“Abbiamo visto progetti concreti e non greenwashing”. La sintesi di Pietro Pin, presidente della Commissione Tecnica Tessile di Uni, ente italiano di normazione, è forse il modo migliore per cominciare a raccontare l’incontro che si è svolto questa mattina a Ecomondo, la fiera internazionale che unisce tutti i settori dell’economia circolare e che è in fase di svolgimento dal 26 al 29 ottobre. Lo scopo era quello di promuovere il progetto “Osservatorio Tessile” che, a partire proprio dall’appuntamento riminese, intende costruire un percorso di riflessione comune e di costante valutazione delle pratiche industriali, degli interventi normativi in materia e della comunicazione nei confronti dei consumatori.
Per farlo la nostra testata, attraverso il prezioso contributo di Alessandra De Santis, ha messo insieme il variegato mondo del tessile: dalla ricerca alle imprese, dai consorzi agli enti normativi. Ad accomunare gli interventi un’esigenza e una data: l’esigenza è stata quella di capire come il mondo del tessile può avere un impatto ambientale ridotto grazie all’economia circolare – dato che al momento è la seconda industria più inquinante dopo quella petrolifera – mentre la domanda riguarda la capacità o meno di saper affrontare l’appuntamento fondamentale dell’1 gennaio 2022, quando scatterà l’obbligo di raccolta differenziata dei rifiuti tessili (in anticipo rispetto alla direttiva comunitaria).
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Dalla lana al filato fino all’acqua, tutto si può recuperare
Da dove proviene la lana che ci permette di realizzare molti capi di abbigliamento? Come consumatori in pochi si pongono questa domanda. Ed è a partire da questo quesito, invece, che è partito il racconto di Marco Antonini, ricercatore del Laboratorio Bioprodotti e Bioprocessi di Enea. “Noi lavoriamo sul sistema della produzione primaria del tessile – ha detto Antonini – che è legata soprattutto ai pascoli, i quali a loro volta spesso sono legati a zone di rischio. A mio modo di vedere non esiste la produzione della lana ma esiste un sistema, ovvero la produzione è parte di un sistema integrato ecologico che va dal pascolo al suolo all’animale alla parte antropica. Recentemente il pascolo si è rivelato un ottimo metodo per il sequestro di co2, molto meglio delle foreste. E inoltre è ormai noto che l’animale è anche un bioindicatore dello stato dell’ambiente. In Europa la produzione di lana è molto parcellizzata, perché gli allevamenti sono fatti di 150-200 capi di bestiame. La lana è un materiale povero, e dunque spostarlo costa. Ecco perché l’idea è di fare centri di raccolta per la lana. La resa della lana, specie a livello europeo, è bassissima: chi acquista 1000 chili di lana si ritrova 300 chili di filato. Devono essere gli allevatori a capire prima di tutto il valore della lana, che per loro spesso è soltanto uno scarto da smaltire, mentre gli industriali devono capire che dietro alla lana, e dunque al materiale che a loro interessa accaparrarsi per farne profitto, c’è tutto il mondo del pascolo”.
Un dato su tutti, enunciato ancora da Antonini, fa riflettere: in Italia ogni anno vengono bruciati 8 milioni di chilogrammi di lana. Segno che il recupero degli scarti è un’attività fondamentale. In questo caso un esempio interessante è quello dell’azienda Giletti spa, che da più di 60 anni rigenera cotone. Si tratta di un’azienda a conduzione familiare, in cui è coinvolto anche il noto conduttore tv Massimo Giletti – che ha mandato un contributo video. In presenza invece c’era il fratello Emanuele Giletti, in qualità di amministratore delegato. “Già nostro padre – ha raccontato Giletti – pensava a risparmiare e a riciclare sia acqua che energia, il che dimostra una sensibilità che ha precorso i tempi. Ora ovviamente le tecnologie ci danno una mano fondamentale: attualmente siamo in grado di ricavare un cotone idrofilo, suddiviso per colori e legato ad altre fibre. Produciamo da soli oltre 180 colori. Anche nel nostro settore il Covid ha creato notevoli difficoltà nel reperimento dei materiali necessari, nonché un aumento dei prezzi delle materie prime”.
Un altro esempio interessante di recupero di risorse è quello esposto da Silvano Storti, amministratore delegato di Europrogetti, azienda che si occupa del recupero di acqua nella tintoria. “Per dare colore alle fibre tessili si consumano 50/60 litri di acqua per un chilo di materiale, che vuol dire che un’azienda media consuma dai 20 ai 30 milioni di litri di acqua al giorno. Il problema nel tessile è la delocalizzazione e il fatto che le imprese praticamente non pagano l’uso dell’acqua. Non possiamo usare il fiume come pattumiera. Mettendo insieme le aziende tessili in Italia ci sono decine di milioni di tonnellate di sversamenti tossici. Lo fanno rispettando i parametri di legge ma ciò non basta. Ecco perché noi abbiamo puntato sin dagli anni ‘70 sul recupero e riutilizzo delle acque, raggiungendo l’eccellenza a livello mondiale. Recuperare e riutilizzare acqua vuol dire riduzione di emissioni e riduzione di energia, e anche l’eliminazione dello scarico di sostanze inorganiche, alcune neanche biodegradabili, e di microplastiche. Oltre ai vantaggi ambientali ci sono poi notevoli vantaggi sociali ed economici, che saranno crescenti visto che la sensibilità a livello internazionale aumenta. Per dirne una: l’India, che non è certo conosciuta come nazione molto sensibile a livello ambientale, è diventata la prima nazione che chiede lo scarico zero per le aziende tessili”.
Cresce la sensibilità delle imprese
Un elemento imprescindibile del settore tessile è ovviamente costituito dalle imprese. Come ha ricordato Daniele Gizzi, responsabile Settore Ambiente ed Economia Circolare di Confartigianato Imprese, “nel settore della moda operano 55mila imprese, che fanno sì che la moda sia il quarto settore per consumo di materie prime e il quinto per le emissioni. Come è stato già ricordato, l’appuntamento cruciale per il settore sarà l’obbligo della raccolta differenziata all’1 gennaio 2022: sarà un’emergenza ambientale o un’opportunità? Gli ultimi dati Ispra, relativi al 2019, indicano che l’Italia produce 146mila tonnellate di rifiuti tessili. E non c’era l’obbligo di raccolta, figurarsi. Le stime per il 2022 parlano di 900mila tonnellate di rifiuti tessili post obbligo. Saremo in grado di affrontare questa rivoluzione? Per farlo serve riconoscere anche il valore del sottoprodotto e serve l’agognato decreto end of waste”.
Quel che è emerso dall’incontro, a più riprese, è stata la necessità di mette insieme i vari anelli della filiera. “Chi si occupa del post-consumo – ha sottolineato Carmine Guanci, dell’Alleanza delle Cooperative Italiane Sociali – vuole parlare con chi si occupa della progettazione e della produzione affinché ci sia sì un efficace riciclo e riutilizzo dei materiali ma che parta sin dalla genesi del prodotto. Se sulla raccolta degli indumenti finora ci sono cooperative sociali che da sole raccolgono più di un terzo del materiale circostante, in futuro, specie con l’obbligo della differenziata, ci saranno difficoltà maggiori. Anche perché il tessile non riguarda solo l’abbigliamento, pensiamo per esempio al comparto del tessile per la casa. È necessario definire a livello legislativo la responsabilità estesa del produttore, insieme alla compartecipazione di tutti gli attori della filiera”.
Una volontà di collaborazione che è emersa anche dall’intervento di Daniele Spinelli, junior project manager di Next Technology Tecnotessile, e da quello di Aurora Magni, presidente di Blumine. “Ho letto i bilanci di sostenibilità di 20 brand della moda – ha raccontato Magni – e ogni anno raccolgo le storie del settore tessile per Symbola: sono sempre più documentate e sempre più numerose. Non si parla più di singole collezioni sostenibili ma dell’intero reparto e vengono valutati i fornitori per la loro etica e il loro controllo ambientale. Si sente sempre meno parlare di chimica sicura e sempre più di economia circolare. Questo è importante perché l’economia circolare ci mette alla prova in ogni fase della produzione”.
Serve attenzione per la norme tecniche
A chiudere l’incontro ricco di spunti è stato colui che l’ha anche promosso in prima persona, ovvero Pietro Pin. Il suo intervento è stato importante perché giunge in occasione del centenario dell’Uni, l’Ente Italiano di Normazione. Il ruolo di Uni, che definisce le norme tecniche in applicazione dei vari settori di produzione (tra cui il tessile), è ancora più importante in una società che si fa sempre più complessa e in cui ambiti come quelli dell’economia circolare sono ancora in attesa di definizioni specifiche. “Le norme sono spesso sconosciute ai più – ha detto Pin – perché se ne accorgono solo quando vengono applicate e non quando sono progettate. Solo nel tessile ci sono 600 norme. L’applicazione delle norme tecniche significa 1,5 punti pil: se n’è accorta la Germania, ad esempio, che rivendica sempre le presidenze e le segreterie nelle commissioni tecniche. Purtroppo le aziende hanno ancora una concezione obsoleta per cui la normazione è una scocciatura. E invece resta fondamentale, anche perché a scrivere le norme sono proprio i soggetti a cui verranno applicate e che UNI chiama a collaborare”.
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