“Durante la pandemia Covid-19, gli ospedali di tutto il mondo hanno segnalato forniture inadeguate di attrezzature fondamentali come ventilatori, macchine per emodialisi, dispositivi di protezione individuale e dispositivi di decontaminazione”. A marzo la prestigiosa rivista scientifica Lancet pubblica un articolo che, come si evince già dall’attacco, sembra più un pezzo di denuncia che una riflessione accademica. Il titolo, in questo senso, è ancora più emblematico: ”Il diritto medico alla riparazione, il diritto di salvare vite umane”.
Anche in Italia, come sappiamo bene, la mancanza di adeguati strumenti ospedalieri si è riversata sugli incolpevoli pazienti. Come ricorda ancora Lancet, “il Covid ha costretto gli ospedali a utilizzare ventilatori immagazzinati da molti anni, compresi alcuni che erano stati precedentemente disattivati”. Col risultato che molte di queste apparecchiature non funzionavano. Lancet sottolinea poi “il rifiuto di lunga data da parte dei produttori di fornire informazioni per la riparazione di apparecchiature mediche. Per anni, i produttori hanno ridotto la capacità degli ospedali di riparare e mantenere in modo indipendente le apparecchiature mediche impedendo l’accesso alla conoscenza, al software, agli strumenti e ai componenti necessari”.
Di fronte le ben note esigenze di business delle aziende, la pandemia ci ha messo però di fronte con le spalle al muro. La soluzione esiste già da tempo, ed è il diritto alla riparazione.
Leggi anche: Che succede ora che il diritto alla riparazione è realtà? Il parere dei parlamentari
La richiesta dagli Usa
A distanza di qualche giorno dalla pubblicazione su Lancet, il sito di informazione statunitense Bloomberg pubblica un altro interessante articolo in cui il right to repair viene invocato dalle stesse strutture ospedaliere. Nell’aprile 2020, durante la prima ondata di ricoveri per Covid-19, gli ospedali della California hanno affrontato “la triste possibilità di tornare a interventi chirurgici a mani e bisturi in attesa di un aggiornamento critico del dispositivo da parte di un produttore, anche se il personale interno era in grado di riparare il problema”. Un paradosso che rende sempre più evidente la necessità di correre ai ripari.
Ma d’altra parte, come si legge sempre nello stesso articolo, “un progetto di legge che avanza nella legislatura della California lo renderebbe possibile: sponsorizzato dal California Public Interest Research Group e supportato dalla California Hospital Association, tra gli altri gruppi, richiederebbe ai produttori medici di pubblicare manuali e rendere le parti e la formazione accessibili agli ospedali e a terzi fornitori di riparazioni di parti. Se dovesse passare, sarebbe la prima legge approvata da un legislatore statale in quasi un decennio per promuovere quello che è noto come il diritto alla riparazione, una questione più ampia di protezione dei consumatori che tocca molti dei dispositivi sempre più complicati che alimentano la vita del 21esimo secolo”.
Come abbiamo già raccontato, negli Usa il diritto alla riparazione è una pratica sempre più diffusa in tanti diversi ambiti. Così come numerose sono le iniziative di sensibilizzazione. Mai, però, si era vista la mobilitazione in tal senso di dottori e infermieri. Una novità che è segno dei tempi e che dà ulteriore slancio al movimento del right to repair.
Leggi anche: lo Speciale “Riparare? Allunga la vita (ai prodotti) e ridisegna il sistema”
Qual è la situazione in Europa?
Sul diritto alla riparazione il vecchio Continente è forse in uno stato più avanzato rispetto agli Stati Uniti. Dall’1 marzo, ad esempio, il diritto alla riparazione è diventato ufficialmente realtà: la Commissione europea ha infatti approvato il regolamento UE 2021/341 con il quale, accogliendo le istanze presentate nei mesi scorsi dal Parlamento, ha istituito le modalità attraverso le quali intende contrastare l’obsolescenza programmata e supportare l’economia circolare ed ecosostenibile.
Il Regolamento comunitario obbliga i produttori a rispettare determinati criteri di progettazione e realizzazione, in modo da renderli facili da riparare anche al di fuori dei circuiti ufficiali, e a mettere a disposizione dei tecnici professionisti una serie di componenti essenziali degli elettrodomestici prodotti per almeno 7-10 anni dall’immissione sul mercato dell’ultima unità di un modello. L’obiettivo è quello di allungare il ciclo di vita degli elettrodomestici, aumentandone le possibilità di riparazione, andando di conseguenza a ridurre l’impatto ambientale dei rifiuti elettronici ed elettrici (più noti come Raee).
Peccato che le nuove norme si applicano al momento soltanto su lavatrici, lavastoviglie; frigoriferi e schermi, compresi i televisori. Se a far discutere di più è stata l’esclusione di smartphone e computer portatili – facile immaginare il motivo, visti gli enormi interesse in gioco e le relative pressioni – a noi preme far notare come siano esclusi pure beni di pubblica utilità come le apparecchiature elettromedicali. Una carenza che andrebbe colmata in tempi rapidi.
Leggi anche: Etichetta ambientale, dall’obbligo alla sospensione: lo stato dell’arte in Italia
E in Italia?
Come ricorderanno i lettori più affezionati, a EconomiaCircolare.com ci siamo occupati del progetto Mdre – Medical Device Regeneration, volto al recupero per il riutilizzo, di ricambi da apparecchiature elettromedicali inutilizzate o dismesse – che dall’anno scorso è stato portato avanti dall’azienda bolognese Dismeco srl, insieme a Zero Waste Italy. Da una parte dunque un’azienda come Dismeco, premiata da Confindustria nel 2019 nell’ambito del concorso come Best Performer dell’economia circolare, che gestisce un innovativo impianto industriale di recupero Raee a Marzabotto; dall’altra l’associazione no-profit Zero waste Italy, presieduta da Rossano Ercolini, insignito del Goldman Environmental Prize nel 2013 (una sorta di premio Nobel per l’ambiente, ndr), e che promuove le buone pratiche di riduzione, riparazione e recupero di prodotti e materiali.
Le due realtà avrebbero voluto, durante la crisi pandemica che abbiamo vissuto, intercettare le apparecchiature non in funzione o dismesse e ricavarne ricambi utili, da smontare, sanificare e usare presso le strutture sanitarie che ne hanno bisogno. All’iniziativa avrebbe collaborato anche il Dipartimento di Ingegneria Civile, Chimica, Ambientale e dei Materiali dell’Università di Bologna, con lo scopo di sensibilizzare ed attivare una rete di collaborazione tra i soggetti potenzialmente coinvolgibili (ministero della Sanità, assessorati regionali alla salute, Croce Rossa, case costruttrici, Asl, ospedali).
A dicembre 2020 però Claudio Tedeschi, amministratore delegato di Dismeco, ci aveva confidato con parecchio rammarico di non aver ricevuto risposte né dalle istituzioni né dalle strutture ospedaliere. A febbraio Ercolini, nel corso di un’audizione alla Commissione Ambiente in merito alla discussione sul Pnrr, aveva nuovamente illustrato il progetto al Parlamento. Poi più nulla. A quanto apre l’ostilità dei produttori, e anche dei vari uffici acquisti delle strutture ospedaliere, impedisce il decollo del progetto.
È vero che Mdre è in una fase sperimentale, che ha bisogno dei suoi tempi. Però il Covid ha dimostrato di essere molto più rapido degli interessi particolari e delle burocrazie ottuse.
© Riproduzione riservata