[di Cristiano Barducci]
Fare mattoni con polvere di marmo e inerti da demolizione. Una soluzione abasso impatto ambientale che trasforma i rifiuti speciali in risorsa
Sinossi
Catalyst è una start up toscana attiva nel settore dell’edilizia sostenibile. Le soluzioni brevettate dai fondatori contrastano due problemi diversi, di notevole incidenza: lo smaltimento dei materiali inerti da demolizione, pari al 40% dei rifiuti speciali prodotti ogni anno in Italia e gli scarti provenienti dalle cave, alcuni pericolosi per l’ambiente come nel caso del marmo. La nascita dei nuovi mattoni riciclati avviene nel luogo stesso della demolizione e a freddo,abbattendo le emissioni di co2 dovute al trasporto su ruote e alla cottura. Creando un prodotto competitivo, s’innesca un modo di operare intelligente applicabile a situazioni eterogenee: la riconversione di aree industriali dismesse, la rigenerazione urbana, la gestione delle conseguenze di calamità naturali. Ecco che dalle ceneri di un edificio o dallo scarto di una pietra la materia rinasce, generando un prodotto nuovamente riciclabile al termine del suo ciclo di vita.
Una lunga fila di camion, tanto grande da non vederne la fine. Ottantamila veicoli a pieno carico. Questo è quanto occorre per rimuovere le macerie dei terremoti che nel 2016 hanno colpito l’Italia centrale. Per l’Osservatorio Sisma promosso da Legambiente, l’85% è ancora a terra: due milioni e quattrocentomila tonnellate secondo le ultime stime, soprattutto nel Lazio e nelle Marche. Sono i muri e i tetti, gli infissi e le porte degli edifici danneggiati, demoliti in tutto o in parte per consentire la ricostruzione che tarda a cominciare.
Le macerie del sisma sono un esempio concreto di un problema a lungo sottovalutato: la gestione dei materiali provenienti da costruzioni e demolizioni. Per legge sono rifiuti speciali, da smaltire in discarica. Esistono però norme che, a particolari condizioni, ne consentono l’utilizzo come sottoprodotti, da re immettere nel circuito produttivo. L’edilizia, del resto, è un settore economico molto particolare e ancora basato, per gran parte, su un modello produttivo lineare: demolire, smaltire, scavare, costruire da zero.
“Per anni si sono fatti soldi consumando il suolo”, dice Mauro Carpinella, imprenditore fiorentino, fondatore di Catalyst, “noi facciamo un ragionamento diverso: ricostruire in loco, utilizzando quello che già c’è”. Catalyst ha creato e brevettato un modo per trasformare i rifiuti in risorsa.
In Danimarca, dal 2014, è attivo Rebrick, un progetto che riutilizza i mattoni di vecchi edifici buttati in discarica. Le idee della start up toscana, sviluppate a partire dal 2009, vanno oltre: riutilizzare tutto. Nel luogo dove si trovano i materiali residui, una macchina li sminuzza, per poi compattarli con una percentuale minima di cemento e una miscela ecologica brevettata da Catalyst. L’impatto ambientale è azzerato perché, a differenza dei mattoni tradizionali, questi non hanno bisogno di essere cotti in fornace, non emettendo co2. Il fatto che la lavorazione sia eseguita “a piè d’opera”, cioè nello stesso luogo dove si trovano i materiali da riciclare e da utilizzare per creare i mattoni consente un altro importante risparmio di co2, quello dei trasporti necessari a smaltire i vecchi materiali e portare sul posto i nuovi.
“Questo sistema può essere adattato a molti ambiti”, continua Carpinella, “penso alla riconversione di molte aree industriali del nostro paese, alla rigenerazione delle periferie, alla bonifica di aree come quella delle Apuane. Eliminiamo i trasporti di nuovi materiali e le escavazioni, diamo valore a qualcosa che addirittura costerebbe smaltire in discariche che già sono al collasso, creando un prodotto a sua volta riciclabile a fine vita. Il tuttoqq nel rispetto del territorio e di chi lo abita”.
La diffusione di un sistema di questo tipo aggredirebbe un fenomeno di notevoli dimensioni: secondo il rapporto rifiuti speciali 2019 redatto da Ispra (l’istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) il maggior contributo alla produzione di rifiuti speciali è dato proprio dal settore delle costruzioni e demolizioni: nel 2017 (ultimi dati disponibili) sono state prodotte 57,4 milioni di tonnellate di inerti da demolizione, pari a oltre il 40% del totale. Il tutto non considerando un altro aspetto importante del settore, quello delle escavazioni: una cava su tre delle quasi cinquemila attive nel nostro Paese (fonte Istat) estrae sabbia e ghiaia, il cui uso principale è appunto nell’edilizia.
Il primo progetto di Catalyst è legato proprio all’attività estrattiva: quella fatta nelle Alpi Apuane, luogo del pregiato marmo di Carrara. Il marmo è un materiale difficile da lavorare: per ogni blocco, gli scarti prodotti sono quattro volte tanto. Il residuo principale dell’estrazione, lavorazione e divisione del materiale in blocchi è una polvere bianca, talvolta quasi impalpabile, talvolta simile al fango. È la marmettola: smaltita per anni solo come rifiuto speciale, con relativo costo per le aziende produttrici, questo materiale è stato –ed è, tuttora- spesso gestito in maniera illegale, abbandonato nei pressi dell’area di cava. Di per sé gli scarti del marmo non sono pericolosi: lo diventano quando, trasportata dal vento, la polvere si disperde nell’ambiente, depositandosi sul letto dei fiumi e rendendoli impermeabili: l’acqua diventa torbida, di un bianco innaturale; il terreno, reso impermeabile dallo scarto, non assorbe la pioggia, facilitando le esondazioni. Un disastro ambientale, con cui il territorio apuano convive da decenni.
“Questo progetto è nato da un’intuizione”, racconta Franco Paolieri, co-fondatore di Catalyst, “qualcuno disse: che ci facciamo con tutta questa polvere di marmo? Mettiamola in un mattone!”. L’idea, sviluppata e brevettata, consiste proprio in questo: fare un mattone con i residui della lavorazione del marmo, compressi a freddo. “Oltre al risparmio di co2, in quanto questi mattoni non vengono cotti”, continua Paolieri, “c’è quello dell’acqua: sono i materiali stessi che, durante la lavorazione, rilasciano l’acqua necessaria. Viene fuori un mattone senza bisogno di ulteriori trattamenti e resistente all’acqua perché la marmettola, appunto, rende impermeabile ogni superficie”.
In Italia, dati Istat, sono estratti ogni anno quasi sei milioni di tonnellate solo di marmo. Il procedimento di utilizzare gli scarti della lavorazione provenienti dalla cave può essere esteso anche ad altri materiali. “È possibile fare lo stesso tipo di mattone con il granito, il porfido, altri tipi di marmo come quello pugliese, per limitarci ai test che abbiamo fatto noi”, continua Carpinella, “Se sviluppati, questi progetti possono coprire un ampio spettro di materiali da escavazione”.
Un punto su cui lavorare è la scarsa informazione. “Quando parliamo di mattoni riciclati, molti pensano a una qualità inferiore”, spiega Carpinella, “nulla di più falso”. Prima di lanciare i mattoni sul mercato, Catalyst ha ottenuto certificazioni d’idoneità da istituti accreditati e fatto effettuare dei test di compressione diagonale all’università di Firenze. Il risultato è che, rispetto a una muratura tradizionale, quelle fatte con i mattoni riciclati hanno evidenziato una resistenza superiore del 25%.
Progetti come questi si muovono in un contesto nazionale ancora incerto: l’Unione Europea, con la direttiva 98/2008, ha incentivato il riuso dei materiali nell’edilizia stabilendo che, entro il 2020, i materiali riciclati debbano essere il 70% del totale. L’Italia, secondo il rapporto rifiuti speciali redatto da Ispra è sopra questa soglia, ma i dati, denuncia il rapporto Recycle di Legambiente, sono parziali e inattendibili, perché “in molte regioni non esiste alcun controllo e non è considerato lo smaltimento illegale. Inoltre il rapporto è compilato sulla base dei dati inviati dalle imprese deputate a smaltire i materiali inerti, mentre le imprese di costruzione sono esentate”.
L’ostacolo maggiore rimane la normativa attuale. Mentre nuove ricerche di Catalyst su un terzo tipo di mattone riciclato hanno ottenuto il seal of excellence, il marchio di qualità rilasciato dall’Unione Europea per progetti innovativi, l’attuazione di ciò che già è realtà è rallentata da normative nazionali sul settore edile diverse e poco coordinate le une con le altre. Qualche passo in avanti è stato fatto con l’introduzione dei cosiddetti criteri ambientali minimi nel codice degli appalti pubblici, che prevedono il rispetto di parametri ambientali di base e criteri ambientali premianti per quelle imprese che presentano progetti con forte attenzione al riciclo dei materiali, valutazione dei costi del ciclo di vita delle opere, compresi i costi di recupero e smaltimento. Il problema, oltre al fatto che il codice riguarda solo il settore pubblico, è che manca un’indicazione chiara delle procedure da svolgersi: così, complici gli scarsi controlli, la normativa è per gran parte disattesa.
L’altro problema è stabilire con chiarezza il passaggio da rifiuto a prodotto riciclato in tutta una serie di casi. È la legge che stabilisce cosa è rifiuto da smaltire e cosa invece, se trattato, può smettere di essere rifiuto e acquisire la qualifica di materia prima secondaria o sottoprodotto. È il cosiddetto end of waste promosso dalla direttiva UE 98/2008. Un esempio su tutti sono gli assorbenti e i pannolini: fino a poche settimane fa erano rifiuti, il nuovo provvedimento del governo apre la strada al riciclo. Nell’edilizia, le norme su questo punto sono disordinate e poco chiare e la confusione normativa è spesso e volentieri un alibi per tecnici e appaltanti. Eppure non mancano le esperienze virtuose: il comune di Bologna ha chiarito e incentivato nel proprio regolamento edilizio i termini per l’utilizzo di materiali riciclati, la provincia di Trento già dal 2004 ha imposto l’obbligo per la pubblica amministrazione di acquistare prodotti in materiale riciclato per il 30% del fabbisogno. Non mancano esempi di opere recenti: il nuovo stadio della Juventus è stato costruito nello stesso luogo del precedente, utilizzando molti dei materiali risultanti dalla demolizione del vecchio “Delle Alpi”, dal calcestruzzo all’acciaio. Stessa cosa è accaduta per il Palaghiaccio di Torino, eredità delle Olimpiadi invernali del 2006.
La storia di Catalyst è una delle tante presenti nel nostro Paese, energie nuove che trovano soluzioni a problemi che sembrano insormontabili, tanto sono radicati ed estesi. “Come molte storie di economia circolare la sfida è creare un mercato”, conclude Carpinella. “Non sono i nostri prodotti a essere rivoluzionari, è l’idea. L’idea che la materia abbia una nuova vita. Noi, come imprenditori, abbiamo fatto la nostra parte: abbiamo investito, fatto ricerca, creato qualcosa. Adesso sta a chi scrive le regole metterci in condizione di operare al meglio”.