Una pozza di vernice rossa sulla strada, con sopra teste e interiora di pesce. Tre persone con i piedi sopra la vernice, vestite in giacca e cravatta, con delle maschere di pesci in testa e in mano delle valigette con scritto “guerra contro i pesci”. Altre due persone con i cartelli “nessun pesce nel mare” e “se gli oceani muoiono, moriamo anche noi”.
Sono passati un paio di anni da quando vidi online questa azione di protesta organizzata da Ocean Rebellion, ma il messaggio che portava non mi ha mai lasciato la testa. Perché l’immagine di un oceano senza più pesci e animali marini la trovo sia inquietante che desolante. E non è uno slogan per fare effetto: continuando con l’attuale sfruttamento degli oceani, alcuni studi ipotizzano che potremmo davvero vedere i mari vuoti entro il 2048.
Ma perché gli oceani si dovrebbero svuotare? La risposta è semplice: perché nel mondo mangiamo sempre più pesci. Un tempo il problema era la pesca intensiva, ma a questa oggi si aggiunge anche l’allevamento di pesci – che come EconomiaCircolare.com ha in parte raccontato, nasconde molti lati oscuri.
Snoccioliamo qualche numero. Ogni anno la FAO pubblica “The State of World Fisheries and Aquaculture”, un rapporto che analizza e quantifica il mondo della “blue economy” – pesca, acquacoltura, consumi di pesce e così via. Bene, leggendo l’ultimo uscito possiamo dire che la produzione di questa economia ha raggiunto un nuovo record nel 2022 – circa 223,2 milioni di tonnellate di prodotti di pesca e acquacoltura. E ne sono state consumate oltre 160 milioni di tonnellate a livello globale, con un consumo pro capite di circa 20,6 kg – con la media italiana che è intorno ai 30 kg pro capite.
Un dato così non dice molto, perché decontestualizzato, ma guardando indietro fa riflettere: perché è più che raddoppiato rispetto agli anni ‘60. Siamo passati da 9,1, appunto, a oltre 20 kg. Insomma, abbiamo sempre più fame di pesce, lo cerchiamo con voracità. E secondo le stime della FAO questo dato supererà il 21 kg entro il 2030.
Ma da dove arrivano tutti questi pesci? Fino a pochi anni fa, come dicevamo, dalla pesca intensiva. Grazie all’industrializzazione crescente, la pesca è diventata un fenomeno immenso, con flotte di navi che, grazie a enormi reti e tecniche precise, riescono a pescare tonnellate di pesci, commestibili e non. In quest’ultimo caso vengono ributtati in mare, vivi o meno (questo fenomeno si chiama bycatch).
Secondo stime della FAO ormai 90% degli stock ittici mondiali è sovrasfruttato oppure sono sfruttati al massimo livello sostenibile – quindi non si può aumentare ulteriormente la pesca.
Ma le cose sono cambiate molto negli ultimi anni, anche per frenare la pressione sugli oceani. Ed è così che è arrivata l’acquacoltura, cui parte cospicua è l’allevamento di pesci. Questa industria ha avuto infatti una crescita improvvisa, e ha garantito la possibilità che i consumi di pesci siano aumentati sempre di più. Negli anni ‘50, infatti, la produzione dell’acquacoltura si aggirava attorno a poche centinaia di tonnellate – nel 2022 invece ha raggiunto le 94 milioni di tonnellate, anno in cui per la prima volta ha superato la pesca come fonte di prodotti ittici. Basti pensare che dal 1990 al 2018 l’acquacoltura ha avuto un boom del +527%, e sta continuando a crescere sempre di più.
Una crescita incredibile quella dell’acquacoltura, ma non senza problematiche.
Per capire meglio queste problematiche, ho deciso di intervistare il giornalista e documentarista Francesco De Augustinis, che proprio sull’acquacoltura ha realizzato due interessanti documentari d’inchiesta – Until The End of the World e Dying Lochs.
Il primo è un viaggio che attraversa Italia, Grecia, Senegal fino alla Patagonia Cilena, per ricercare alcuni hotspot della produzione mondiale di pesce e delle sue problematiche sociali e ambientali. Il secondo film invece è un corto girato sulle coste scozzesi, dove vengono allevati i salmoni atlantici.

Francesco, perché hai deciso di fare ricerche sugli allevamenti di pesci?
Il mio lavoro d’inchiesta ruota attorno ai nostri sistemi alimentari. Per tanti anni mi sono dedicato agli allevamenti intensivi di animali terrestri, anche attraverso il documentario One Earth. E piano piano ho scoperto che l’UE sovvenzionava l’espansione degli allevamenti intensivi di pesci con tantissimi soldi pubblici, molti dei quali destinati alla transizione ecologica: parliamo quasi 3 miliardi di euro dal 2001 al 2020. Qualcosa non mi tornava, così ho iniziato a fare delle ricerche e quello che è venuto fuori è davvero preoccupante.
Immagina di spiegare nel modo più semplice possibile in cosa consiste un allevamento di pesci. Com’è fatto, cosa mi aspetto di vedere?
Sono enormi gabbie rotonde fatte di reti a mollo nel mare, che possono contenere anche centinaia di migliaia – a volte milioni – di pesci. È bene sottolineare che, proprio come per gli allevamenti di animali terrestri, anche i pesci presenti in queste strutture sono selezionati geneticamente per crescere più velocemente.
Quello che fanno questi animali è nuotare tutto il giorno in circolo, ricevendo mangime che viene immesso nelle gabbie. Oltre alla questione etica relativa all’allevamento di animali, abbiamo già il primo problema ambientale.
Molto spesso infatti gli allevamenti vengono costruiti poco lontano dalla costa, soprattutto in golfi e baie, così da evitare che le mareggiate facciano danni e distruggano le strutture. Per esempio in Grecia, che è il Paese europeo dove gli allevamenti ittici sono cresciuti di più, vengono costruiti a soli 200 metri dalla costa, li vedi a occhio nudo. Anche in Italia uno dei punti più caldi è il Golfo di Follonica, ma si trovano anche nei golfi di Gaeta e Lavagna.
Ora immaginate queste strutture piene di pesci, dove non c’è ricircolo d’acqua, e dove in mare vengono somministrati mangimi, farmaci e trattamenti per i parassiti che colpiscono i pesci, oltre che le loro deiezioni. Quello che succede è che il fondale marino muore. Sotto gli allevamenti si possono trovare infatti residui chimici e grandi quantità di materiale organico, come mangimi non consumati e deiezioni. L’impatto sull’ambiente circostante è davvero devastante.
Ma allora perché gli allevamenti di pesci, che quindi hanno un impatto sull’ambiente marino, vengono presentati come opere sostenibili?
Molto dipende dalla narrazione che l’industria è riuscita a far circolare, sembra quasi una propaganda. Gli allevamenti di pesci si presentano come la soluzione al dilemma per cui vogliamo sempre più pesce, ma ne possiamo pescare sempre meno.
Insomma, si presentano come la soluzione allo svuotamento degli oceani. Peccato che questo storytelling è una manipolazione. Prendiamo alcune delle specie più allevate a livello mondiale: spigole, orate, gambero, salmone, tonno rosso: sono tutte specie carnivore. E vengono nutrite con mangimi a base di farine e olio di pesce. Peccato che il rapporto non sia conveniente e gli allevamenti di pesci consumano più pesce di quanto ne producano.
Questa è l’ennesima mossa di un’industria che, come quella della carne, è esperta di greenwashing. E su quest’ultimo punto sono infatti diversi gli studi che tentano di dare una risposta su quanto pesce consuma davvero l’allevamento di pesci. Da un lato un’inchiesta pubblicata su DeSmog ha mostrato come l’industria per anni ha usato dati fuorvianti e imprecisi. Sembra che l’allevamento di pesci utilizzi fino al 307% in più di pesce selvatico rispetto a quanto dichiarato ufficialmente dal settore negli anni.
Come? Per esempio usando stime che calcolano l’uso dei mangimi da parte di tutte le specie allevate, anziché solo delle specie carnivore. Includere nei calcoli anche le specie non carnivore come le alghe, ma anche le cozze e le ostriche, che si nutrono di microrganismi presenti naturalmente nell’acqua fa sembrare che i pesci carnivori da allevamento consumino meno pesce per ogni chilo prodotto. Inoltre, i conti non prendono in considerazione tutti i pesci uccisi come cattura accidentale (che sono tantissimi).
Alcuni studi stimano che il salmone allevato consuma fino a sei volte il suo peso in pesce selvatico al momento del consumo, mentre i gamberetti fino a una volta e mezzo.
È quindi su questo che abbiamo la prova che questa industria non è sostenibile. Abbiamo messo nel Mar Mediterraneo, in Italia e Grecia, gli allevamenti intensivi di pesce per ridurre la pressione sulla pesca, solo per spostarla altrove nel mondo. Nel mio documentario Until The End Of The World sono andato alla ricerca di dove sono fatti questi mangimi e sono arrivato in Senegal. Qui sono spuntate negli ultimi anni decine di industrie di farina e olio di pesce che, attraverso la pesca in queste zone, possono sostenere gli allevamenti. Parlando con la comunità locale ho scoperto che la loro pesca di sussistenza è in grave crisi, perché molto pesce pescato finisce per fare mangimi per l’industria. Abbiamo quindi delocalizzato la pesca intensiva, togliendo la pesca di sussistenza locale in diverse zone del mondo, solo per avere più pesci da mangiare in Europa o in altre parti ricche del Pianeta.

Tra le varie specie di pesci allevate, si sente molto parlare del salmone scozzese, spesso presentato anche come un’eccellenza alimentare. Cosa mi dici su questo?
Che anche in questo caso l’industria ha fatto bene il suo lavoro. Gli allevamenti di salmoni in Scozia sono cresciuti rapidamente, prima grazie ai fondi UE e poi dal governo locale. E vengono installati nei loch scozzesi, ambienti bellissimi e suggestivi. Per questo il salmone allevato viene presentato come un cibo naturale, proprio grazie alla bellezza di questi posti.
Peccato che questi allevamenti hanno in media una mortalità che in alcuni anni ha sfiorato il 25% – cioè 1 salmone su quattro muore. È una percentuale media (alcuni allevamenti ne hanno anche più alte). Si tratta di un dato impressionante, che è indice delle condizioni in cui vivono questi animali. Muoiono a causa delle ondate di calore, oppure per le meduse ma anche per i parassiti che li infestano, a volte mangiandoli vivi.

In questi anni su cui hai lavorato sul tema, hai visto cambiare qualcosa che ti dà speranza?
Una delle cose che mi ha colpito di più è che all’inizio del mio lavoro in pochi prendevano posizione contro l’allevamento di pesci. In Grecia, per esempio, queste strutture venivano viste come un modo per portare sviluppo in zone economicamente depresse, anche se le comunità locali, sempre isolate, vedevano l’impatto e protestavano. Anche quando ho proiettato Dying Lochs, il corto sugli allevamenti di salmone scozzesi, a Edimburgo molte persone non sapevano niente dei problemi di questa industria.
Lentamente però le cose stanno cambiando. In Grecia l’opinione pubblica ha iniziato a capire l’impatto negativo sull’ambiente di questi allevamenti, soprattutto il devastante effetto che hanno sui fondali marini. E varie comunità hanno iniziato a prendere posizione insieme contro questi allevamenti, mettendosi in rete. Una rete che poi ha superato i confini nazionali: da quando l’Argentina ha vietato la creazione di allevamenti di salmoni qualcosa si sta muovendo per fermare l’espansione di questa industria molto problematica che, ricordiamolo, in Europa si sta espandendo anche grazie a soldi pubblici.
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Una buona notizia sull’opposizione agli allevamenti di pesci è arrivata qualche giorno fa in Grecia. Il governo greco ha annullato un piano per nuovi allevamenti intensivi di spigola e orata lungo la costa dell’isola di Poros. La proposta, risalente al 2011, prevedeva la creazione di allevamenti lungo ben un quarto della costa dell’isola, un’estensione considerevole. L’iniziativa aveva incontrato una forte opposizione da parte della comunità locale, riunita nel comitato ΚΕΣΥΠΟΘΑ, preoccupata per l’inquinamento e i danni alle risorse naturali. Il passo indietro del governo rappresenta una vittoria significativa, frutto sia dell’impegno della comunità sia del lavoro delle inchieste giornalistiche. Tra queste ci sono anche le ricerche di Francesco De Augustinis, iniziate con l’indagine transfrontaliera Invisible Factory Farms: The Rise of Aquaculture in “Green” Europe nel 2020, hanno documentato i rischi e le conseguenze dell’allevamento intensivo di spigole e orate in Grecia, fornendo dati concreti e approfondimenti che hanno sostenuto le campagne della popolazione contro il progetto.
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