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sabato, Novembre 30, 2024

Moda e greenwashing, Greenpeace: “Così i brand mascherano il fast fashion con le etichette verdi”

Report dell’associazione ambientalista: “Dietro le etichette verdi, marchi come Benetton, Calzedonia e Intimissimi nascondono l’insostenibilità del fast fashion”

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Redazione EconomiaCircolare.com

La moda a basso costo si basa su un’economia lineare e il suo devastante impatto ambientale e sociale non emerge dai claim di sostenibilità dei marchi della moda. Molti prodotti sono spesso accompagnati da termini come “eco” “green” ”cares” e da etichette che richiamano alla circolarità. Ma cosa c’è di vero in questi slogan? Secondo un recentissimo report di Greenpeace Germania, spesso “si tratta di iniziative che possono essere annoverate come eclatanti casi di greenwashing, con il serio rischio di confondere le persone e spingerle a credere di acquistare prodotti realmente sostenibili”. Diffuso nei giorni scorsi in occasione del decimo anniversario del disastro di Rana Plaza in Bangladesh, il nuovo rapporto di Greenpeace Germania (“Greenwash danger zone. 10 years after Rana Plaza fashion labels conceal a broken system”, qui una sintesi del report in italiano), “va a verificare – spiega l’associazione in una nota – cosa si cela dietro la presunta sostenibilità di alcune etichette di marchi internazionali, controllando la veridicità di tutte quelle iniziative di marketing green autoprodotte”. Nell’indagine sono state controllate le iniziative di 29 aziende che aderiscono alla campagna Detox (tra cui, ad esempio, H&M, Zara, Benetton, Mango etc.) e quelle di altri marchi internazionali come Decathlon e Calzedonia.

“Dieci anni dopo la tragedia di Rana Plaza, l’industria della moda continua a sfruttare i lavoratori e a generare enormi impatti ambientali”, dichiara Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna Inquinamento di Greenpeace Italia. “Oggi proliferano sul mercato vestiti che le stesse aziende del fast fashion etichettano come eco, green, sostenibili, giusti, ma il più delle volte è solo greenwashing. Si pubblicizza una sostenibilità inesistente mentre in realtà sono in costante aumento gli abiti fatti di plastica usa e getta derivante dal petrolio, non riciclabili e per lo più prodotti in condizioni di lavoro inaccettabili”.

Leggi anche: I nuovi indicatori di sostenibilità delle Nazioni Unite per combattere il greenwashing

Chiudere il cerchio e rallentare il flusso

Nonostante emergano sempre più dati sui devastanti impatti ambientali del settore e dell’insostenibile modello del fast fashion, la moda usa e getta a basso costo continua a proliferare: dal 2000 al 2014 la produzione di capi di abbigliamento è raddoppiata e, con essa, sono cambiate radicalmente anche le abitudini di acquisto. Le persone comprano più vestiti (circa il 60% in più rispetto al 2000) e li usano per un periodo più breve, ricorda Greenpeace. Numeri che potrebbero ulteriormente crescere entro il 2030 grazie anche all’introduzione di modelli di business insostenibili come, ad esempio, l’ultra fast fashion di Shein.

“Per affrontare seriamente i cambiamenti climatici, la crisi della biodiversità e la protezione degli oceani è necessario ridurre drasticamente l’intensità materiale della moda, attualmente guidata da un modello di business lineare che si basa sulla sovrapproduzione e sulla promozione del consumo eccessivo”. Per questo motivo, Greenpeace ha anche sfidato i marchi impegnati in Detox ad assumersi la responsabilità per l’intero ciclo di vita dei loro abiti, “rallentando il flusso” e “chiudendo il cerchio”. Il concetto di rallentamento del flusso, spiega l’associazione, implica che i marchi di moda spostino il loro modello di business verso un design di lunga durata (produrre meno e di migliore qualità, renderlo riparabile e riutilizzabile), prolungando la vita del prodotto (cura e riparazione) e offrendo usi multipli di un prodotto/materiale attraverso servizi piuttosto che la vendita (riutilizzo, riuso, seconda mano, noleggio, condivisione, upcycling). “Chiudere il cerchio” implica una progettazione circolare (renderlo riciclabile), sistemi di ritiro e riciclaggio. I due concetti sono interconnessi, “ma per risolvere il problema, il rallentamento del flusso ha la priorità sulla chiusura del ciclo, perché la sovrapproduzione rende impossibile la chiusura del ciclo. Semplicemente colorare di verde senza sensi di colpa un modello aziendale lineare, verde senza sensi di colpa e riciclato non potrà mai essere sostenibile”, sottolinea Greenpeace.

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Le tecniche subdole del greenwashing

L’analisi dell’associazione ha identificato alcuni tratti comuni nella tendenza al greenwashing:

1) il rischio di confondere i consumatori con etichette presentate come certificate ma che in realtà derivano da programmi di sostenibilità aziendali;

2) la mancanza della verifica di terze parti o della valutazione del rispetto dei migliori standard ambientali e sociali;

3) l’assenza di meccanismi di tracciabilità delle filiere;

4) l’assenza di riferimenti alla necessità di allontanarsi dall’attuale modello di business;

5) la falsa narrazione sulla circolarità che si basa, ad esempio, sull’approvvigionamento di poliestere riciclato proveniente da altri settori industriali invece che da abiti usati (downcycling);

6) il ricorso massiccio a termini fuorvianti come “sostenibile” o “responsabile” associato ai “materiali” che, di fatto, registrano performances ambientali solo leggermente migliori rispetto alle fibre vergini o convenzionali;

7) il continuo ricorso a mix di fibre come il “Polycotton o Policotone” (tessuto combinato, costituito da fili sintetici e naturali) spesso presentato come più ecologico;

8) la scelta di affidarsi all’indice Higg per valutare la sostenibilità dei materiali, uno strumento la cui parzialità è nota;

9) il miglioramento di un singolo aspetto/parametro della produzione (ad esempio riduzione del consumo di acqua o il riutilizzo/riciclo dei rifiuti pre-consumo) usato per indicare il miglioramento complessivo.

Leggi anche: La guida per scovare il greenwashing e i claim da evitare

Il giudizio sulle imprese

Solo le iniziative di COOP “Naturaline” e Vaude “Green Shape” hanno superato, almeno in parte, i test di Greenpeace Germania e ottenuto buoni risultati, al contrario di quelle di tutte le altre aziende esaminate. “I marchi si vendono quindi per quello che non sono, ed evitano di pubblicare informazioni che permettano di valutare l’effettivo impatto ambientale. Ciò genera confusione nelle persone, spinte a credere di acquistare prodotti sostenibili ma che in realtà non lo sono”, riferisce l’associazione. Benetton e Calzedonia/Intimissimi, i marchi italiani presi in esame nell’indagine, non ottengono buoni risultati. Secondo Greenpeace il primo “deve fornire molte più informazioni per riuscire realmente a ‘produrre meno e meglio’, oltre a dover rivedere la propria definizione di ‘cotone sostenibile’”. Calzedonia invece “deve passare dalle parole ai fatti rendendo veritiere le dichiarazioni sulla tracciabilità delle filiere e adottare un sistema che permetta di gestire le sostanze chimiche pericolose”.

“Il fast fashion non può essere definito sostenibile. Le aziende hanno il dovere di allontanarsi da modelli di business basati su un’economia lineare e promuovere una vera economia circolare che riduca gli impatti sociali e ambientali. Allungare il ciclo di vita dei vestiti deve essere la priorità del settore, solo così eviteremo una moda basata sul greenwashing”, conclude Ungherese.

© Riproduzione riservata

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