Gli inceneritori di ultima generazione hanno ugualmente un impatto sull’ambiente e, nonostante i sistemi di filtraggio più moderni, emettono sostanze tossiche, come diossine, idrocarburi policiclici aromatici e furani. E se rispettano i limiti di concentrazione, è perché le normative europee considerano solo una piccola parte degli inquinanti organici persistenti che escono dal camino dell’inceneritore e, soprattutto, non tengono conto della massa di tali inquinanti, che si accumulano col tempo nelle vicinanze.
Sono queste le conclusioni di uno studio presentato da Zero Waste Europe, network di associazioni nazionali che combatte per un mondo senza rifiuti, in collaborazione con ToxicoWatch. La ricerca conferma quanto già da alcuni anni sostenuto dagli ambientalisti su una sicurezza sulle emissioni solo “presunta” dei moderni termovalorizzatori: sicuramente migliori di quelli di venti anni fa, ma comunque inquinanti. Ed è interessante per due aspetti: da un lato la metodologia utilizzata, dall’altro gli inceneritori esaminati.
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Cosa ha analizzato la ricerca di Zero Waste Europe
In genere, studi simili sono fatti sulle emissioni fisiche del camino degli inceneritori, mentre in questo caso si è puntato l’attenzione sul bioaccumulo nelle zone intorno agli impianti, per capire cosa esce dal camino e in che quantità. Per prima cosa è stata individuata la zona di ricaduta delle sostanze, creando una sorta di mappa in base alle direzioni dei venti. Poi sono stati utilizzati una serie di “biomarcatori” come uova, aghi di pino e muschi, situati nel perimetro di ricaduta.
“Sono indicatori legati al presente che permettono di misurare la tossicità complessiva su una cellula vivente”, spiega Janek Vähk, coordinatore del programma per il clima, l’energia e l’inquinamento atmosferico di Zero Waste Europe: “L’intero processo di sviluppo e schiusa delle uova in media è di venti giorni e sono indicatori sensibili della contaminazione del suolo, mentre gli aghi di pino restano sugli alberi per almeno due anni e permettono di capire l’accumulo di agenti inquinanti nel tempo, al pari dei muschi”.
L’ideale per determinare la concentrazione o la potenza di uno spettro ampio di sostanze inquinanti, che vanno dalle diossine e i policlorobifenili (PCB) a altre diossine alogenate, PAH e PFAS. Sostanze che nell’uomo possono provocare cancro, diabete, sono neurotossiche, causano immunotossicità e acne clorica.
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Gli inceneritori di ultima generazione esaminati
L’altro aspetto significativo, come anticipato, riguarda la scelta degli inceneritori esaminati: a Pilsen, in Repubblica Ceca, a Kaunas, in Lituania, a Valdemingomez, vicino Madrid e nel municipio d’Ivry, a Parigi. Nella maggior parte dei casi sono inceneritori nuovissimi e considerati tra i più avanzati dal punto di vista tecnologico, con l’eccezione di quello di Madrid, che è stato costruito nel 1996.
“Abbiamo scelto inceneritori di ultima generazione e che sorgevano vicino a zone in cui c’è una ricca vegetazione e numerose fattorie. E, soprattutto – precisa Vähk – non siamo certo andati a cercare gli inceneritori più vecchi, ma anzi abbiamo esaminato un campione molto rappresentativo degli impianti che oggi si trovano in giro per l’Europa”.
Certo, l’esito di tali ricerche dipende dalla metodologia utilizzata. Spesso ricerche simili sono contestate perché è complicato valutare l’impatto di una fonte di inquinamento che si trova in luoghi dove ce ne sono molte altre. Ad esempio, nell’area di Valdemingomez sono dislocati impianti per il compostaggio di rifiuti solidi, impianti di depurazione, altiforni, discariche e sorge una vera a propria baraccopoli. Quello di Pilsen, però, sorge in un’area di campagna isolata e dunque poco influenzata da altri agenti inquinanti.
Eppure il dato empirico è lo stesso: dove ci sono termovalorizzatori, i valori di particolari sostanze inquinanti sono più alti. “È come cercare impronte digitali – fa una similitudine Vähk –. Se in tutti i casi si trova sempre gli stessi inquinanti legati alle stesse particelle emesse durante l’incenerimento dei rifiuti, questo ragionevolmente spinge a concludere che sia l’inceneritore la causa”, conclude il rappresentante di ZWE.
Le conclusioni della ricerca
Per giungere a tali conclusioni, le uova prelevate da fattorie vicino agli inceneritori sono state analizzate e paragonate con quelle provenienti da zone meno contaminate da agenti inquinanti. Ebbene: la maggior parte supera i limiti definiti dall’Ue per la sicurezza alimentare e per il consumo. In pratica, se queste uova fossero state destinate al mercato commerciale, sarebbero state ritirate. Si parla dell’89 per cento delle uova vicino a Pilsen e dell’87 per cento a Klaus, ma valori simili sono stati registrati anche a Valdemingomez e Parigi.
“Oltretutto in Spagna sembrano esserne consapevoli – fa notare Janek Vähk – visto che a Madrid è vietato avere fattorie per la produzione di uova vicino agli inceneritori. Il problema è che gli abitanti del luogo, spesso sono ignari del fatto e le consumano abitualmente”.
Anche l’analisi della vegetazione, degli aghi di pino e dei muschi in prossimità degli inceneritori, mostra alti livelli di diossine. Gli idrocarburi policiclici aromatici (IPA) trovati sugli aghi di pino vicino all’inceneritore di Pilsen sono 87 volte superiori alla quantità negli aghi di pino in altre zone della città. I policlorobifenili erano tre volte superiori alla media in tutti i casi di studio. Questo significa che le persone che vivono nelle vicinanze degli impianti potrebbero subire se danni se mangiassero verdure coltivate in questi terreni.
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Un problema normativo? Le falle nelle misurazioni
Eppure gli inceneritori rispettano le norme sulle emissioni e gli standard BAT (Best Avaible Techiniques). “Il fatto è che dietro c’è una falla nelle rilevazioni, perché non misuriamo tutti gli inquinanti organici persistenti: composti poli e perfluorurati e diossine bromurate restano fuori dai radar”, spiega il rappresentante di Zero Waste Europe.
La complessità dei composti chimici emessi dagli inceneritori impedisce, infatti, di individuarne alcuni. Le agenzie per la Protezione ambientale statunitense ed europea segnalano, ad esempio, 16 principali idrocarburi policiclici aromatici (IPA) pericolosi per la salute umana. Ma si tratta di una sottostima, perché questo gruppo di sostanze tossiche può superare i diecimila composti chimici. Le difficoltà nel rilevare i policlorobifenili (PCB), invece, dipende principalmente dall’incertezza sul tipo di rifiuti bruciati in partenza dagli inceneritori.
Persino i più moderni sistemi di controllo dell’inquinamento dell’aria e di filtraggio hanno difficoltà ad eliminare questa moltitudine di inquinanti organici persistenti nei gas delle ciminiere e nei residui dell’incenerimento. Se la ricerca di Zero Waste Europe si concentra sull’emissione di sostanze tossiche nell’aria, non c’è da scordarsi, infatti, che si tratta di una piccola parte dell’impatto ambientale di un impianto, perché ci sono anche i residui solidi derivanti dai processi di combustione e di trattamento dei fumi, come le ceneri.
Infine, andrebbe considerato maggiormente l’effetto di accumulo: “Quello che viene emesso potrà essere una quantità considerata ragionevole, ma nel tempo ha ugualmente effetti negativi sull’ambiente circostante”, spiega Vähk. Insomma, non è abbastanza misurare la concentrazione degli inquinanti: “In presenza alti flussi di aria che trasportano inquinanti persistenti, andrebbe resa obbligatoria la ricerca sul biomonitoraggio, per valutare realmente l’effetto complessivo sull’ambiente e la salute pubblica”, sostiene Vähk.
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Le emissioni nascoste e i malfunzionamenti
C’è poi un altro aspetto, raramente considerato, quello delle “emissioni nascoste”. Si tratta di una vera e propria falla normativa. Le misurazioni delle agenzie di controllo sugli inquinanti come le diossine sono fatte per un breve lasso di tempo, tra le 6 e le 12 ore all’anno, peraltro annunciate in anticipo.
L’unica soluzione, secondo Zero Waste Europe, sarebbe inviare la misurazione continua delle diossine clorurate e bromurate nelle ciminiere degli inceneritori.
“E non solo in condizioni normali – avverte Janek Vähk – ma anche nelle fasi di avviamento, arresto e incidenti tecnici”. Studi condotti da ToxicoWatch, infatti, hanno dimostrato che nella fase di accensione e spegnimento degli impianti di combustione di rifiuti o durante i malfunzionamenti, la quantità di inquinanti è estremamente superiore: in poche ore le diossine superano a quelle calcolate sulla media annuale nella fase di funzionamento a regime.
Nel caso dell’inceneritore di Harlingen, in Olanda, tra il 2011 e il 2017 ci sono stati più di sessanta accensioni e spegnimenti registrati: ma non rappresenta un problema legale per gli inceneritori, visto che le misurazioni si fanno nei momenti di funzionamento ordinario.
Il motivo per cui gli inceneritori inquinano di più in queste fasi è prettamente tecnico. In pratica, si legge in un rapporto dell’European Environmental Bureau, in fase di accensione, le temperature all’interno dell’inceneritore, favoriscono la condensazione di alcune molecole e la formazione di particelle di composti tossici come il PCDD/F in quantità estremamente maggiore. Lo stesso avviene durante le fasi di spegnimento, in cui il PCDD/F si deposita nei sistemi di depurazione dei fumi. “Per evitare problemi tecnici, come l’accumulo di materiale sorbente utilizzato per la rimozione di particolati e gas inquinanti dagli scarichi a causa delle basse temperature nelle fasi di accensione – denuncia l’EEB – molti impianti disattivano in queste fasi i sistemi di depurazione”.
Più evidenti per la comunità i pericoli nel caso di malfunzionamenti. Non così rari come si penserebbe in presenza di inceneritori di ultima generazione. Nel nuovissimo termovalorizzatore di Pilsen, monitorato da Zero Waste Europe, un grave incidente tecnico recentemente ha generato prolungate emissioni di fumi neri. “Perciò misurare le emissioni soltanto dalle 6 alle 12 ore in un anno – conclude Janek Vähk – è piuttosto riduttivo”: per usare un eufemismo.
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