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lunedì, Dicembre 16, 2024

Scarti di produzione e sottoprodotti: l’economia circolare in pratica

La messa a sistema dei sottoprodotti potrebbe rappresentare la strada obbligata verso la transizione ecologica, facendo rientrare all’interno dei processi produttivi materie che finiscono al contrario per gravare come un fardello nella gestione dei rifiuti, con evidenti costi economici e socio-ambientali. Eppure il sistema produttivo italiano fa scarso ricorso ai sottoprodotti

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Il Laboratorio REF Ricerche è un think tank che intende riunire selezionati rappresentanti del mondo dell´impresa, delle istituzioni e della finanza al fine di rilanciare il dibattito sul futuro dei Servizi Pubblici Locali.

A cura di Donato Berardi e Antonio Pergolizzi

PIL e rifiuti speciali: alle origini del mancato disaccoppiamento

L’Italia è il Paese europeo dove la produzione di rifiuti è cresciuta di più (+21%), nonostante la riduzione del PIL (-8% tra il 2010 e il 2020). I dati evidenziano per il nostro Paese il mancato raggiungimento del disaccoppiamento tra il PIL e la produzione di rifiuti, con una differenza tra la crescita dei rifiuti prodotti dalle attività economiche e quella del PIL vicina al 30%. Francia e Germania al contrario, sono casi virtuosi, visto che la produzione di rifiuti è cresciuta meno del PIL.

Quali sono le cause? Considerato che una parte rilevante della maggiore intensità di produzione di rifiuti primari è nettamente riconducibile al tessuto manifatturiero domestico, l’andamento dell’indicatore potrebbe essere legato, oltre che all’efficienza dei processi anche allo scarso ricorso all’istituto dei sottoprodotti. Questi ultimi, infatti, non sono rifiuti, ma scarti di produzione (come sfridi, cascami o avanzi di processi produttivi) che possono essere gestiti come beni, quando soddisfano tutte le condizioni previste dall’Art. 184-bis del D.Lgs. 152/2006 (Testo Unico Ambiente), ovvero:

1) la sostanza o l’oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto;

2) è certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso processo di produzione o di uno stadio successivo, da parte del produttore o di terzi;

3) la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale;

4) l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa tutti i requisiti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente, e non porta a impatti negativi sull’ambiente o sulla salute umana.

Se manca anche una sola delle condizioni sopra elencate, lo scarto di produzione rientra nella disciplina dei rifiuti.

Alla luce del quadro normativo vigente, l’aspetto cruciale della disciplina dei sottoprodotti è relativo alla “certezza dell’utilizzo” della sostanza o oggetto (Art. 5 del DM 264/2016). È, quindi, compito del produttore attivare sin dall’inizio della sua attività un ciclo produttivo capace di incanalare i residui quali i sottoprodotti all’interno dello stesso o di altro ciclo produttivo, attivando le necessarie forme di osmosi industriali. In quest’ottica, la messa a valore dei sottoprodotti appare prevalentemente il frutto di una sapiente pianificazione industriale, la cui importanza rischia di essere sottovalutata dalle imprese.

Delle quattro condizioni richieste per documentare la natura di un sottoprodotto, è la numero 3 ad aver destato qualche dubbio, soprattutto in passato. La locuzione “normale pratica industriale”, infatti, appare abbastanza vaga e soggetta a interpretazioni più o meno restrittive. L’Art. 6 del DM 264/2016 (Utilizzo diretto senza trattamenti diversi dalla normale pratica industriale) disciplina cosa non costituisce “normale pratica industriale”. In materia, si è tuttavia pronunciata la Corte di Cassazione, il cui orientamento sembra essere il seguente: il sottoprodotto può essere direttamente utilizzato senza essere sottoposto a trattamenti, radicali o minimali che siano, preliminari rispetto al nuovo uso e comunque diversi dalle operazioni che ordinariamente si svolgono nel processo di produzione in cui avviene il riutilizzo e che, in quanto tali, costituiscono la normale pratica industriale.

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Sottoprodotti e osmosi industriale

I casi pratici di applicazione dei sottoprodotti sono svariati, praticamente senza eccezioni settoriali, che qui si possono solo accennare (per una trattazione dettagliata, si rimanda alla versione estesa di questo Position Paper). Uno dei settori naturalmente adatti all’impiego dei sottoprodotti è quello agroalimentare. Ma non solo. Interessanti prospettive vi sono in quello della concia delle pelli, della lavorazione dei metalli della chimica e, last but not least, del settore tessile.

La ricerca di economie di scala e di densità richiede pratiche concrete di simbiosi industriale, principalmente per le frazioni di scarso valore economico per singola unità, come nel caso del tessile, dove ancora oggi i ritagli e i cascami faticano a trovare uno sbocco come sottoprodotti, anche in considerazione della delocalizzazione produttiva di alcuni marchi e al successo del fast fashion.

È, quindi, alla simbiosi industriale che si deve guardare come chiave di volta per sbloccare l’uso dei sottoprodotti nella manifattura Made in Italy.

La messa a sistema dei sottoprodotti potrebbe rappresentare la strada obbligata verso la transizione ecologica, facendo rientrare all’interno dei processi produttivi materie che finiscono al contrario per gravare come un fardello nella gestione dei rifiuti, con evidenti costi economici e socio-ambientali. La gestione all’interno dei cicli industriali dei sottoprodotti rappresenta uno degli strumenti indispensabili per la conversione ecologica dei nostri sistemi produttivi.

Secondo l’ENEA, la simbiosi industriale è riconosciuta a livello nazionale e internazionale quale strumento essenziale per aumentare la competitività, ridurre la dipendenza dalle materie prime, rilanciare l’economia e aumentare la capacità degli ecosistemi industriali e territoriali a compensare gli squilibri esogeni. In Italia, la Strategia Nazionale per l’Economia Circolare (SNEC), nell’ambito delle 63 riforme fondamentali per l’attuazione degli interventi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), ha individuato nella simbiosi industriale un modello produttivo necessario per la transizione verso l’economia circolare.

La SNEC scritta dal Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica (MASE) definisce la simbiosi industriale come “un sistema integrato per condividere risorse (materiali, acqua, sottoprodotti, scarti, servizi, competenze, strumenti, database, ecc.) secondo un approccio di tipo cooperativo in cui l’output di un’azienda può essere utilizzato come input da un’azienda terza nell’ambito del suo processo di produzione”.

L’applicazione dei principi della simbiosi industriale alle pratiche commerciali consente, dunque, alle aziende di “utilizzare in modo più efficace flussi di materiali, energia, acqua e altre attività, conseguendo una maggiore produttività complessiva. Attraverso la simbiosi industriale, rifiuti e altre risorse inutilizzate generate dai processi industriali vengono recuperati per essere utilizzati da un’altra azienda, in genere operante in un settore produttivo diverso, generando un reciproco beneficio o simbiosi. L’approccio può condurre all’ottimizzazione dei processi industriali, anche attraverso la creazione di distretti circolari, al miglioramento della logistica e a favorire il trasferimento di conoscenze, aumentando conseguentemente la produttività di tutte le risorse disponibili e generando vantaggi economici e ambientali, incrementando competitività ed eco-innovazione”.

Le interazioni e le sinergie attivate tramite i meccanismi della simbiosi industriale generano benefici economici, ambientali e sociali (minore consumo di risorse, impatti ambientali evitati, valorizzazione locale delle risorse) realizzando, quindi, soluzioni di tipo win-win in cui tutti gli attori coinvolti possono trarre vantaggio dalle reciproche interazioni. Economicamente, le aziende sono più competitive traendo vantaggio dall’accesso a risorse più economiche, evitando i costi di smaltimento e/o ottenendo ulteriori ricavi dalla vendita dei sottoprodotti. I vantaggi ambientali per la collettività derivano dalla riduzione del consumo di risorse e dalla mitigazione dell’inquinamento ambientale.

Ovviamente, questo modello di business può creare nuove e virtuose relazioni tra le aziende e le comunità locali. Nel 2017, a seguito delle esperienze maturate negli anni, ENEA ha promosso la prima rete di simbiosi industriale SUN – Symbiosis Users Network che vuole essere il riferimento italiano per gli operatori che vogliano applicare la simbiosi industriale, a livello industriale di ricerca e di territorio. L’Italia dei distretti industriali ha nel suo DNA un approccio sistemico nella messa in comune dei fattori di produzione. Nei 41 distretti censiti da Istat, le esternalità positive incardinate su processi di messa in rete hanno generato modelli autoctoni di sviluppo industriale, in grado di reggere persino alle logiche della globalizzazione. Si tratta di aree ad alta concentrazione di piccola e media impresa, caratterizzate da un elevato livello di specializzazione produttiva, un marcato livello d’interdipendenza dei cicli produttivi e una forte integrazione con il contesto socio-economico. I distretti sono realtà dove si generano economie di scala, cultura d’impresa e radicamento territoriale e dove il profitto, di solito, fa rima con il benessere del territorio, non solo in termini di occupazione.

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Proposte di policy

Nonostante le enormi potenziali dell’istituto dei sottoprodotti nella transizione ecologica, la sua applicazione è ancora oggi limitata. La scarsa conoscenza dell’istituto giuridico dei sottoprodotti da parte del mondo produttivo ed il timore dei profili di responsabilità che originano dal farvi ricorso, oltre che la mancanza di misure incentivanti, sono le principali ragioni che hanno di fatto relegato finora l’impiego dei sottoprodotti in una sorta di limbo.

Riguardo al secondo aspetto, ovvero l’incertezza della disciplina, è necessario premettere che questa è in qualche modo ontologica rispetto ai singoli materiali. La distinzione tra prodotto-sottoprodotto-residuo (rifiuto) non è, infatti, né immediata né automatica. Le imprese finora si sono rivelate più inclini a classificare potenziali sottoprodotti – con evidenti benefici ambientali ed economici per gli interessati e per la collettività – come rifiuti, allo scopo di evitare ulteriori appesantimenti burocratici, e, soprattutto, per evitare di incappare in conteziosi giudiziari, nel caso di non EoW (End of Waste).

In tal senso, se è pur vero che un margine d’incertezza esiste, è altrettanto vero che lo sforzo della giurisprudenza e delle policy a livello regionale stanno dando una mano a chiarire alcuni aspetti. Sforzi che devono essere portati avanti e rafforzati.

Affinché i sottoprodotti siano capaci di generare valore, servono poi tre condizioni imprescindibili:

  •  l’esistenza di una filiera organizzata e attrezzata a ridurre al minimo i residui/rifiuti, sia nell’ambito di ciascuna realtà produttiva che in un’ottica di reti d’imprese;
  •  un mercato efficiente, che mai come in questo caso è una costruzione sociale (parafrasando l’insegnamento di Max Weber), cioè uno spazio di agibilità economica in grado di assorbire efficacemente (sia in senso tecnico che economico) i sottoprodotti;
  • policy a sostegno dell’impiego dei sottoprodotti, giustificate sia in un’ottica di riduzione dei rifiuti che per l’uso efficiente delle risorse, quindi con duplice vantaggio.

Concretamente, per ogni iniziativa economico-produttiva capace di dimostrare l’adozione di un piano certificato di riduzione dei rifiuti grazie alla valorizzazione (nelle rispettive o in altre catene del valore) dei sottoprodotti, si dovrebbero prevedere misure di sgravi fiscali e/o d’incentivo economico, in piena logica di prevenzione. Misure in tal senso aiuterebbero certamente le aziende a investire nell’innovazione dei processi produttivi, oltre a dare loro ennesima certezza che si tratti di un’iniziativa apprezzata e non vista con diffidenza da parte delle autorità pubbliche.

Al fine di agevolare l’identificazione dei sottoprodotti derivanti dai processi produttivi, sarebbe utile che già in sede di rilascio delle autorizzazioni richieste per l’esercizio dello specifico processo produttivo (AIA, AUA o altra autorizzazione) questi fossero contemplati dal proponente tra le innovazioni di processo e in genere gestionali, facendo riferimento alle migliori tecniche disponibili. In tal senso, dovrebbe essere indicato specificamente dal MASE che tutti i progetti, sin dal loro concepimento, tengano in considerazione tutte le innovazioni in grado di facilitare la qualifica e l’utilizzo dei sottoprodotti. Il loro inserimento specifico nella stesura dei documenti tecnici di riferimento darebbe sicuramente maggiore certezza sulla regolarità del loro uso ai sensi dell’Art. 184-bis, a beneficio sia del produttore che dell’utilizzatore finale. Tra le possibili modalità per incentivare l’adozione di questa pratica, potrebbe essere adottato dalle Regioni, su specifica indicazione del MASE, uno specifico modello di valutazione che contempli, in materia di gestione degli scarti, un’analisi obbligatoria circa la possibilità di utilizzo di sottoprodotti nel proprio ciclo produttivo e di possibile produzione di sottoprodotti in luogo di rifiuti. Tali informazioni, opportunamente sistematizzate, dovrebbero poi essere trasmesse alla Camera di Commercio territorialmente competente ai fini della pubblicazione delle informazioni nella propria banca telematica che mette in contatto domanda e offerta.

Allo stesso tempo, anche le norme tecniche di settore UNI potrebbero svolgere un ruolo attivo nel regolamentare meglio il loro impiego nei singoli settori, contribuendo a innovare e ad affermare i sottoprodotti come elemento imprescindibile della normale pratica industriale, eliminando residui di incertezza e di diffidenza (come già accade, giusto per fare un esempio, nel caso delle plastiche grazie alla UNI 10667-1).

Queste previsioni, insieme agli strumenti di policy economici e fiscali, come i già citati CAM, ai Certificati del Riciclo, ai Certificati Bianchi e alle agevolazioni fiscali dovrebbero rappresentare un mosaico di strumenti legati all’uso sapiente dei sottoprodotti.

In definitiva, i sottoprodotti rappresentano un driver efficace a favore della simbiosi industriale, rappresentandone strumento necessario, che va comunque incentivato. Dovrebbe essere questa un’altra tessera del patchwork di misure economiche e fiscali necessarie – che abbiamo raccontato in numerosi Position Paper – a risolvere i fallimenti di mercato che ostacolano la corsa versa la decarbonizzazione della nostra economia.

Appare altresì utile attivare percorsi di formazione e d’informazione, destinati principalmente agli attori economici e alle autorità di controllo – che in questo caso dovrebbero svolgere un inedito lavoro di squadra per sfruttare al massimo le potenzialità insite nell’uso industriale dei sottoprodotti, sia dal lato della produzione, che della regolazione e controllo.

© Riproduzione riservata

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