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domenica, Dicembre 15, 2024

Impronta idrica: cosa è, a cosa serve e come calcolarla

Tutto quello che mangiamo e acquistiamo richiede una certa quantità di acqua, spesso “invisibile”. L’impronta idrica calcola l’acqua che non siamo consapevoli di consumare. Da qualche tempo si fa avanti la proposta di indicare l'impronta idrica di ogni prodotto, così come avviene con la CO2

Silvia Santucci
Silvia Santucci
Giornalista pubblicista, dal 2011 ha collaborato con diverse testate online della città dell’Aquila, seguendone le vicende post-sisma. Ha frequentato il Corso EuroMediterraneo di Giornalismo ambientale “Laura Conti”. Ha lavorato come ufficio stampa e social media manager di diversi progetti, tra cui il progetto “Foresta Modello” dell’International Model Forest Network. Nel 2019 le viene assegnata una menzione speciale dalla giuria del premio giornalistico “Guido Polidoro”

Se compriamo una t-shirt in cotone, mangiamo una bistecca o beviamo una birra stiamo consumando acqua.  Si tratta di un’acqua “virtuale”, che non vediamo direttamente ma che può avere un grande impatto ambientale.

L’impronta idrica indica l’uso di acqua relativa ai beni di consumo e offre un’ampia prospettiva su come il consumatore o il produttore influiscano sull’uso di questa risorsa: conoscere la propria impronta idrica può essere perciò utile per aprire una riflessione sulle nostre scelte alimentari e di consumo.

Cosa è l’impronta idrica e a cosa serve

L’impronta idrica è la quantità di acqua dolce utilizzata per produrre beni o servizi. Può riguardare un singolo processo produttivo, come la coltivazione del riso, un determinato prodotto, come un paio di jeans, o la quantità totale di risorse idriche usate da una multinazionale, ma anche da un Paese o globalmente.

Il concetto di impronta idrica è stato sviluppato da Arien Y. Hoekstra, professore all’Università di Twente (Olanda) nell’ambito di attività promosse dall’Unesco, rielaborando l’idea del contenuto di acqua virtuale (virtual water content), teorizzata nel 1993 da John Anthony Allan.

Così come l’impronta di carbonio si riferisce al consumo di CO2, l’impronta idrica indica il consumo di acqua: è uno strumento versatile in grado di determinare dove vengono utilizzate maggiormente le nostre risorse idriche e a valutarne le conseguenze sull’ambiente. L’impatto, infatti, non dipende solo dai volumi di acqua utilizzata o inquinata ma anche da dove e quando l’acqua è prelevata: se, ad esempio, proviene da un luogo dove le riserve di acqua sono già scarse, le conseguenze saranno significative e richiederanno azioni immediate.

L’impronta idrica prende in considerazione sia l’uso diretto che indiretto dell’acqua: l’impronta idrica diretta è l’acqua usata direttamente dalle persone mentre l’impronta idrica indiretta è la somma delle impronte idriche di tutti i prodotti consumati.

Si può fare un’ulteriore distinzione in tre componenti: l’impronta idrica blu, quella verde e quella grigia. L’impronta idrica blu rappresenta il volume di acqua dolce prelevato dalla superficie e dalle falde acquifere, utilizzato e non restituito per scopi agricoli, domestici e industriali. L’impronta idrica verde indica l’acqua piovana che evapora o traspira, nelle piante e nei terreni, soprattutto in riferimento alle aree coltivate. L’acqua idrica grigia indica la quantità di risorse idriche necessarie a diluire il volume di acqua inquinata per far sì che la qualità delle acque, nell’ambiente in cui l’inquinamento è stato prodotto, rimanga al di sopra degli standard idrici prefissati. Le tre impronte idriche forniscono una visione completa del consumo idrico ma incidono in modo differente sul ciclo idrogeologico: il consumo di acqua verde, ad esempio, provoca un impatto meno invasivo sugli equilibri ambientali rispetto alla blu.

Per avere un raffronto attendibile tra diversi studi il Water Footprint Network ha messo a disposizione sul proprio sito il Global Water Footprint Standard, che include metodi e definizioni per calcolare l’impronta idrica, valutarne la sostenibilità e le componenti.

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L’impronta idrica di quello che mangiamo e consumiamo 

L’impronta idrica di un prodotto indica la sua pressione sulle risorse di acqua dolce e si ottiene misurando il volume di acqua consumata nella produzione di un prodotto e quella necessaria per diluire gli inquinanti, in tutte le fasi della catena di produzione e distribuzione sino al consumatore finale.

Prendiamo ad esempio un paio di jeans: in ogni passaggio della produzione, dalla crescita del cotone, sino alla cucitura e al lavaggio finale, c’è un’impronta idrica diretta che si riferisce al consumo o contaminazione dell’acqua, ma anche un’impronta idrica indiretta, legata cioè a consumo o contaminazione avvenuto nel passaggio precedente.

Il valore relativo al prodotto finale è perciò la somma dell’impronta idrica di ogni passaggio e non solo è utile per stabilire quanto quello specifico prodotto incida sulla scarsità e sul degrado della qualità dell’acqua, ma anche a comparare l’impronta idrica di diversi prodotti appartenenti magari ad una stessa categoria.

Secondo il rapporto dell’Institute for Water Education (IHE) dell’UNESCO, l’impronta idrica globale di tutta l’umanità dal periodo che va dal 1996 al 2005 è stata 9.087 bilioni di metri cubi di acqua all’anno (74% verde, 11% blu, 15% grigia); la produzione agricola contribuisce per il 92% a questa impronta idrica totale. Ma ci sono un paio di considerazioni da fare in proposito.

L’impronta idrica degli alimenti di origine animale

Dai dati diffusi da Water Footprint Network è innegabile che la produzione e il consumo di prodotti di origine animale incida in maniera massiccia sulle risorse di acqua dolce, aumentando la pressione su di esse. Non dimentichiamo, che una buona parte dell’agricoltura, specie dei cereali, viene utilizzata per produrre mangimi per animali da allevamento.

Come spiega anche Arien Y. Hoekstra in una delle sue analisi, per quanto riguarda i prodotti di origine animale, la catena di approvvigionamento dell’acqua inizia con le colture alimentari e finisce con il consumatore.

Il maggior contributo relativo all’impronta idrica di carne e latticini viene proprio dal primo passaggio, cioè dalla coltivazione destinata ad alimentare il bestiame, che è anche la fase più lontana dagli occhi del consumatore.

Naturalmente gli aspetti da considerare sono molteplici: la portata e le caratteristiche dell’impronta idrica di un pezzo di carne variano molto a seconda del sistema produttivo, della zona di produzione, del tipo di animale ma anche della composizione e dell’origine della sua alimentazione.

La produzione di un chilo di carne bovina richiede all’incirca 15mila litri di acqua (93% verde, 4% blu, 3% grigia) ma questa (15.400 metri cubi per tonnellate) è di gran lunga maggiore di quella di carne di pecora (10.400 metri cubi per tonnellate), maiale (6.000 metricubi per tonnellate), capra (5.500 metri cubi per tonnellate) o pollo (4.300 metri cubi per tonnellate).

Inoltre, il report dell’Unesco dimostra che per tonnellate di prodotto i prodotti di origine animale in genere hanno un’impronta idrica di gran lunga maggiore dei prodotti vegetali. Ad esempio, l’impronta idrica di un burger di soia da 150 grammi prodotto nei Paesi Bassi è di circa 160 litri mentre un burger di carne dello stesso Paese consuma in media mille litri di acqua.

Anche guardando al consumo di acqua in rapporto a calorie, proteine o grassi, le cose non cambiano: la carne animale ha in media un’impronta idrica per calorie venti volte maggiore rispetto a quella di cereali o patate; la carne di manzo consuma sei volte più acqua per proteina rispetto ai legumi, e per ogni grammo di grasso l’impronta idrica dei prodotti di origine animale (tranne il burro) è di gran lunga superiore a quella dei prodotti agricoli. Da questo punto di vista, sarebbe più efficace ottenere calorie, proteine e grassi attraverso i prodotti delle colture che da prodotti animali.

Un altro aspetto importante da considerare è il rapporto tra consumo, commercio e risorse idriche. Infatti, sebbene gli effetti della scarsità dell’acqua e dell’inquinamento possano essere visibili a livello locale, sono le grandi quantità di cibo, mangimi e prodotti di origine animale che vengono scambiati a livello internazionale a incidere negativamente sull’impronta idrica di una nazione. Tutti i Paesi, infatti, importano ed esportano acqua virtuale, per esempio sottoforma di prodotti agricoli. Nelle statistiche è però difficile distinguere tra colture alimentari e colture per l’alimentazione animale perché spesso si tratta delle stesse colture di cui si fa un uso diverso.

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Verso una maggiore trasparenza: l’etichetta idrica dei prodotti

Alla luce dei dati presi in considerazione finora, sarebbe un diritto dei consumatori pretendere una maggiore trasparenza sull’impronta idrica dei prodotti. Una soluzione su cui alcuni studiosi del settore, tra cui lo stesso Arien Y. Hoekstra, insistono da anni è quella di creare delle etichette che esplicitino l’impronta idrica di un prodotto o di un’azienda, in modo da indirizzare il consumatore nella scelta e premiare le aziende che maggiormente si impegnano in una gestione sostenibile delle risorse idriche.

L’etichetta idrica potrebbe assumere varie forme: un marchio o un simbolo sul prodotto, magari affiancato da un codice che rimandi a informazioni più complesse e aggiornate disponibili sul web. Potrebbe, inoltre, essere attribuita anche solo a livello aziendale, e non necessariamente riferendosi solo a un singolo prodotto.

Non è certo un processo semplice, poiché per essere attuato su larga scala necessita di una collaborazione a livello internazionale ma si potrebbe iniziare, come suggeriscono gli esperti, da prodotti che hanno una maggiore impronta idrica, come cotone, riso e canna da zucchero e altri cibi e bevande.

Come calcolare e ridurre la propria impronta idrica

La buona notizia è che è possibile ridurre la propria impronta idrica, a partire dai piccoli gesti. Il primo passo è capire quali sia la nostra impronta idrica: per farlo Water Footprint Network mette a disposizione diversi strumenti interattivi, uno più veloce, in cui basta inserire il Paese in cui si vive, il tipo di dieta che si segue e la media dei soldi che si spendono ogni anno per la spesa, e uno più complesso che tiene conto della quantità di determinati alimenti nella nostra dieta e del consumo domestico di acqua.

Un altro strumento per misurare quanta acqua utilizziamo e, in questo caso, nello specifico per la nostra spesa settimanale è stato messo a punto dal WWF e può essere utilizzato anche per stimolare i più giovani ad iniziare a mettere a fuoco quanto ogni nostra azione abbia un impatto ambientale e, in particolare, cosa implichi davvero lo spreco alimentare. Come in un video-gioco, si riempie il carrello della spesa con i prodotti che di norma acquisteremmo per la settimana, indicandone anche la quantità: una volta arrivati in cassa, il conto da pagare è in termini di impronta idrica e di carbonio ma di certo non meno salato.

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