Lo scorso 5 dicembre Ansa Med pubblica un lancio in cui l’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo di Tunisi annuncia che “il cambiamento climatico ha un impatto molto serio in Tunisia che si manifesta con periodi sempre più prolungati di siccità, un intensificarsi della desertificazione”, questo impatta moltissimo sulla vita lavorativa delle donne e sui casi di violenza. È per questo che è stato attivato un progetto che prevede lo stanziamento di 2,8 milioni di euro da parte della cooperazione italiana per “sensibilizzare il genere femminile tunisino sui rischi che si corrono continuando a ignorare il cambiamento climatico e le sue ripercussioni sulla salute e sul tenore di vita”.
Sarebbe quindi un generico genere femminile ad avere un atteggiamento sbagliato verso l’ambiente. Ma queste affermazioni hanno un riscontro di verità? Sicuramente nelle agende di alcune donne europee l’argomento è all’ordine del giorno, come per esempio per le Senior Women for Climate Protection: 2500 donne di età pari o superiore a 64 anni che lo scorso 9 aprile si sono viste riconosciute dalla Grande Camera della Corte dei diritti umani, la violazione dei diritti umani delle donne anziane in Svizzera, perché lo stato non sta prendendo le misure necessarie per combattere il riscaldamento globale. In particolare, la corte, ha riscontrato una violazione dell’articolo 8 (diritto alla vita privata e familiare).
“Questa sentenza è una pietra miliare nella lotta per un clima più vivibile per tutti. E la sentenza è una soddisfazione. Sono nove anni che ci battiamo per la giustizia climatica con il sostegno di Greenpeace. Dopo che i tribunali svizzeri si sono rifiutati di ascoltarci, la CEDU ha confermato che la protezione del clima è un diritto umano”, afferma Anne Mahrer, co-presidente dell’associazione svizzera Senior Women for Climate Protection. “L’importanza di questa decisione non può essere sottovalutata, perché avrà una grande importanza per ulteriori cause sul clima contro stati e aziende in tutto il mondo e aumenterà le loro possibilità di successo”.
La giustizia climatica è per tutte?
Ma che vuol dire giustizia climatica? Esiste un’ottica femminista di approccio alla giustizia climatica? I diritti umani sono uguali per tutte? Ma soprattutto la giustizia climatica è solo un problemi di diritti? Su questo hanno dibattuto a lungo le donne delle Nazioni Unite che lo scorso anno hanno stilato un rapporto dal titolo Feminist Climate Justice: A Framework for Action. Laura Turquet, Constanza Tabbush, Silke Staab, Loui Williams e Brianna Howell vedono nel femminismo un potente strumento per combattere il cambiamento climatico: “il rapporto mostra come le crisi in tutto il mondo, che vanno dalla disuguaglianza economica allo stallo geopolitico, sono amplificate dai cambiamenti climatici e hanno impatti sproporzionati su donne e ragazze. Questo richiede una chiara visione della giustizia climatica femminista che integri i diritti delle donne nella lotta globale contro la catastrofe ambientale”.
Il rapporto suddivide questa visione in quattro R: riconoscere i diritti, il lavoro e la conoscenza delle donne, infatti le donne e le ragazze di tutto il mondo sono in prima linea nell’attivismo climatico e usano una varietà di metodi per proteggere l’ambiente e respingere i progetti di estrazione dannosi. La seconda R è la ridistribuzione delle risorse economiche: invertire il cambiamento climatico richiederà lo spostamento delle risorse dalle attività estrattive e dannose per l’ambiente verso quelle che danno la priorità alla cura delle persone e del pianeta. Importante, continua il rapporto è la terza R, rappresentare le voci e l’agenzia delle donne: le donne difensori dei diritti umani, i gruppi femministi e altri che spingono per un approccio sensibile al genere e al cambiamento climatico, devono essere integrati nella politica ambientale a tutti i livelli ed infine l’ultima R che ricorda che è necessario e sempre più impellente riparare le disuguaglianze e le ingiustizie storiche: un esempio è la questione del debito climatico. Il fatto che, dal 1850, i paesi del nord del mondo sono stati responsabili del 92% delle emissioni in eccesso del mondo. Per affrontare tale squilibrio, la relazione invita i paesi ricchi a rispettare i loro impegni di finanziare i programmi climatici e garantire che i fondi vadano ai paesi più vulnerabili e alle organizzazioni femminili di base. Quindi le donne, ma soprattutto le femministe, non solo non ignorano il cambiamento climatico ma cercano anche di dare delle soluzioni.
In tutto il rapporto infatti c’è anche un’importante approccio intersezionale che obbliga ad una riflessione su chi veramente stia pagando l’ingiustizia climatica, le guerre e la sempre più frenetica produzione capitalista. Al centro ci sono i privilegi occidentali, compresi quelli delle femministe e delle donne, ma anche l’accesso alle risorse primarie come l’acqua e il cibo. Se dall’India, dal Bangladesh o dal Maghereb delle riflessioni serie sulla terra e chi la lavora sono da tempo oggetto di scritti e resistenza, il privilegio occidentale appare ancora troppo lontano dal discutere quanto alcune donne, probabilmente la maggioranza, stiano pagando con la vita quello che arriva sulle tavole europee.
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Crisi climatica: dai campi al piatto
Nel rapporto del 2023 della FAO, dal titolo The status of women in agrifood systems, leggiamo dei dati riporta dati relativi a qualche anno fa (dal 2017 al 2021), ma ancora attuali. I sistemi agroalimentari sono la fonte di sostentamento lavorativo più importante sia per le donne che per gli uomini in molti paesi. Nell’Africa subsahariana, il 66% dell’occupazione femminile è nei sistemi agroalimentari, rispetto al 60% degli uomini. Nell’Asia meridionale, le donne lavorano in modo schiacciante nei sistemi agroalimentari (71% delle donne, contro il 47% degli uomini). I sistemi agroalimentari sono una fonte chiave di occupazione per le giovani donne, specialmente quelle di età compresa tra 15 e 24 anni, nel mondo. Lavori comunque precari e mal pagati, e che vedono la terra pagare il prezzo più alto degli eventi climatici estremi sempre più frequenti.
Ma se le donne di alcuni continenti sono la maggioranza della popolazione che lavora la terra, non sono la categoria che usufruisce dei suoi prodotti. Infatti sempre la FAO ci dice che il divario più significativo tra uomini e donne riguarda l’insicurezza alimentare che è passato da 1,7 punti percentuali nel 2019 a 4,3 punti percentuali nel 2021. In due anni, il numero delle donne che non sanno se mangeranno sono triplicate, e questo è accaduto anche perché a livello globale, durante la pandemia da Covid, il 22% delle donne impiegate nel settore agroalimentare ha perso il lavoro, rispetto a solo il 2% degli uomini. È evidente come le politiche del futuro si giocheranno su questo: già avviene a Gaza e in Sudan dove la fame viene usata come arma di guerra, questo mentre sulle nostre tavole si continua a buttare e sprecare cibo.
In Italia, infatti, lo spreco alimentare a casa passa da 75 grammi di cibo buttato ogni giorno a testa nel 2023, a quasi 81 grammi nel 2024, in pratica oltre mezzo chilo a settimana (566,3 grammi). Si tratta dell’8,05% di spreco in più rispetto a un anno fa. È ora forse di cominciare a pensare di mangiare meno per far sì che si possa mangiare tutte. Porre all’ordine del giorno delle agende anche dei movimenti femministi e transfemministi europei una seria riflessione sul divario sempre più grosso degli stili di vita, delle guerre che vengono fatte per il nostro benessere, di quanto viene messo in tavola nelle nostre case.
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