Pirolisi, gassificazione, decomposizione di polimeri. Sono tanti e complessi i termini che orbitano intorno al mondo del riciclo chimico della plastica. “Concetti spesso difficili da rendere potabili al grande pubblico”, dice a Economia Circolare Marco Scatto, chimico Industriale specializzato in Scienza dei polimeri e consulente di numerose imprese. Senza i quali però, è difficile orientarsi, soprattutto in un’epoca di grande innovazione tecnologica nel campo del riciclo delle plastiche.
Nel riciclo chimico esistono tre categorie a seconda del livello di decomposizione a cui saranno soggetti i rifiuti di plastica: Purificazione a base di solventi, depolimerizzazione chimica e depolimerizzazione termica (pirolisi e gassificazione). Qual è la più promettente?
La depolimerizzazione con solvente, molto usate per i poliammidi, paga dazio per il fatto che si trova di fronte ad un utilizzo di solventi organici e rischia di non essere sostenibile. La depolimerizzazione chimica di nuova generazione promette bene nel PET (bottiglie monouso); per esempio un processo che utilizza le microonde è stato brevettato da un’azienda svizzera. Quella termica, invece, ha il vantaggio di essere utile con più classi di polimeri.
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Prendiamo in considerazione il processo di riciclo chimico più utilizzato: la depolimerizzazione termica. È molto energivoro questo processo?
Dipende da cosa li paragona. C’è pochissima letteratura a riguardo. Non dimentichiamo che il riciclo meccanico richiede grandi quantità di un’altra risorsa: l’acqua, per lavare e purificare le plastiche. Tuttavia per entrambi i tipi di riciclo i processi di granulazione e macinazione della plastica richiedono energia.
A proposito di riciclo meccanico, alcuni sostengono che può essere attuato un numero limitato di volte con possibilità di downcycling (materiale riciclato è di qualità e funzionalità inferiori rispetto al materiale originale), altri sono più ottimisti con l’approccio bottle to bottle (bottiglie di Pet 100% riciclato).
Il processo bottle to bottle si può fare infinite volte per alcune poliolefine. Per i poliesteri come il Pet una serie di volte, ma sicuramente non all’infinito. Invece il riciclo chimico può essere reiterato infinte volte, poiché quando si depolimerizzano termicamente le plastiche, si possono risintetizzare così da ottenere plastica vergine. Poi nel chimico non c’è il rischio di contaminazione delle diverse plastiche (plastic mix). Nel meccanico i processi di separazione (sorting) delle plastiche non sono sempre precisissimi.
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Si possono comparare allora meccanico e chimico ?
Ad oggi non abbiamo ancora dati sufficienti sul riciclo chimico per identificare pregi e difetti. Parliamo di una tecnologia abbastanza recente; c’è un gap almeno di 5 anni rispetto al meccanico. Quindi è ancora difficile. Credo che uno non escluda l’altro. Possono lavorare entrambi: quando il meccanico non arriva, c’è l’altro di supporto. Per il riciclo chimico non si possono pretendere risultati immediati, ci vuole ancora un po’ di tempo.
Chi sta investendo maggiormente sul riciclo chimico?
Le multinazionali del petrolchimico. I grandi produttori di resina polimerica stanno puntando molto sul riciclo chimico. C’è Sabic, Total, Borealis, gruppo Eni. Il riciclo chimico necessità di risorse e investimenti molto importanti. Paesi come Spagna, Germania e Olanda sono molto più avanti rispetto all’Italia.
Attualmente i settori più interessati a questa tecnologia sono i grandi marchi della cosmesi e delle fragranze. Non amano il riciclo meccanico perché lascia delle impurezze a livello estetico (colore, opacità). Nonostante il meccanico garantisca ottime prestazioni di riciclo, dal punto di vista estetico non è troppo affidabile.
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