A cura di Andrea Ballabio, Donato Berardi, Antonio Pergolizzi e Nicolò Valle
Cosa accade agli pneumatici una volta finito il loro utilizzo? Come vengono gestiti, smaltiti o valorizzati quando si trasformano in PFU ovvero Pneumatici Fuori Uso? Si tratta di una questione tutt’altro che marginale osservando i numeri del settore automobilistico e considerato che l’Italia è la nazione europea con il maggior numero di auto in rapporto al numero di abitanti: 663 ogni 1.000 abitanti (dati Istat del 2019).
Siamo, inoltre, il secondo Paese europeo più rilevante nel settore gomma e plastica, dopo la Germania, per numero di unità locali, valori di fatturato e valore aggiunto: il comparto, infatti, è trainante per l’economia italiana, con oltre 150mila addetti e con migliaia di aziende che fatturano complessivamente oltre 26 miliardi di euro, pari all’1,3% del PIL del nostro Paese (dati Federazione Gomma Plastica).
La gestione degli PFU è intrinsecamente connessa al mondo della gomma che, anche alla luce degli ultimi dati non brillanti sulle nuove produzioni di pneumatici, guarda con sempre maggiore attenzione agli PFU.
Per quanto concerne i principali dati di produzione e gestione, diffusi di recente dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA), si ha quanto segue. Relativamente alla produzione, i quantitativi di PFU generati eccedono le 530mila tonnellate nel 2022, con un incremento del 7,8% rispetto al 2021. Circa la gestione, i cui dati sono desumibili dalle dichiarazioni MUD (Modello Unico di Dichiarazione ambientale), il trattamento ha interessato circa 520mila tonnellate nel 2022, con una crescita del 6,5% rispetto al 2021.
Se si guarda alle modalità gestionali, prevale il recupero di materia, con 444.333 tonnellate (85,4%). Seguono la giacenza al 31.12 (59.634 ton, 11,5%) e il coincenerimento (15.994 ton, 3,1%), laddove appena 109 tonnellate risultano trattate mediante operazioni di smaltimento. Queste stime si pongono in parziale conflitto con i dati comunicati dai principali consorzi e ai quantitativi di materiale di recupero di PFU effettivamente in circolazione, come sostengono le principali aziende di riciclo di PFU.
A tali volumi, vanno aggiunte circa 84mila tonnellate esportate all’estero. Anche in questo caso, si registra un incremento, rispetto all’anno precedente, pari al +19%: dalle oltre 70mila tonnellate del 2021, alle circa 84mila del 2022. Il recupero energetico assorbe la quota prevalente di gestione dei PFU esportati, con quasi il 55% del totale, pari a circa 46mila tonnellate.
Le destinazioni principali degli PFU esportati, nel 2022, sono la Turchia (41mila ton), ove i volumi vengono gestiti sotto forma di recupero di energia, la Germania (19mila ton), ove prevale in maniera quasi esclusiva il recupero di materia, e l’India (12mila ton). Tra le principali regioni esportatrici vi sono l’Emilia-Romagna (30%), il Trentino-Alto Adige (24%) e il Piemonte (18%).
PFU e Responsabilità Estesa del Produttore – EPR
Gli PFU sono classificati nel nostro ordinamento come rifiuto speciale non pericoloso, con codice EER 160103 che ne definisce la categoria secondo la Direttiva 75/442/CEE. Il D.Lgs. n. 152/2006 (meglio noto come Testo Unico Ambientale – TUA) li classifica tra le “particolari categorie di rifiuti” la cui gestione è sottoposta a disposizioni specifiche. Infatti, per la loro gestione, l’Art. 228 li affida ad uno schema di EPR o Responsabilità Estesa del Produttore (Extended Producer Responsibility, in inglese), in applicazione del principio comunitario del chi-inquina-paga. Sistema che impone, ai produttori/importatori “l’obbligo di provvedere, singolarmente o in forma associata e con periodicità almeno annuale, alla gestione di quantitativi di pneumatici fuori uso pari a quelli dai medesimi immessi sul mercato e destinati alla vendita sul territorio nazionale”.
Operativamente, questo schema EPR è stato introdotto nel nostro paese con il Decreto Ministeriale 11 aprile 2011, n. 82, rivisto e corretto con il più recente DM 19 novembre 2019, n. 182, che non ha risolto molti dei nodi ancora da sciogliere.
Il modello di EPR assicura all’ultimo anello della catena del ricambio (generalmente un gommista) una sorta di impegno da parte del sistema al ritiro gratuito dello pneumatico smontato e considerato rifiuto. A finanziare il meccanismo di raccolta è destinato un extra prezzo, definito contributo ambientale, che viene versato dal produttore/importatore al momento dell’immissione nel mercato, e che viene trasferito sul prezzo di vendita ai vari stadi della catena di distribuzione fino a gravare sul prezzo finale dello pneumatico nuovo (compresi quelli usati importati e ricostruiti su carcassa importata) pagato dal consumatore.
Se sono quindi i consumatori a finanziare il sistema, con un extra prezzo che dev’essere esposto nello scontrino o fattura, ai produttori/importatori rimane comunque la responsabilità di provvedere logisticamente alla raccolta dell’equivalente, in termini di peso, del loro immesso nel mercato. Si parla in questo caso di target, ovvero dell’esatto quantitativo di PFU che ciascun produttore/importatore è tenuto a raccogliere e trattare, sulla base delle rispettive quantità immesse, in esito alle richieste – in ordine temporale – che giungono dai gommisti, (insieme agli altri professionisti autorizzati all’operazione di sostituzione degli pneumatici), tecnicamente definiti come punti di generazione degli PFU.
La responsabilità estesa che grava sui produttori/importatori può essere assolta sia in forma individuale – ciascun produttore/importatore provvede a ritirare il proprio target di riferimento – oppure in forma collettiva, cioè tramite società consortili senza scopo di lucro, costituite ad hoc dagli stessi produttori/importatori col compito di adempiere agli impegni che discendono dalla responsabilità del produttore.
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Schemi EPR per i PFU
Con l’EPR, la responsabilità economica e logistica della raccolta ricade sui produttori/importatori mentre ai gommisti spetta una sorta di servizio al ritiro gratuito, finanziato dal contributo ambientale integralmente pagato dal consumatore. Quindi, chi ha prodotto o comunque immesso nel mercato pneumatici si ritrova ad essere attore centrale anche nel loro fine vita. Per il gommista/operatore del ricambio, ultimo anello della catena, il ritiro degli PFU non costituisce un costo essendo garantito dai gestori dei Sistemi Collettivi e dai Sistemi Individuali che intervengono a chiamata. Questo cambio radicale di paradigma ha sicuramente migliorato l’efficienza e consentito la nascita di una filiera più organizzata, diretta soprattutto al recupero degli PFU, che hanno trovato un loro sbocco di mercato in numerose applicazioni, come si è detto. Se oggi esiste una filiera del recupero degli PFU è principalmente merito del modello EPR messo in pratica.
Allo stesso tempo, non sono mancate criticità, come dimostra l’attuale emergenza della raccolta, che hanno portato a diversi interventi normativi. Tuttavia, questi non sono risultati risolutori. Ne passeremo in rassegna alcune.
L’applicazione del principio “chi-inquina-paga” è stata oggetto negli anni di varie torsioni, che hanno messo a nudo alcuni risvolti problematici, non risultando indenne da pratiche border-line non contemplate dal Legislatore. A ciò, si aggiunga che ancora oggi – a 15 anni di applicazione concreta – non si conoscono alcuni dati fondamentali dello schema EPR nel caso degli PFU come, ad esempio, quanti sono in Italia i reali quantitativi di pneumatici nuovi immessi sul mercato (naturalmente, insieme a quelli importati usati e ricostruiti su carcasse estere) o quanti PFU vengono fittiziamente ritenuti riutilizzabili e re-inseriti nel mercato in qualità di pneumatici usati.
EPR nei PFU: criticità irrisolte e anomalie da correggere
Tra le principali problematiche, va sicuramente annoverata l’emergenza che nasce dall’accumulo di PFU presso i gommisti. Quantitativi in eccesso rispetto ai target fissati anno dopo anno dai produttori/importatori, che poi diventano target per le gestioni collettive e/o per le gestioni individuali.
Per alleviare la crisi degli accumuli presso i gommisti, a fine 2020, il Ministero dell’Ambiente ha stabilito un invito alla raccolta e gestione di ulteriori quantità di PFU nella misura del 15% oltre i propri obiettivi (incrementabile fino al 20%), a carico dei consorzi EPR e dei sistemi individuali con immesso superiore alle 200 tonnellate. Provvedimento che è stato riproposto negli anni a seguire e che, con ogni probabilità, sarà rieditato anche per il 2024.
Questa, tuttavia, non è l’unica questione critica. Vi sono, infatti, alcune anomalie che oggi caratterizzano il modello EPR per i PFU. Vediamo sinteticamente quali sono, rimandando al Position Paper nella sua interezza per una trattazione dettagliata.
- Una prima anomalia riguarda la capacità di garantire la concorrenza e la parità di accesso. Contrariamente allo spirito dell’EPR – secondo cui le società consortili nascono senza scopo di lucro – accade che alcuni attori interpretino la propria mission come quella di fornire servizi alle imprese (non solo di carattere preminentemente ambientale). Un comportamento che pone un tema di regola della concorrenza rispetto agli operatori che operano fuori dagli schemi EPR.
- I modelli EPR proposti, poi, non hanno sempre restituito i risultati attesi. Pur sostenendo l’intercettazione, essi non hanno incentivato il riutilizzo e le pratiche di prevenzione. A tendere, quindi, bisognerà trovare soluzioni in grado di passare da obiettivi di intercettazione a target di prevenzione e riutilizzo.
- Una terza concerne la rimodulazione del contributo ambientale per sostenere ecodesign e prevenzione. Questa anomalia si può rintracciare all’interno delle dinamiche stesse che hanno portato alla definizione del contributo ambientale, che vede quali unici protagonisti i produttori, singolarmente o tramite i Consorzi. L’intento del Legislatore era, da una parte, di preservare un modello di libera concorrenza al fine di contenere il contributo ambientale e, dall’altra parte, far sì che il suo valore dovrebbe essere determinato in funzione inversa della riciclabilità/riparabilità del bene (incentivando l’ecodesign e le politiche di prevenzione).
- Una quarta riguarda gli extra target e i criteri con i quali vengono definiti i target di raccolta dei singoli gestori e che dovrebbe aiutare a comprendere da dove arrivano gli extra target, ovvero le quantità di PFU (circa 30-40mila tonnellate all’anno, stima MASE) non ritirati.
- Una quinta anomalia riguarda il disallineamento temporale tra i target fissati a inizio anno (rispetto all’immesso al mercato dell’anno precedente) e le entrate da contributo ambientale che si incassano, invece, nell’anno corrente. È facile comprendere come tale disallineamento tra i costi da sostenere (legati al target dell’anno precedente) e i ricavi dell’anno corrente derivanti dalle vendite degli pneumatici, generi delle discrasie che inficiano l’azione degli operatori della raccolta.
- Un’altra anomalia chiama in causa la tracciabilità degli PFU. Come avviene, in molti casi, nell’universo dei rifiuti, anche per la governance degli PFU non esiste un vero sistema di tracciabilità dei flussi, dalla raccolta fino al recupero/smaltimento. Ciò perché finora, a livello internazionale, non si è riusciti a implementare un modello condiviso dalle case produttrici, per esempio tramite tecnologica Rfid (con marcaggio di ogni singolo pneumatico).
- Una settima anomalia fa riferimento all’assenza di fidelizzazione tra gestori e punti di generazione del rifiuto (gommisti), giustificata dal Legislatore – in origine – per evitare che gli obblighi EPR si trasformino in legami commerciali tra i gestori e i punti di generazione del rifiuto. Tuttavia, come documentato e segnalato più volte alle autorità competenti, molti distributori (in una logica business to business) – soprattutto di piccole dimensioni – promettono alle officine attive anche nella vendita di ritirare gli PFU sulla base degli pneumatici acquistati, creando una relazione diretta vietata dal Legislatore.
- Infine, un’ottava criticità può essere rinvenuta nella possibilità che ciascun gestore possa raggiungere il target raccogliendo solo in aree e luoghi di facile accesso (i.e. vicino a grandi arterie stradali, aree commerciali, etc.). Un’eventualità, questa, a cui il DM 182 ha cercato di porre rimedio prevedendo l’obbligo di modulare le raccolte sulla base di aree geografiche.
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Alcuni spunti di riflessione
Quindi, come intervenire? In primo luogo, serve tornare al senso profondo dell’EPR, vale a dire che riguarda tutte le filiere, nessuna esclusa, che esclude ogni forma di attività finalizzata a trarre profitto e che garantisce il rispetto della gerarchia dei rifiuti, puntando sulla prevenzione in primis e, quindi, sul riuso/preparazione per il riutilizzo e sul riciclo.
L’EPR dovrebbe essere l’inizio di un lungo percorso di sostenibilità, non il percorso in sé, così come la riduzione della produzione dei rifiuti dovrebbe essere il vero obiettivo, non un corollario.
Per incentivare la transizione ecologica della nostra economia, servono quindi strumenti di politica industriale e scelte coraggiose soprattutto sul lato dell’offerta, per esempio costruendo nuovi sbocchi e nuovi mercati per i prodotti di riciclo, laddove gli schemi di EPR dovrebbero servire prevalentemente a rispondere a esigenze di tutela ambientale.
È altrettanto evidente che la costruzione di un mercato regolato dai meccanismi dell’EPR genera, specularmente, la sua nemesi nella nascita di mercati paralleli, dove anche il mancato rispetto delle regole diventa strategia di penetrazione economica e di concorrenza sleale. Pratiche rispetto alle quali occorre approntare tutte le soluzioni idonee per scoraggiarle e reprimerle, a partire da un’estensione delle filiere coperte dai meccanismi di responsabilità estesa in quanto tali sistemi costituiscono anche un presidio di legalità nel trattamento dei flussi di rifiuti.
Inoltre, le risorse raccolte con il contributo ambientale dovrebbero essere destinate a sostenere proprio quei segmenti della filiera che non reggono la prova del mercato, in quanto ritenute meno convenienti dagli operatori, sulla base delle normali condizioni di domanda e di offerta.
Le tensioni geopolitiche (Ucraina, Medio Oriente) e i rincari dei prezzi (materie prime, fonti energetiche, beni di consumo), in un contesto generalizzato di mercati che non riescono a svolgere il loro ruolo di efficienza allocativa a causa delle esternalità ambientali, stanno facendo emergere molte contraddizioni e/o criticità nel campo della transizione ecologica, compreso il settore dei rifiuti e i flussi regolati, appunto, da schemi di EPR.
In un tale framework, non si può desistere dalla ricerca continua delle modalità migliori per assicurare l’efficienza economica ed ambientale nella gestione dei flussi, in aggiunta alla leva del contributo pagato dai consumatori finali. In tal senso, gioverebbe indubbiamente un’estensione della diversificazione del contributo ambientale, alla stregua di quanto già adottato per gli imballaggi in carta e cartone e in plastica. La diversificazione contributiva, infatti, ha il pregio di favorire l’ecoprogettazione dei beni e, conseguentemente, un loro trattamento maggiormente ottemperante con la gerarchia dei rifiuti (preparazione per il riutilizzo, riciclo). Più numerose sono le filiere con un contributo ambientale diversificato, maggiori sono i quantitativi di beni che non diventano rifiuti e, in subordine, di rifiuti che vengono gestiti in maniera ambientalmente efficace.
Parimenti, andrebbero ridotte le asimmetrie informative nei confronti delle autorità di controllo, a partire dal MASE.
Infine, tutti gli schemi di EPR prevedono – come già si è detto per gli PFU – che la responsabilità dei produttori possa essere assolta in forma collettiva, cioè attraverso delle società consortili appositamente costituite dai produttori stessi, oppure in forme individuali. Questa scelta ha generato, concretamente, almeno due percorsi distinti.
Il primo, quello dei Consorzi, che svolgono il proprio ruolo in maniera pubblica, assoggettandosi a forme di controllo interne ed esterne, e che si reggono su appositi statuti e procedure formali aperte e condivise e sulla pubblicità delle informazioni in merito alla loro attività. Il secondo, quello dei Sistemi Individuali, che invece agisce in maniera meno conosciuta e che risponde individualmente del proprio operato, al di fuori dei circuiti pubblici attivati dai primi. Così, se il MASE e, in generale, l’opinione pubblica può disporre di almeno una parte delle informazioni che i Consorzi mettono a disposizione nei propri canali istituzionali, come accade per gli annuali Report ambientali, le poche informazioni delle forme individuali transitano solo verso il MASE. Pertanto, andrebbe chiuso il gap informativo sulla conoscenza dei dati e delle informazioni più rilevanti, che ancora interessa diversi meccanismi di responsabilità estesa. Senza un’adeguata raccolta e un’opportuna analisi, non si può favorire il rispetto trasversale delle regole e, di conseguenza, il sostegno alla mission ambientale sottesa a tali sistemi.
Qui il Position Paper completo.
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