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venerdì, Novembre 15, 2024

Greenwashing, Iraldo: “Sulla direttiva Green Claim l’Ue abbassa l’asticella”

Quindici giorni prima che la Commissione Ue pubblicasse la proposta di direttiva sui Green Claim e sul greenwashing nella comunicazione delle imprese, era trapelata una bozza molto più ambiziosa e dai contenuti stringenti. Qualcuno ha fatto pressione per annacquare le prescrizioni rendere meno vincolanti i criteri. Ne abbiamo discusso con Fabio Iraldo, docente alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, uno dei massimi esperti di circolarità e di lotta al greenwashing

Raffaele Lupoli
Raffaele Lupoli
Direttore responsabile di EconomiaCircolare.com. Giornalista professionista, saggista e formatore, è docente a contratto di Economia delle organizzazioni complesse presso ISIA Roma Design e collabora con il Sole 24 Ore. Ha diretto diverse testate, tra cui il settimanale Left e LaNuovaEcologia.it. Ha lavorato con Legambiente collaborando tra l’altro alla redazione del Rapporto Ecomafie, ha coordinato la redazione del periodico Rifiuti Oggi e il mensile La Nuova Ecologia. Si è occupato di comunicazione politica e nel 2020 è stato consigliere della Ministra dell'Istruzione sui temi della sostenibilità ambientale e dell'innovazione sociale.

Quindici giorni prima che la Commissione Ue pubblicasse la proposta di direttiva sui Green Claim e sul greenwashing nella comunicazione delle imprese, era trapelata una bozza molto più ambiziosa e dai contenuti stringenti. Nelle due settimane seguenti qualcuno ha fatto pressione per annacquare le prescrizioni della normativa e rendere meno vincolanti i criteri utili ad assicurare la piena correttezza della comunicazione di sostenibilità di prodotti e servizi.

Tra i maggiori sostenitori di questa tesi c’è Fabio Iraldo, docente di Management alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, uno dei massimi esperti di circolarità e di lotta al greenwashing, autore, tra l’altro, con Michela Melis del libro “Oltre il greenwashing. Linee guida sulla comunicazione ambientale per aziende sostenibili, credibili e competitive” (Edizioni Ambiente).

Leggi anche: Basta greenwashing, l’Ue prepara la Direttiva (ma fa le cose a metà)

Professor Iraldo, partiamo dalle aspettative della vigilia: immaginavamo che la proposta di direttiva avrebbe legato la comunicazione ambientale dei prodotti ad attività di misurazione oggettiva delle performance registrate dalle imprese. Lei ci aveva anche accennato, lo scorso anno, alla Raccomandazione della commissione europea sulla Product environmental footprint (Pef).

L’aspettativa era proprio che la Raccomandazione avrebbe spinto in modo deciso verso l’adozione di metodologie robuste per poter sostanziare i claim pubblicitari di natura ambientale. Mentre quello che la proposta di direttiva ha fatto in maniera molto soft è semplicemente dire “attenzione, quando si fa un claim ambientale, il produttore deve accertarsi che questo claim sia ragionevolmente fondato su evidenze scientifiche in qualche modo riconosciute”. La versione precedente parlava di applicazione di un metodo scientifico specificato attraverso una serie di caratteristiche che avrebbe dovuto avere. Dunque non si tratta soltanto – cosa che comunque ci preoccupa molto – del fatto che sia sparita la gran parte dei riferimenti alla Raccomandazione sulla product environmental footprint, ma che si sia abbassata l’asticella, perché alle imprese basta dire che utilizzano evidenze scientifiche senza specificare di più.

Quindi, per riassumere, gli strumenti che possono sostanziare la veridicità delle comunicazioni ambientali ci sono, ma la proposta di direttiva non ne rende obbligatorio l’utilizzo. 

Sappiamo perfettamente che non è difficile trovare evidenze scientifiche o dati misurabili che possano far riferimento ai claim forniti dall’azienda: il tema è la credibilità della metodologia applicata. Ad esempio c’era un passaggio, anch’esso addolcito tantissimo, secondo cui l’azienda deve utilizzare tutte le volte che è possibile dati primari, vale a dire dati che l’azienda stessa raccoglie e che fanno riferimento specificamente al prodotto a cui si riferisce il claim, non a indagini relative alla media dei prodotti o ad altri dataset disponibili. Quindi diciamo che generalmente la direttiva ha subito un forte ridimensionamento nell’ultima versione, poi c’è il problema specifico della product environmental footprint, che era il cardine della direttiva e che invece ora diventa semplicemente una delle metodologie menzionate e alle quali ci si può ispirare.

Dunque il principio scelto è “care aziende, usate il metodo che vi pare per dimostrare la correttezza delle vostre dichiarazioni”…

C’è una cosa tragicamente divertente in un articolo della proposta di direttiva, perché il legislatore europeo prima apre il recinto e poi si pone il problema di cosa fare quando i buoi saranno scappati. Fuori tempo massimo la norma prova a richiudere il recinto dicendo: “Ah, naturalmente se poi nel corso dell’applicazione la Commissione europea dovesse riscontrare che le evidenze e i metodi scientifici vengono usati dalle aziende in maniera diversa tra loro, allora la Commissione potrà intervenire sviluppando una qualche metodologia omogenea”. Ma come? Sono dieci anni che stanno lavorando sulla metodologia omogenea, ce l’hanno a disposizione e si permettono di scrivere una cosa del genere? Leggendo questo articolo ho capito che evidentemente ci sono delle fortissime opposizioni e quindi il demerito della direzione generale Ambiente della Commissione europea, che ha redatto la norma, semplicemente è non aver saputo difendere la bozza che aveva proposto. Ci sono degli interessi, delle lobby che evidentemente hanno agito fortemente sulla regolamentazione dei claim.

Proprio pochi giorni fa EconomiaCircolare.com ha dato conto del lavoro che sta facendo il Joint Research Center, il centro di ricerca della Commissione europea, sul Consumption Footprint Indicator. Si passa dalla misurazione dell’impatto della produzione a quella dell’impatto di tutta la catena dell’approvvigionamento dei Paesi. Questo faceva immaginare un avanzamento anche per quanto riguarda i claim e il contrasto al greenwashing.

Da questo punto di vista ancora più stupefacente è che ci sono delle proposte di regolamento, uscite poco prima della proposta di direttiva sui green claim, che fanno ampio riferimento al metodo Lca (Life cycle analysis, ndr) e al metodo Pef. Per esempio, la proposta di regolamento sull’ecodesign cita il metodo Pef come regola generale e poi bisognerà decidere con gli atti delegati a quale categoria di prodotto applicarlo. Questa metodologia fa sì che i prodotti progettati rispondano a criteri di minimizzazione dell’impatto ambientale, quindi si calcola l’impronta e poi si dimostra di avere agito per contenere gli impatti ambientali. Questo per dire che in altri pezzi di legislazione il metodo Pef guadagna spazio e riceve quell’attestato di credibilità e di robustezza che gli aveva dato anche la direttiva Green Claim nella bozza trapelata.

Quindi questa concessione alle pressioni di qualche lobby rischia di dare spazio a metodi discutibili di calcolo degli impatti?

Secondo me c’è proprio un problema di margini di flessibilità che molti operatori vogliono nel poter essere liberi di dichiarare con i claim anche prestazioni ambientali che riguardano la carbon footprint, la water footprint eccetera, senza necessariamente fare affidamento sul metodo Pef. Perché, ripeto, un’impresa può basare le proprie dichiarazioni ambientali su un metodo totalmente spannometrico, debole. Ci sono tantissimi metodi per il calcolo della carbon footprint, alcuni di questi sono robusti, altri molto molto meno. La raccomandazione era nata anche per spazzare via dal mercato tutte quelle metodologie molto deboli, che non consentivano di caratterizzare in modo corretto l’impronta ambientale o carbonica dei prodotti.

A suo avviso una proposta così annacquata può avere conseguenze anche sull’applicazione della Corporate Sustainability Reporting Directive, la cosiddetta direttiva CSRD che impone alle grandi aziende di certificare tramite terzi le proprie performance ambientali?

Sicuramente un effetto ce l’ha, soprattutto per quanto riguarda la misurazione delle performance delle organizzazioni. Certo la direttiva Green claims è focalizzata sulla comunicazione legata ai prodotti, però è anche vero che nella bozza che era trapelata si nominava non solo la Pef, ma anche la Organization Environmental Footprint (Oef), che è riferita alle organizzazioni e che è indicata nella lista di metodologie che possono essere utilizzate dalle aziende già oggi con la Non financial reporting directive, quindi a maggior ragione con la CSRD che ne costituisce l’evoluzione. La Oef è elencata tra quelle metodologie che si possono utilizzare per calcolare l’impronta ambientale dell’organizzazione, quindi per comunicare i dati legati alla parte “environment”. Ora, se nella direttiva Green claim fosse passato in modo molto più robusto il messaggio che la pubblicità riferibile all’organizzazione – nel caso esistessero sectoral rules, quindi regole di calcolo per lo specifico settore – avrebbe goduto della presunzione di conformità applicando il metodo Oef, sicuramente questo avrebbe avuto un riflesso enorme anche sulla CSRD, perché ci sarebbe stato un segnale molto forte di credibilità e di autorevolezza di quella metodologia. In altre parole, se non hanno avuto il coraggio per i prodotti di andare verso una scelta metodologica forte, figuriamoci che cosa avranno il coraggio di fare in un campo come quello della rendicontazione ambientale, dove le metodologie sono ancora molto più varie. Questo vuol dire che sulla CSRD si manterrà un’ampiezza di metodologie adottabili molto significativa, a discapito della comparabilità.

E la non comparabilità dei metodi di misurazione è un problema enorme, per noi giornalisti e non solo.

Il problema è che, sia per i prodotti che per le organizzazioni, se io per misurare la carbon footprint uso metodologie diverse i risultati non sono confrontabili. Questo è molto più grave per i prodotti, perché l’omogeneità guida il consumatore a scegliere tra un prodotto e l’altro. Per le organizzazioni è un po’ meno grave, nel senso che non è che al supermercato io scelgo una organizzazione o l’altra, però è comunque preoccupante, perché vuol dire che non c’è un intento della Commissione, o almeno della dg Ambiente, di andare verso un’armonizzazione forte.

L’esperienza di questi anni ci ha mostrato che le proposte più avanzate e ambiziose della Commissione europea sono state ridimensionate, se non potenziate, dopo la presentazione, durante la successiva fase delle trattative. L’elemento di novità, in questo caso, è che la proposta che viene sottoposta alla discussione parte già fortemente ridimensionata. Che evoluzione ci dobbiamo attendere? 

Il punto è quello: molti dei nostri interlocutori, peraltro anche molte aziende, sono rimaste deluse, perché la realtà italiana aveva già sposato il metodo Pef così come il ricorso a LCA. Molte aziende italiane li applicano. L’Italia aveva varato uno schema di certificazione basato sul metodo Pef, il Made green in Italy, che aveva proprio il senso di aiutare la comunicazione delle imprese e la credibilità dei loro claim. Quindi se nasce in un modo così alleggerito e annacquato anch’io sono molto preoccupato perché anch’io nella mia esperienza ho visto processi di negoziazione che hanno portato ad alleggerire e non ad appesantire i requisiti. Se parte così chissà quante altre lobby vorranno mettere il loro zampino sul fatto che magari non ci siano addirittura già troppi vincoli, però questo devo dire mi stupirebbe molto: la proposta di direttiva è sostanzialmente una parafrasi della norma Iso 14021 (che prevede dichiarazioni ambientali dei produttori, importatori o distributori non vagliate da organismi indipendenti, ndr). Confido anche che non ci saranno grandissime opposizioni su una formulazione del genere.

Difficile, poi, immaginare grandi mobilitazioni del mondo imprenditoriale per vincoli più stretti, nonostante nel nostro Paese l’attenzione sia elevata…

Immagino la stessa cosa, ma forse le nostre istituzioni cercheranno di difendere un pochino di più la Pef, perché hanno davanti un bivio: o difendono la Pef nel contesto europeo per difendere il Made green in Italy oppure cambiano il Made green in Italy e ne addolciscono i requisiti Pef. Il ministero aveva fatto un passo molto coraggioso affidandosi completamente all’Europa per la metodologia Pef: ora che anche l’Europa abbassa la guardia sarà difficile che si spinga per rafforzare la misurazione dell’impronta ambientale del prodotto.

Leggi anche: il nostro Speciale Greenwashing

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