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lunedì, Dicembre 16, 2024

Etichetta ambientale, dall’obbligo alla sospensione: lo stato dell’arte in Italia

La direttiva imballaggi impone di dare al cittadino informazioni sufficienti per avviare a riciclo gli imballaggi. Le norma, recepita in Italia, è stata poi sospesa per dare modo alle imprese di adeguarsi. Resta l'obligo di indicare la natura del materiale. Tutto quello che c'è da sapere sull'etichetta ambientale.

Elisa Elia
Elisa Elia
Giornalista e fotografa, anno 1992. Dopo gli studi in Editoria e scrittura all’Università di Roma La Sapienza, inizia a collaborare con le prime testate giornalistiche. Ha scritto per l’Italia che cambia, Il Manifesto, Left e Il Migrante. Appassionata del mondo del sociale, lavora anche con organizzazioni attive sul territorio a Roma, convinta che le parole rappresentino una parte fondamentale del cambiamento.

Quanto contano le indicazioni sullo smaltimento della confezione nei prodotti che comunemente compriamo ai fini del riciclo dei rifiuti urbani, del loro riutilizzo e recupero? Molto. Al punto che anche in Italia è stato introdotto l’obbligo dell’etichettatura ambientale sugli imballaggi.

Il recepimento della direttiva europea e l’etichetta ambientale

Con il decreto legislativo 116 del 3 settembre 2020, infatti, il Governo italiano ha recepito la Direttiva UE 2018/852, prevista dal Piano Europeo sull’economia circolare del 2015 che riguarda gli imballaggi e i rifiuti di imballaggio, ritenuti un elemento fondamentale su cui lavorare in ottica circolare.

La norma italiana, di fatti, stabilisce che tutti gli imballaggi debbano essere etichettati in modo da facilitare raccolta e riciclo quando questi finiscono nelle mani del consumatore finale, che poi deve smaltirli adeguatamente.

Leggi anche: “Nel 2020 meno imballaggi ma restiamo leader nel riciclo”. Intervista a Luca Ruini, presidente Conai

Un’etichetta ambientale per informare il consumatore

Dal testo di legge emergono fondamentalmente due obblighi che riguardano in entrambi i casi i produttori: da un lato fornire al consumatore finale le informazioni adeguate per poter smaltire correttamente l’imballaggio; dall’altro, indicare la natura dei materiali utilizzati in base alla Decisione 97/129/CE che ha stabilito un sistema di identificazione dei materiali valido a livello europeo.

Per ogni materiale esiste un codice, composto da un’abbreviazione e un numero: ad esempio PAP20 indica il cartone ondulato, che a sua volta si distingue da PAP21 (cartone non ondulato), e da PAP22 (la carta).

Il produttore acquisisce dunque una responsabilità centrale nel flusso produzione-consumo-riciclo e la chiarezza comunicativa dell’etichetta ambientale diventa un fattore chiave per far sì che l’obbligo non sia semplicemente rispettato, ma diventi anche uno strumento efficace in termini di riciclo.

La sospensione nel Milleproroghe

Nel frattempo CONAI (Consorzio Nazionale Imballaggi), Confindustria e molte altre associazioni del settore hanno chiesto un regime transitorio di diciotto mesi per dare alle aziende il tempo di adeguarsi. Richiesta che viene in parte accordata con il Decreto Mille Proroghe del 31 dicembre 2020: l’obbligo di etichettatura ambientale viene sospeso fino al 31 dicembre 2021, mentre rimane in vigore quello di indicare la natura del materiale dell’imballaggio.

Il decreto, infatti, aveva destato disorientamento e dubbi fra le aziende. Tanto più dal momento che l’inadempimento degli obblighi previsti può comportare una multa dai 5.200 a 40.000 euro, secondo la normativa sugli imballaggi prevista dal Codice dell’Ambiente. Alcune delle domande più ricorrenti che i produttori hanno posto a CONAI (che ha compilato delle utili linee guida) riguardavano l’aspetto grafico e l’etichettatura di imballaggi multicomponenti. E cioè: come applicare l’etichetta su un imballaggio le cui componenti costituiscono materiali differenti? Secondo CONAI, sarebbe corretto applicarla su ogni singolo componente dell’imballaggio, ma laddove non sia possibile si può pensare anche ad un’etichetta unica purché sia chiara e comprensiva per il consumatore.

La frazione estranea

La domanda si ricollega ad una questione non banale: quanto infatti i consumatori sono in grado di riciclare correttamente un prodotto di questo tipo? E quanto questo incide sulla raccolta differenziata in Italia? Ogni anno, infatti, i dati dei consorzi per il riciclo (enti nati per gestire il riciclo in Italia ed evitare lo smaltimento in discarica) segnalano la percentuale di “frazione estranea” e cioè di quel materiale ‘estraneo’ all’interno delle raccolte differenziate e che quindi è stato smaltito in modo scorretto.

Comieco (Consorzio nazionale recupero e riciclo degli imballaggi a base cellulosica) comunica che nella raccolta differenziata di carta e cartone proveniente da utenze domestiche nel 2019 permane un 2,62% di frazione estranea. La Cial (Consorzio Nazionale Imballaggi Alluminio) su 51.400 tonnellate di imballaggi di alluminio avviati al riciclo nel 2019 ha riscontrato un 4,9% di frazione estranea, che in numeri significa 2.5186 tonnellate di scarto. Corepla (Consorzio nazionale per la raccolta, il riciclo e il recupero degli imballaggi in plastica) segnala 107 mila tonnellate di frazione estranea nei 565 mila tonnellate di imballaggi di plastica trattati nel 2019, che tradotto in percentuale significa 18,94% di incidenza sul totale. Del resto, riguardo al recupero del vetro L’Italia del Riciclo segnala che “è necessario perseguire il miglioramento della qualità del rottame sin dall’origine” e che “gli elementi da allontanare nella fase di trattamento e recupero dei rifiuti degli imballaggi in vetro […] sono costituiti essenzialmente dagli inquinanti inorganici e organici presenti come frazioni estranee.”

Leggi anche: Il riciclo della plastica in Italia spiegato coi numeri

Etichette mute

Se questi dati aiutano a comprendere il comportamento dei consumatori e l’incidenza che questi hanno sulla raccolta differenziata, quelli pubblicati dall’Osservatorio Immagino di GS1 Italy in collaborazione con Nielsen forniscono invece un quadro ben definito su etichettatura, ecopackaging e imprese allo stato attuale in Italia.

In uno studio che va da gennaio a giugno 2020, l’Osservatorio ha analizzato 115.429 prodotti. Di questi, soltanto il 28,2% riporta sulle confezioni le indicazioni per il riciclo indirizzate ai consumatori. Analizzando poi fra questi i prodotti concretamente immessi sul mercato in quel lasso di tempo, solo il 47,3% di essi – pari a 10.165.666.216 confezioni – comunicava come smaltire l’imballaggio. Mentre le 11.326.228.533 confezioni rimanenti, pur essendo in alcuni casi riciclabili, hanno alimentato il sistema di accumulo dei rifiuti dal momento che la loro etichetta “non parlava” al consumatore.

A tutto questo, si aggiunge il fatto che l’ecopackaging – al di là della questione dell’etichettatura ambientale – è ancora una realtà di nicchia in Italia: soltanto il 6,2% dei prodotti ha una confezione completamente riciclabile, sempre secondo i dati dell’Osservatorio Immagino GS1 Italy.

La necessità della prevenzione

L’etichettatura ambientale è dunque un passo in avanti fondamentale, che può favorire processi di economia circolare, ma che non può prescindere da un ragionamento a monte da parte delle aziende che si basi sulla prevenzione. E dunque sulla necessità di utilizzare sempre più materiali che non producano alcuno scarto, ma che possano essere messi continuamente in circolo.

Leggi anche: Rifiuti e imballaggi, parola d’ordine: prevenire

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