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venerdì, Novembre 15, 2024

Imballato o sfuso? Una scelta che pesa sull’ambiente e sulla salute

L’impatto ambientale della produzione e dell’utilizzo degli imballaggi è ormai noto. E ora i riflettori si accendono anche sui potenziali rischi per la salute umana. Lo sfuso può rappresentare davvero un’alternativa più sana e sostenibile?

Silvia Piselli
Silvia Piselli
Laureata in Lettere e in Comunicazione, ma soprattutto sarda e amante del mare. Da subito si avvicina al mondo del terzo settore come creativa, nell’ambito della comunicazione digitale e della raccolta fondi, portando avanti le proprie idee nel campo della giustizia ambientale

Secondo Eurostat, nell’Unione europea la quantità totale di rifiuti di imballaggio generati è aumentata di 13,6 milioni di tonnellate dal 2009 al 2020 (+20,6%) con conseguenze enormi a livello ambientale, dall’incremento delle emissioni di CO2 allo sfruttamento delle risorse naturali per la produzione, fino all’aumento dell’inquinamento da rifiuti. Secondo le stime, ogni cittadino europeo genera in media 190 chili di rifiuti di imballaggio ogni anno.

Le istituzione europee hanno approvato un Regolamento sugli imballaggi con l’obiettivo di regolarne l’utilizzo e promuovere il riciclo e il riuso degli imballaggi, favorendo l’economia circolare e riducendo la produzione di rifiuti.

Parallelamente, continua a diffondersi la realtà del mercato sfuso, nonostante in molti Paesi fatichi ad affermarsi come alternativa etica e sostenibile. Per prodotti sfusi si intendono tutti quei prodotti che non presentano alcun tipo di imballaggio e possono essere acquistati dai consumatori così come sono, senza alcuna confezione. Per molti consumatori  italiani, infatti, acquistare sfuso è spesso impossibile per mancanza di punti vendita nelle vicinanze; altri ritengono sia più costoso e che consumare o utilizzare prodotti non imballati non sia del tutto sicuro da un punto di vista igienico e salutare. Ad ostacolare la crescita di questo mercato vi sono poi gli interessi della grande distribuzione, delle singole aziende e, chiaramente, delle lobby del packaging.

Leggi anche lo SPECIALE | Regolamento Imballaggi

L’impatto ambientale degli imballaggi

Gli imballaggi svolgono un ruolo cruciale nel contenere, proteggere, trasportare e presentare ogni tipo di merce. Tuttavia, i dati parlano chiaro: l’impatto legato alla loro produzione, in particolare per gli imballaggi monouso, è smisurato.

“Un prodotto, sfuso o confezionato, ha un impatto ambientale, sociale ed economico”, afferma Ottavia Belli, CEO e fondatrice di Sfusitalia. Oggi sappiamo che l’impatto dell’intera filiera di produzione degli imballaggi è enorme. Gli imballaggi sono tra i principali prodotti ad impiegare materiali vergini. Nell’Unione Europea, il 40% della plastica e il 50% della carta sono destinati esclusivamente al packaging. Un altro dato preoccupante riguarda la questione dei rifiuti urbani, rappresentati per il 36% proprio dagli imballaggi. Di questi, la plastica è la categoria a più alta intensità di carbonio, con circa 1,8 tonnellate di CO (è quanto emerge dalla valutazione d’impatto che accompagna la Proposta di Regolamento UE). Il grande problema riguarda gli imballaggi superflui e monouso: quelli per cibi e bevande consumati nei bar e ristoranti, quelli per frutta e verdura, o i flaconi monodose che spesso si trovano negli hotel (shampoo, creme, ecc.).

Quando un imballaggio diventa rifiuto, può essere riciclato o no. Sui 35,9 chilogrammi di rifiuti da imballaggi in plastica prodotti pro capite in Europa, solo 14,2 vengono riciclati (Eurostat, 2021). Nonostante l’Italia rivendichi un primato europeo sul tema del riciclo dei materiali da imballaggio (nel 2022, il tasso di riciclo sul totale degli imballaggi è del 71,5%, secondo il Conai, che per l’anno in corso stima di sfiorare il 75%), il tasso di circolarità, ovvero l’utilizzo di materiali provenienti dal riciclo, nell’economia nazionale rimane decisamente più basso, il 18,4%. È evidente, come sostiene anche il citato Regolamento imballaggi, che il riciclo da solo non può rappresentare la soluzione, nell’ottica di un’economia circolare, se dall’altra parte non viene affrontato il problema della riduzione dei rifiuti.

Uno studio condotto da Eunomia e Zero Waste Europe, insieme all’Associazione francese Réseau Vrac, dimostra ad esempio come un solo negozio di prodotti sfusi risparmi in media 1.026 chili di imballaggi ogni anno. Facendo una stima su scala europea, si tratta di circa 5.576 tonnellate di imballaggi risparmiati ogni anno, per una diminuzione di CO2 equivalente che va dalle 6.046 alle 28.219 tonnellate nel migliore dei casi.

imballaggi sfuso
Foto: Canva

Sicurezza e imballaggi. Cosa dicono gli studi

Chi si schiera a favore dell’utilizzo degli imballaggi, tuttavia, ritiene che questi siano indispensabili per ridurre lo spreco alimentare, in quanto mantengono il cibo fresco più a lungo, e nell’evitare qualsiasi tipo di contaminazione. Oggi, però, iniziano ad essere pubblicati studi e ricerche che mettono in dubbio questa teoria e mostrano come i confezionamenti non solo non aiutino a diminuire gli sprechi, ma incidano negativamente sulla produzione di rifiuti pro-capite e possano essere potenzialmente dannosi per la salute umana.

Un rapporto di Zero Waste Europe ci racconta come negli ultimi due decenni nei Paesi europei lo spreco alimentare e i rifiuti in plastica siano aumentati parallelamente. La diffusione degli imballaggi, infatti, secondo la ricerca ha stimolato lo sviluppo di comportamenti meno attenti nei consumatori, come quello di fare scorte di cibo maggiori o di non far caso alla quantità di alimenti che si acquistano poiché già imballati. Basti pensare che, in media, ogni cittadino spreca circa 524,1 g di cibo alla settimana, corrispondenti a 27 chili ogni anno (dati di Waste Watcher).

Vi è poi il tema della contaminazione e della sicurezza alimentare, diventato ancora più sentito dopo la pandemia e sul quale è necessario provare a fare chiarezza. Acquistare prodotti confezionati, infatti, non garantisce la totale sicurezza. Da ricerche recenti risulta che possono essere gli stessi imballaggi a rilasciare sostanze nocive, contaminando i beni con cui vengono in contatto: uno studio americano pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS) dimostra che in una bottiglia d’acqua da un litro sono presenti in media 240.000 micro frammenti di plastica: una quantità di plastica che supera da 10 a 100 volte le stime precedentemente fatte, e che entra direttamente nel nostro organismo. Secondo la ricerca, la fonte di queste particelle è l’imballaggio. Ecco perché il concetto di sicurezza deve essere ridimensionato e contestualizzato, sempre.

Un’altra ricerca sulla presenza di PFAS (i cosiddetti inquinanti eterni) negli imballaggi alimentari spiega che solo per il 57% delle molecole rilevate sono disponibili informazioni sulla pericolosità per gli esseri umani. L’affermazione che gli imballaggi garantiscano la sicurezza dei prodotti pare dunque stia diventando più problematica.

Ancora, uno studio pubblicato su Lancet Planetary Health ha rilevato che la presenza degli ftalati, sostanze chimiche sintetiche ampiamente utilizzate come additivi in vari prodotti di imballaggio, hanno contribuito nel 2018 a oltre 56.000 nascite pretermine negli Usa. “Una classe di sostanze chimiche sintetiche, gli ftalati, che vengono utilizzati nei prodotti per la cura personale e negli imballaggi alimentari, inducono infiammazione e stress ossidativo e sono interferenti endocrini, con vari gradi di effetti estrogenici e anti-androgenici – recita lo studio –. Le esposizioni al DEHP, DiDP, DiNP e acido ftalico sono state associate a diminuzioni dell’età gestazionale e ad un aumento del rischio di nascita pretermine”.

Leggi anche: La plastica che beviamo

Una questione di costi?

Proprio sul fattore economico si accende un ulteriore contrasto, laddove una parte dei consumatori sostiene che il prezzo dei prodotti sfusi sia maggiore rispetto a quelli confezionati (circa 1 persona su 6 secondo i dati emersi dal questionario non rilevante statisticamente “Ma quanto sei sfuso/a?” promosso da EconomiaCircolare.com, Junker app e Sfusitalia). Come spiega Belli, “quando paragoniamo il prezzo di due prodotti bisogna prendere due prodotti identici in qualità, provenienza geografica e impatto sociale. Considerando questi fattori, il prodotto sfuso costa meno”. In altre parole, non possiamo paragonare il costo di una pesca del supermercato proveniente dalla Spagna a quello di una pesca biologica raccolta in una campagna locale. Dovremmo chiederci dove è stata raccolta, chi l’ha raccolta e in che condizioni e quale viaggio ha fatto per arrivare fino alle nostre tavole. Senza considerare che, quando acquistiamo prodotti confezionati, nel costo finale è racchiuso quello dell’intero ciclo di vita dell’imballaggio, considerando la produzione, il trasporto, lo smaltimento e il riciclo.

imballaggi sfuso
Foto: Canva

Consumatori sì, ma consapevoli

Mentre l’Italia è stato uno dei Paesi più agguerriti contro la proposta di Regolamento sugli imballaggi presentata dalla Commissione che puntava al riutilizzo e alla riduzione dei rifiuti, diversi Paesi si sono attivati ormai da anni con l’obiettivo di promuoverne la riduzione e spingere l’acceleratore dell’economia circolare. Prima fra tutti la Francia, che dal 2019 ha posto un veto alla vendita di prodotti freschi in imballaggi di plastica (con la Legge AGEC) con oltre 50 disposizioni tra cui l’introduzione del deposito cauzionale, sanzioni sul greenwashing e la netta riduzione degli imballaggi per i prodotti ortofrutticoli, con l’obiettivo di eliminare i packaging monouso entro il 2040. Negli ultimi anni anche Spagna e Regno Unito hanno iniziato a mobilitarsi nella stessa direzione, in linea con la proposta della Commissione europea.

Anche se vantiamo il miglior sistema di riciclo in Europa, questo da solo non può rappresentare una soluzione se non viene accompagnato da una tendenza alla riduzione e al riuso dei materiali (vedere ad esempio il recente paper dell’Agenzia europea per l’ambiente). Sullo stesso tema anche Belli afferma che “un imballaggio non prodotto significa consumare meno risorse e produrre meno rifiuti”, e che “i rifiuti, per essere riciclati, hanno comunque bisogno di tanta energia”.

Secondo le stime attuali, la produzione di imballaggi è destinata ad aumentare anno dopo anno. Se gli interessi economici e politici non sempre sembrano puntare sulla riduzione dei rifiuti e su una più compiuta economia circolare, forse è proprio dal basso che può realizzarsi un’inversione di rotta. I consumatori, allora, potrebbero indirizzare il mercato compiendo scelte sempre più consapevoli, informandosi sull’impatto, composizione e provenienza dei prodotti che acquistano e consumano quotidianamente.

Questo articolo è stato realizzato nell’ambito del workshop conclusivo del “Corso di giornalismo d’inchiesta ambientale” organizzato da A Sud, CDCA – Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali ed EconomiaCircolare.com, in collaborazione con IRPI MEDIA, Fandango e Centro di Giornalismo Permanente

© Riproduzione riservata

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