. Si occupa prevalentemente di ambiente e temi sociali.

“Noi non ci mettiamo al livello di Eni”. Il parere di Antonio Tricarico è perentorio e sconsolato allo stesso tempo. Ma uno dei fondatori di ReCommon – l’associazione che “lotta contro gli abusi di potere e il saccheggio dei territori”- non può non rispondere alla mossa comunicativa del cane a sei zampe. L’azienda italiana ha infatti scelto di giocare d’anticipo e, prima del media briefing convocato da ReCommon insieme a Greenpeace Italia il 21 giugno, ha diffuso una nota per indirizzare la comunicazione sulla scelta intrapresa dalle due organizzazioni non governative. Già, quale scelta?

Greenpeace Italia, ReCommon e alcuni cittadini e cittadine hanno deciso di ricorrere alla Corte di Cassazione per capire se nella cosiddettaGiusta Causa” – il contenzioso climatico avviato davanti al Tribunale di Roma dalle due organizzazioni e 12 cittadine e cittadini a maggio 2023 nei confronti di Eni, del Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) e di Cassa Depositi e Prestiti (CDP) – possa esserci un giudice ordinario italiano che può pronunciarsi sulle questioni climatiche in Italia. La scelta deriva dal recente pronunciamento del tribunale civile di Roma che a sorpresa, a marzo di quest’anno, ha respinto le istanze di Giudizio Universale, il primo contenzioso in Italia che chiedeva di accertare la presunta inazione dello Stato nei confronti del riscaldamento globale. In quel caso la giudice Canonaco aveva avanzato come motivazione il “difetto assoluto di giurisdizione”.

Il timore delle due ong era che lo stesso facesse il tribunale di Roma, specie dopo che il giudice aveva comunicato alle parti in causa un’ordinanza con cui fissava l’udienza del 13 settembre prossimo per pronunciarsi sulle eccezioni preliminari sollevate da Eni, dal MEF e da CDP. Le tre parti in causa, infatti, avevano eccepito proprio il “difetto assoluto di giurisdizione”, allo scopo di escludere che ci possa essere un giudice ordinario che possa decidere sulle scelte industriali della multinazionale energetica, anche quando queste hanno conseguenze climatiche per le persone e il pianeta.

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In caso affermativo, d’altra parte, la citazione sarebbe dichiarata inammissibile e, soprattutto, il processo sarebbe saltato. Una possibilità concreta che le due ong hanno voluto scongiurare perché così, scrivono Greenpeace Italia e ReCommon in una nota congiunta, si “rischia di impedire ogni possibilità futura di istruire una qualsiasi causa climatica in un tribunale italiano, sia contro lo Stato sia contro imprese private”.

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Due pareri contrapposti e una battaglia di comunicazione

La scelta di Eni di anticipare la decisione di Greenpeace e ReCommon è solo l’ultimo passaggio di una vera e propria battaglia comunicativa intrapresa dall’azienda, pronta a fronteggiare punto per punto ogni singola contestazione. A partire da una pagina ad hoc del proprio sito, dedicata a quella che l’azienda definisce “la falsa causa”: un procedimento che secondo Eni “rispecchia una demonizzazione del ruolo della grande impresa in Italia e si fonda su tesi e pregiudizi smentiti dai fatti”.

Una strategia d’attacco non nuova, parecchio aggressiva e che si appoggia anche su un evidente dislivello di forze in campo: da una parte la più grande azienda energetica italiana e, specie in questo momento storico, la più influente impresa tout-court, capace di “dettare la linea” al governo (come abbiamo raccontato ad esempio sui biocarburanti e sul  PNIEC) e ai media; dall’altra due ong che non godono certo dei mezzi economici di Eni e alle quali, lo scorso febbraio, è stato impedito di intervenire in una trasmissione RAI (proprio in merito al contenzioso climatico in atto), mentre l’amministratore delegato Claudio Descalzi in Rai è ormai di casa (qui e qui alcuni esempi).

“Il ricorso in Corte di Cassazione nasce dall’esigenza di definire al più alto livello giudiziario se nel nostro Paese sia possibile procedere legalmente per tutelare i diritti umani messi in pericolo dall’emergenza climatica causata dalle attività umane”, dichiarano ancora Greenpeace Italia e ReCommon. “Non possiamo più temporeggiare, serve agire subito. Per questo abbiamo deciso di rivolgerci alle Sezioni Unite Civili della Cassazione per avanzare con più forza la nostra richiesta di ottenere giustizia climatica. Malgrado quanto dichiarato pubblicamente in più occasioni, infatti, Eni non sembra avere alcuna intenzione di entrare nel merito delle accuse che le abbiamo mosso nell’ambito della Giusta Causa sul suo impatto passato, presente e futuro sul clima del Pianeta”.

Eni, invece, “esprime la propria perplessità su questa iniziativa, evidentemente finalizzata a ottenere la sospensione della causa in realtà avviata dalle organizzazioni stesse, per la quale il giudice, si ricorda, aveva invece già fissato l’udienza per la decisione al 13 settembre 2024. Vi è il rischio, pertanto, che – proprio su iniziativa di Greenpeace e ReCommon – si apra un lungo periodo di sospensione della decisione prevista invece a breve, ciò che consentirà alle due associazioni di continuare nella propria campagna di disinformazione, perseguendo obiettivi mediatici che consentono maggiori slogan e minore rigore in termini di studio, analisi e valutazione, e la cui verifica da parte del giudice di ciò investito viene così procrastinata proprio a iniziativa di chi aveva preteso di promuoverla”.

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Guardare all’Europa? Per l’Italia non basta

Come ha ricordato l’avvocato Matteo Ceruti, uno dei legali che ha promosso il contenzioso climatico contro Eni, la “Giusta Causa” ha costruito il suo impianto giuridico riprendendo molti elementi di cause che in altre parti d’Europa si sono concluse con successo. È il caso del recentissimo pronunciamento della Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU) sul caso meglio noto come la causa delle “Anziane svizzere per il clima” e, quelli più in là nel tempo, del caso Urgenda, passato in giudicato, e di Milieu Defensie, vittorioso in primo grado e oggi in fase di appello, che hanno già creato due precedenti molto importanti nei confronti rispettivamente dello Stato dei Paesi Bassi e della più grande società energetica europea, la Shell.

Anche per la Giusta Causa i riferimenti riguardano le violazioni dei diritti fondamentali alla vita e al rispetto della vita privata familiare (articoli 2 e 8 della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo) dovute ai cambiamenti climatici e il nesso causale tra il riscaldamento globale e le azioni, o inazioni, di governi e grandi inquinatori. Soggetti che con le loro emissioni, superiori a quanto prescritto dalla comunità scientifica internazionale per rispettare gli obiettivi dell’Accordo di Parigi, si renderebbero in questo modo responsabili dei cambiamenti climatici. Peccato che, come denunciato da Greenpeace e ReCommon, “ la difesa del Ministero dell’Economia e delle Finanze nelle sue memorie difensive ha sostenuto che, a distanza di quasi un decennio dalla sua approvazione, l’Accordo di Parigi non sarebbe operativo nel nostro Paese in quanto l’Italia lo avrebbe sì ratificato e reso esecutivo, ma non avrebbe ancora approvato una legge di attuazione indicando modalità specifiche di raggiungimento degli obiettivi climatici, cosicché nessun giudice potrebbe imporne il rispetto alle pubbliche autorità ed ai soggetti privati”.

Se ciò fosse vero viene da chiedersi: a che servono allora le annuali COP alle quali lo Stato italiano partecipa, con delegazioni sempre più numerose – e in cui la presenza di delegati di aziende fossili è preponderante? E a che servono atti come il PNIEC (il Piano Nazionale Integrato Energia e Clima) e i Nationally Determined Contributions (NDC), cioè i piani nazionali di riduzione delle emissioni di gas serra, o ancora il Global Stocktake, cioè il meccanismo di valutazione dei progressi ottenuti a livello globale delle misure dell’Accordo di Parigi, elaborato alla scorsa Cop28?

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“Diciamo a Eni che è lei a voler temporeggiare, non noi”

Al di là delle punzecchiature comunicative e delle strategie giurisprudenziali, resta il procedimento in sé: cosa cambia dopo la presentazione del ricorso in Corte di Cassazione? Contestualmente a questa scelta Greenpeace e ReCommon hanno richiesto al giudice designato dal tribunale di Roma di sospendere il procedimento ordinario, in attesa della pronuncia della Cassazione. E su questa richiesta di sospensiva è attesa una decisione nelle prossime settimane. Il giudice potrebbe accettare la sospensione oppure potrebbe far procedere lo stesso il processo, seppur con il rischio, qualora vada subito in camera di consiglio dopo l’udienza del 13 settembre, che la sua decisione possa poi confliggere con quella della Cassazione. Allo stesso tempo la Corte di Cassazione potrebbe rivolgersi alla Corte costituzionale – considerato, ad esempio, il nuovo art.9 della Costituzione sulla tutela dell’ambiente – e ciò significherebbe uno slittamento dei tempi fino al 2025; oppure la Cassazione potrebbe decidere di non ammettere il ricorso, lasciando quindi il procedimento ordinario invariato, o di ammetterlo e pronunciarsi nel merito, senza rivolgersi alla Corte costituzionale.

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Da tali scenari deriva l’accusa di Eni di voler “allungare i tempi”. Un’accusa che Greenpeace e ReCommon respingono all’unisono. Per Simona Abbate, campaigner Clima e Energia di Greenpeace Italia, “la nostra richiesta potenzialmente accorcia i tempi. Noi non vogliamo temporeggiare, è invece Eni ad aver richiesto il difetto assoluto di giurisdizione, facendo riferimento a una pronuncia, quella su Giudizio Universale, che riguardava lo Stato e non un’azienda privata, tra l’altro per una sentenza di primo grado e non definitiva. Innegabilmente subiamo il potere mediatico di Eni ma la causa legale è un pezzo di una campagna di informazione più ampia sulla più importante azienda italiana”. Per Antonio Tricarico, campaigner Finanza Pubblica e Multinazionali di ReCommon, “l’atteggiamento molto aggressivo di Eni ci ha sorpreso ma lo interpretiamo come un segnale di debolezza. Eni si sottrae al confronto e vuole che anche l’opinione pubblica non sappia davvero di ciò che la riguarda”. Non è da escludere, infine, che se la magistratura italiana dovesse respingere le istanze delle due ong queste potrebbero rivolgersi alla Corte Europea dei Diritti Umani.

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