Se la pace in Ucraina è auspicabile, così come la fine della conseguente crisi energetica e umanitaria, vale la pena di esplorare le radici della guerra per orientare le riflessioni di chi, come noi di Economiacircolare.com, vorrebbe essere testimone di un vero cambiamento verso uno sviluppo umano più equo.
Per fare luce sulle “ragioni” di un conflitto così radicato nella storia del nostro continente, ci rivolgiamo alla disciplina delle relazioni internazionali chiedendo aiuto a Roberto Gritti, docente dell’Università La Sapienza di Roma, discepolo di Norberto Bobbio, nonché autore di diversi testi che esplorano il rapporto tra oriente e occidente, con uno specifico interesse per il mondo post-comunista.
Il professor Gritti risponde con generosità e minuzia alle nostre numerose domande che toccano complessi e molteplici aspetti legati al conflitto. Ha voluto ricordare, tuttavia, citando Primo Levi, che in un “tempo in cui coloro che ti spiegano tutto abbondano”, quello che ci offre è una riflessione personale, “una proposta”, un “tentativo di spiegazione”.
Prima di affrontare i temi più di nostro interesse – le ripercussioni della guerra sulla crisi climatica e sulle politiche energetiche anche nel nostro Paese – le chiedo di aiutarci a capire la questione dell’identità ucraina, quale ragione, addotta da Putin, dell’invasione.
Parto dal nome. Il toponimo Ucraina significa «territorio di frontiera», di «attraversamento». Più che un rigido confine, è «spazio di transizione». È formato da U (“vicino, presso”) e okraina (periferia), dalla radice slava kraj (“limite”, “bordo”). Nei secoli, il continuo mutamento delle frontiere ha determinato la presenza di molteplici componenti etniche e linguistiche nello spazio ucraino; queste sono state al tempo stesso fonte di ricchezza e originalità culturale, ma anche causa di continui conflitti. Questa ambiguità si può far risalire addirittura al IX secolo quando fu fondata la Rus’ di Kiev. Quell’entità statuale può essere rivendicata come primo nucleo nazionale tanto dalla Russia che dall’Ucraina.
Già dalle sue origini è quindi un territorio “conteso” con la Russia?
Dalla rivoluzione bolscevica, l’Ucraina è certamente entrata nella sfera d’influenza e di dominio della Russia. A tale proposito cito solo tre episodi. Il primo è la guerra civile del 1917-1921 che finì con l’ingresso dell’Ucraina nella nascente Unione Sovietica. Il secondo è la tragedia dell’Holodomor del 1932-1933: la carestia voluta da Stalin per punire i contadini ucraini che rifiutavano la collettivizzazione e in cui morirono di fame dai 3 ai 4 milioni di persone. Il terzo episodio è il “dono riparatore” di Krusciov che nel 1954, in piena campagna di destalinizzazione, regalò la Crimea all’Ucraina. Come sappiamo il conflitto di oggi ha le sue radici proprio nell’occupazione russa della Crimea nel 2014.
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Venendo a tempi più recenti, che ruolo ha la creazione dell’identità nazionale ucraina – la “comunità immaginata”, per citare Anderson – e come si è venuta a creare la spaccatura nella sua società?
Dalla fine dell’URSS ad oggi, in Ucraina si sono scontrate due identità, due comunità immaginate, per riprendere il concetto di Benedict Anderson: quella filo-russa che concepisce l’Ucraina come parte integrante dell’ex impero russo e sovietico; quella nazionalista ed indipendentista ucraina che invece guarda ad occidente. Questa seconda identità ha prevalso, almeno politicamente e nella gran parte delle coscienze, all’inizio del 2014 con la rivoluzione di Maidan. Da allora le élites politiche al potere, prima Poroshenko e poi Zelensky, hanno avviato un poderoso processo di nation-building ovvero la costruzione di un nazionalismo ucraino forte e radicale. Il risultato è stato, al di là della guerra iniziata lo scorso 24 febbraio, la polarizzazione ideologica fra le due comunità immaginate e la netta spaccatura del Paese: da una parte (nel centro, nell’ovest e a Odessa) prevale il nazionalismo ucraino, mentre nel sud e nell’est ha ripreso vigore il movimento filo-russo e imperiale post-sovietico. Voglio chiarire, però, che quando si definisce la nazione una comunità immaginata non significa riferirsi a qualcosa di “immaginario”, di puramente inventato e astratto dalla realtà, un esercizio di pura manipolazione sociale. L’enfasi si pone invece sul processo di costruzione sociale dell’idea di nazione.
Spieghiamo bene cos’è questo processo?
Il nation-building è un processo sociale che richiede l’unione di saperi “archeologici” e “gastronomici”: nel primo caso si tratta dell’abilità a scavare nel passato per definire una solidarietà transgenerazionale; nel secondo, ci si riferisce alla necessità di rendere fruibili i diversi elementi, attraverso un sapiente dosaggio degli “ingredienti” che solo il moderno nazionalismo può garantire. Insomma le identità etnico-nazionali contrapposte in Ucraina, mettono insieme ciò che il nostro Giuseppe Mazzini chiamava “indizi” (memoria storica, costumi, legami di parentela, lingua, riti e credenze simbolico-religiose) che costituiscono i confini del gruppo, la propria “coscienza collettiva” e i criteri di appartenenza ad una comunità.
Per venire alla geopolitica, nella teoria delle relazioni internazionali, si teorizza il superamento del bipolarismo e la comparsa di entità fluide e transnazionali. A guardare le dinamiche della guerra in Ucraina possiamo dire che forse ci siamo sbagliati e non è mai finita la competizione USA-URSS?
Non credo che ci siamo sbagliati. Il bipolarismo USA-URSS è finito per sempre. Il sistema internazionale di oggi è molto diverso da quello degli anni ’70-’80 del secolo scorso e, utilizzando il linguaggio delle relazioni internazionali, possiamo sostenere che siamo passati da un ordine bipolare ad un disordine multicentrico. Penso che la semplice aritmetica polare non è più sufficiente per comprendere le trasformazioni in atto nel sistema, né le sue cause e i suoi esiti. A parte i circa 200 Stati sovrani, dobbiamo riconoscere la crescita esponenziale, per numero e rilevanza, degli attori non-statali e liberi dall’imperativo della sovranità (almeno dal punto di vista territoriale). Le imprese transnazionali, si pensi ai giganti del “digital power” (Apple, Microsoft, Amazon, Google), i gruppi etnico-linguistici, le diaspore, le Chiese e i movimenti religiosi, le organizzazioni terroristiche e della grande criminalità, i movimenti sociali, le organizzazioni non governative e quelle internazionali, sono ormai anch’esse, in base alla visione multicentrica, unità costitutive del nuovo (e disordinato) sistema internazionale.
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Come ci orientiamo allora per capire questo conflitto e le sue conseguenze a livello internazionale?
Oggi non si combattono quasi più conflitti convenzionali, ma si moltiplicano le cosiddette guerre asimmetriche o ibride, caratterizzate da una disparità delle forze in campo, dall’eterogeneità degli attori coinvolti, da strategie e tattiche differenti (controllo militare del territorio vs guerriglia insurrezionale e/o terrorismo). Le guerre asimmetriche spesso nascono a seguito del regime change – nel caso ucraino l’Euromaidan del 2014 – ispirato da una o più potenze straniere e/o dalla comunità internazionale. Il risultato di questa strategia americana e occidentale ha prodotto stati “fragili” o “falliti” (Iraq, Afghanistan, Libia, Mali e Yemen, per citarne solo alcuni), dove i governi non controllano più molte aree del paese. Contemporaneamente Cina e Russia hanno adottato, negli ultimi decenni, strategie ben diverse. La prima ha praticato sistematicamente una strategia di penetrazione economica (e demografica) nei paesi afroasiatici accrescendo la sua influenza. La seconda ha reagito alla perdita dell’impero con l’arma del ricatto sulle risorse strategiche. Ambedue hanno fatto ricorso, sempre più massiccio, alla rete per influenzare e orientare le opinioni, le scelte e le politiche dei paesi occidentali e di quelli oggetto della nuova cyber colonizzazione. Certamente l’Ucraina, comunque vada a finire la guerra, si aggiungerà (purtroppo) alla lunga lista degli stati “fragili” o “falliti”.
A proposito di rete, nel suo libro “Post-comunismo e media” analizzava lo stato dell’informazione nella grande costellazione dei paesi ex URSS, per capirne lo stato di democratizzazione e libertà dell’opinione pubblica. Nel contesto attuale in cui giocano un ruolo importante i nuovi media, è ancora forte il peso della propaganda (in entrambi gli Stati) e di una transizione democratica mai veramente compiuta?
Tutti, in questi mesi, hanno ripetuto la frase, derivata da Eschilo, “quando scoppia la guerra, la prima vittima è la verità”. Banale ma vero. Oggi è estremamente difficile separare l’informazione (indipendente e autorevole) e la propaganda alimentata dalle due parti in conflitto ed è certo la seconda che prevale. È evidente che in Ucraina in questi anni vi è stato un percorso, difficile e ancora incompiuto, di liberalizzazione e democratizzazione mentre in Russia si è verificato l’esatto opposto con l’accentuazione dei tratti autoritari del regime putiniano che definirei un autoritarismo con aspirazioni totalitarie. E qui sta la differenza: quella ucraina è una informazione e propaganda di resistenza nazionale (o, meglio, di esistenza) contro un aggressore, mentre quella russa è una propaganda imperialista, pervasiva e di sostanziale negazione dell’identità del paese invaso che deve essere “smilitarizzato e denazificato”. In sintesi, il sistema dei media (vecchi e nuovi) in Russia è totalmente sotto il controllo statale. Putin dispone di una gigantesca forza d’urto televisiva e sui social. La propaganda o pseudo informazione russa non è semplicemente “disinformazione”, è più complessa e sofisticata: usa un mix di fatti, fattoidi e finzioni narrative (fictions), bufale e fabulae, conoscenza e manipolazioni. Il tutto finalizzato ad una “re-visione” della storia, con la cancellazione totale dell’identità ucraina e il continuo attacco all’Occidente (Stati Uniti ed Europa) accusato di falsificare la storia, quella con la “s” maiuscola. L’annessione dei territori ucraini (Crimea, Donbass ecc.) è stata preceduta dalla “annessione della storia” al progetto di ripristino imperiale russo.
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Per venire al ruolo dell’Europa, che ne pensa della nostra diplomazia? L’Europa ha sviluppato una sua cultura e influenza politica di pace e diritti umani, in virtù della sua storia, o ha fallito?
Prima di provare a rispondere ad una domanda così complessa desidero ricordare un episodio che ha marcato e indirizzato tutta la mia vita, personale e professionale. Nel 1975 facevo parte della Lega Obiettori di Coscienza, e rifiutai il servizio militare di leva, che all’epoca era obbligatorio. In nome della non violenza e del rifiuto delle armi, fui classificato come un “disertore” renitente e passai qualche guaio. E su quella posizione, diciamo di “pacifondaio”, sono rimasto fino ad oggi. Ciò premesso non concordo con i molti opinionisti “dissidenti”, che hanno riempito i talk show in questi mesi, rispetto all’appoggio europeo all’Ucraina. Trovo queste posizioni frutto di quello che ho chiamato, insieme ad altri, “occidentalismo”. Si tratta della versione speculare dell’orientalismo (Edward Said, “Orientalismo”, 1978, ndr), ovvero del gioco non innocente della costruzione del Noi (Occidente) e dell’Altro (l’Oriente, dalla Russia alla Cina fino all’Islam). In questa visione l’Occidente (l’Europa, gli Stati Uniti) diventa la causa di tutti i mali che affliggono il mondo e lo si disegna come l’altro assoluto e nemico, come uno spazio geografico e simbolico caratterizzato dall’aggressività imperialistica. L’Occidente, come ho ricordato prima, ha fatto tanti errori. Giusto per restringere lo sguardo all’ultimo mezzo secolo: dal Vietnam all’Afghanistan, dalla ex Jugoslavia all’Iraq. Tutti questi casi sono elementi della “cattiva coscienza” e della politica dei “due pesi e due misure”. Tuttavia, l’Occidente rimane il contesto politico più libero, democratico e pluralista. Da noi il dissenso può essere espresso senza andare incontro a misure repressive e violente (Pasternak, Solzenicyn, Sacharov e, perfino Navalny, insegnano qualcosa).
Ma allora lei, anche se obiettore e pacifista, non è d’accordo con i pacifisti?
Bobbio pubblicò nel 1991, a seguito della prima guerra del Golfo, alcune sue annose riflessioni sulla pace e sulla guerra nel bel libro “Una guerra giusta?”. In estrema sintesi Bobbio ritenne l’intervento internazionale in Kuwait come una guerra “legittima”, “legale” e “conforme alla legge”. Cito a memoria Bobbio secondo cui quella guerra a Saddam era “lecita in quanto fondata su un principio fondamentale del diritto internazionale che è quello che giustifica la legittima difesa”. Bobbio, che ho frequentato da studente e ricercatore, mi ripeteva spesso che è molto più difficile vincere la pace che la guerra e che in lui, da sempre schierato per la pace nel diritto, convivevano tutti i dubbi e le angosce per essersi trovato di fronte ad una scelta tragica e rischiosa, cioè quella di appoggiare e giustificare una guerra che sembrava essere il male minore.
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Passiamo al tema delle risorse, da sempre motore di conflitti di ogni tipo anche se definiti di “religione”, “etnia”, “identità”. Sia Russia che Ucraina sono ricche di materie prime incluse le terre rare tanto necessarie alla “transizione ecologica e digitale”. Che conseguenze prevede su questo tema?
È chiaro che al di là della negazione dell’identità ucraina, la scelta di Putin d’invadere il paese è legata alla volontà di controllare le sue ricche risorse energetiche, minerali e agro-alimentari. I quotidiani movimenti militari russi ci forniscono chiaramente gli obiettivi reali che persegue Putin. Provo a fornire qualche dato. Nelle regioni che la propaganda russa chiama “Novorossiya” si estrae la metà del petrolio dell’Ucraina, il 72% del suo gas naturale e quasi l’intera produzione di carbone. La regione di Donetsk è uno dei depositi più ricchi al mondo di metalli “critici”, come titanio, ferro, litio e nickel. Lo stesso si può dire per le “terre rare”, fondamentali per la produzione di superconduttori, fibre ottiche e alcuni componenti delle auto ibride. Per quanto riguarda l’agro-alimentare è noto che l’Ucraina è uno dei “granai del mondo”, da cui si fornivano principalmente India, Indonesia, Egitto, Etiopia e Turchia. Questo permette alla Russia di avere un elevato e maggiore grado di influenza e controllo su una quota significativa delle materie prime globali. Putin sta già mettendo sul piatto delle relazioni (di forza) internazionali questo aspetto.
Per passare al nostro orticello, a suo parere, la scelta di rendersi indipendenti dal gas russo può essere una spinta per la transizione a un’economia verde “indipendente”, o nel contesto globale ci sarà sempre l’influenza egemonica di economie dominanti?
Certamente il rendersi indipendenti dal gas russo può essere una spinta per la transizione a un’economia verde “indipendente”. Tuttavia la domanda aggiuntiva è: nel processo di diversificazione delle fonti di gas o di petrolio, che cosa chiediamo e offriamo ai Paesi che in questi mesi stiamo contattando (dall’Algeria al Mozambico fino al Ruanda)? Le risposte a tale domanda sono piuttosto deludenti e inadeguate. Per un verso si chiede di costruire infrastrutture “tradizionali” (gasdotti) che altro non sono che la continuazione di uno sviluppo “dipendente” ed “eterodiretto”, privilegio di pochi (élites locali e grandi gruppi energetici occidentali) senza alcuna sostanziale ricaduta positiva per le popolazioni. Inoltre chiedere di estrarre più combustibili fossili non aiuta, a livello globale, la tanto agognata transizione ecologica. E qui si ritorna al tema, troppo spesso sottaciuto, della cooperazione allo sviluppo, auspicabilmente sostenibile. Da decenni si fissano quote del PNL dei paesi “ricchi” per la cooperazione che, regolarmente, salvo le rare eccezioni dei paesi scandinavi, non vengono raggiunte ed erogate. E laddove i progetti esistono hanno un impatto limitato nel riorientare le economie “dipendenti” ed “eterodirette” dei paesi che in modo beffardo definiamo “in via di sviluppo”. Senza l’incremento dei fondi e, soprattutto, senza mutare radicalmente modi e obiettivi degli interventi, per riprendere le sue parole, “nel contesto globale ci sarà sempre l’influenza egemonica delle economie dominanti”.
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Un’ultima domanda difficile. Con l’attuale conflitto nel cuore dell’Europa vede ancora spazio per un multilateralismo “collaborativo” o dobbiamo immaginare un futuro di nuovi “imperialismi” poco sensibili al tema della pace, dello sviluppo sostenibile e dei diritti?
La premessa è che tutte le grandi potenze (Stati Uniti, Cina e Russia) hanno aspirazioni e sogni imperiali. Quindi la risposta secca è che dobbiamo aspettarci, come dice lei, un futuro di nuovi “imperialismi”. Ciò ovviamente non significa che l’Europa più aperta e progressista debba abbandonare l’idea di un multilateralismo “collaborativo”, insistendo sulla diplomazia e sul nostro “soft power” che possiamo mettere in campo.
Desidero concludere questa lunga chiacchierata sottolineando il pericolo della “cancel culture” nei confronti della Russia e della strisciante russofobia, che ovviamente rifiuto. Nel 2016 in una intervista al “The Atlantic” Henry Kissinger lapidario sostenne che “per capire Putin bisogna leggere Dostoevskij, non il Mein Kampf”. È vero che, oltre al romanziere c’è il Dostoevskij pubblicista e polemista, reazionario e panslavista, anti occidentale e guerrafondaio. Un vero prototipo dell’occidentalismo. Ma ritengo sia meglio conoscerlo per entrare in contatto e accettare il dualismo dell’anima e della cultura russa (come della nostra). Vorrei dare infine un suggerimento di lettura per chi vuole capire la questione Russia-Ucraina ai tempi di Putin: lo studio di Gerard Toal, Near Abroad. Putin, the West, and the Contest over Ukraina and the Caucasus, New York, Oxford University Press, 2017.
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