“La crescita economica è strettamente legata all’aumento della produzione, del consumo e dell’uso delle risorse e ha effetti dannosi sull’ambiente naturale e sulla salute umana”. Insomma la crescita economica fanno male al Pianeta. Potremmo con successo iniziare il gioco “indovina chi l’ha detto”: non un’associazione terzomondista, non un sostenitore della decrescita né una Ong ambientalista. Lo ha scritto invece un’agenzia dell’Unione europea: l’Agenzia europea per l’ambiente (EEA – European Environmet Agency). Che continua: “È improbabile che su scala globale si possa ottenere un disaccoppiamento assoluto e duraturo della crescita economica dalle pressioni e dagli impatti ambientali; pertanto, le società devono ripensare a cosa si intende per crescita e progresso e al loro significato per la sostenibilità globale”. Queste poche frasi, pubblicate nel documento “Growth without economic growth” (Crescita senza crescita economica) dell’11 gennaio 2021 (ultima modifica 12 novembre scorso) mettono in discussione non solo il totem della crescita economica senza limiti e la ricerca affannosa dell’aumento del Pil, ma anche quello del disaccoppiamento tra la crescita e la sua impronta ambientale, e quindi l’ipotesi e l’obiettivo di una crescita (o sviluppo) sostenibile.
Per quanto possiamo forse essere osservatori distratti, ci sembra che affermazioni del genere da parte di un’emanazione dell’Unione europea siano una novità dirompente. Che entra a pieno titolo in un dibattito, fin qui generalmente sotto traccia, sul paradosso tossico della crescita senza limiti dell’economia e del Pil. Un paradosso che la crisi climatica ha contribuito a portare in superficie: basti ricordare il discorso del nobel Giorgio Parisi alle Camere prima della Cop26 di Glasgow.
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La tecnologia non basta
L’Agenzia critica anche anche un altro luogo comune – tanto caro, tra gli altri – al nostro ministro della transizione ecologica -: “Il Green Deal europeo e altre iniziative politiche per un futuro sostenibile richiedono non solo cambiamenti tecnologici, ma anche cambiamenti nei consumi e nelle pratiche sociali”. Non basterà la tecnologia se non cambiamo (in meglio dal punto di vista ambientale – e, chissà, forse non solo ambientale) le nostre vite, il modo in cui consumiamo, quello in cui cerchiamo la pienezza.
Il report dell’Agenzia – tra una citazione da L’Economia della ciambella di Kate Raworth, una di dal Capitale del XXI secolo di Thomas Piketty, a un riferimento allo stile di vita degli amish – “presenta prospettive alternative sulla crescita economica e sul progresso umano”. Esplora le idee che mettono in discussione gli assunti economici e sociali dell’economia neoliberista proponendo delle alternative.
E lo fa “in un momento cruciale per l’UE”, non solo per la risposta alla pandemia, ma anche per il rafforzamento degli obiettivi ambientali: “Il mantenimento di questa posizione – leggiamo – non deve dipendere dalla crescita economica”.
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La chimera del disaccoppiamento
Il disaccoppiamento globale tra crescita economica e consumo di risorse “non sta accadendo”, taglia netto l’Agenzia: “A livello globale, la crescita non è stata disaccoppiata dal consumo di risorse e dalle pressioni ambientali ed è improbabile che lo sarà”. L’impatto sull’ambiente di consumi e crescita economica non si sta alleggerendo, come ipotizzato confidando sulla tecnologia e l’efficienza che quest’ultima avrebbe col tempo garantito. Ed è sempre meno probabile che ciò accada, visto l’aumento della popolazione mondiale, quello dei consumi della classe media (che fortunatamente annovera tra le sue fila un numero crescente di persone), la diffusione sempre più capillare delle nuove tecnologie (le quali, a differenza dei discorsi della prima ora sulla dematerializzazione, sono ben concrete e materiali).
Le stesse fondamenta teoriche del disaccoppiamento son messe in dubbio dall’EEA: “I dibattiti scientifici sulla possibilità del disaccoppiamento risalgono al XIX secolo e non c’è ancora consenso”. Se alcuni passi in avanti sono stati fatti in Europa, spiega ad esempio il report, spesso dipendono dalla delocalizzazione di attività più energivore e affamate di materie prima.
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Basterà l’economia circolare?
Se la crescita economica non può essere disaccoppiata dal prelievo di materia e dall’erosione del capitale naturale, si chiede allora l’Agenzia, sarà sufficiente allungare la vita delle risorse all’interno dei cicli economici? Insomma, l’economia circolare sarà in grado di ridurre l’impronta ambientali della crescita economica? L’agenzia è convinta del contrario, se non cambieranno le sottese dinamiche economiche: “L’economia circolare potrebbe non fornire la trasformazione verso la sostenibilità se le misure di circolarità alimentano una strategia di crescita che porta a un aumento del consumo di materiali”.
Nel complesso dell’economia europea, riferisce l’EEA, solo il 12% circa del materiale in ingresso viene riciclato (Eurostat, 2020 su dati 2019). Questo a causa del grande consumo di fossili, che ovviamente non possono essere riciclati, e di materiali da costruzione, che rientrano nei cicli economici solo dopo molti anni.
Le altre scuole di pensiero
Lo stesso pensiero economico nutre e ha nutrito dubbi sul dogma della crescita senza limite (come sul Pil e sulla pretesa che l’economia sia una scienza esatta). Ma sono dubbi rimasti in un angolo rispetto all’idea che l’economia ha dato di sé all’esterno dei confini dell’accademia e degli addetti ai lavori, soprattutto sono dubbi che non hanno avuto effetti percepibili là dove si decide. Dall’economista svizzero Jean Sismondi, che all’inizio del ‘900 cercò di definire un novo approccio all’economia politica che avesse come obiettivo il benessere dell’umanità e non l’accumulo di ricchezza, al famoso saggio The economics of the coming Spaceship Earth di Kenneth Boulding (1966) che opponeva all’economia da rapina del cowboy quella di chi vive in una capsula spaziale autosufficiente, fino ad Amartya Sen e alla sue critiche all’idea neoliberista di sviluppo, esiste un pensiero economico alternativo a quello dell’imperativo della crescita. ”Gli ultimi decenni – scrive l’EEA – hanno visto una serie di iniziative per ripensare l’economia (incluso il movimento con questo nome, Rethinking Economics) e sviluppare prospettive teoriche che uniscano l’attenzione ai bisogni legittimi dell’attuale popolazione umana con la necessità di una trasformazione verso un futuro sostenibile”.
L’agenzia europea cita quattro principali scuole alternative. La decrescita, “un termine generico per i movimenti accademici, politici e sociali più radicali che enfatizzano la necessità di ridurre la produzione e il consumo e definiscono obiettivi diversi dalla crescita economica”. La post-crescita dei movimenti angostici rispetto alla crescita. La Green growth, la ‘crescita verde’, “basata sul pensiero ecomodernista che investe le sue speranze nel progresso scientifico e tecnologico (es. ecodesign, green innovation) orientato alla sostenibilità”. E l’economia della ciambella (dal titolo de citato volume di Kate Raworth). L’umanità, secondo quest’ultimo modello, deve agire come dentro una ciambella, con limiti inferiori rappresentati dal buco della ciambella (sotto i quali si vive privati di diritti minimi essenziali, come cibo, acqua, alloggio, energia, sanità, istruzione); e limiti superiori, l’esterno della ciambella, che rappresenta il tetto ecologico (oggi abbondantemente superato) oltre il quale la pressione dell’uomo danneggia l’ambiente e l’ecosistema.
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Non crescita e consumi ma progresso sociale
Dunque, la sfida nei prossimi anni, così l’EEA chiude il paper Growth without economic growth, “sarà quella di portare queste intuizioni nei processi politici tradizionali e considerare come possono essere efficacemente operative a sostegno degli obiettivi di sostenibilità dell’Europa”. Una sfida non impossibile, se è vero che (almeno a parole, verrebbe da aggiungere) il patrimonio culturale e identitario europeo “è molto più ricco del consumo materiale. I valori fondamentali dell’UE sono la dignità umana, la libertà, la democrazia, l’uguaglianza e lo stato di diritto, e non possono essere ridotti o sostituiti da un aumento del Pil”. Si tratterà allora di “innovare stili di vita, comunità e società che consumano meno eppure sono attraenti per tutti”. Ciò a cui puntare non dovrebbe essere raggranellare decimali di Pil ma “ripensare e riformulare la nozione di progresso in termini più ampi rispetto al consumo”.
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La via europea: la crescita verde
In un documento più recente (Reflecting on green growth), l’Agenzia europea chiarisce, alla luce di queste riflessioni, qual è la strada intrapresa dall’Europa. “Il Green Deal europeo (EDG) fornisce una risposta chiara a questo problema, fondata sulla logica della crescita verde (Green growth)”. Un atteggiamento, spiega l’EEA, “fortemente pro-crescita” che servirà a fornire le basi per sostenere i livelli di occupazione e garantire le risorse necessarie per aumentare il benessere pubblico, promuovere la coesione sociale e fare gli investimenti necessari, anche quelli per la transizione ecologica, “per adeguare entro limiti ambientali la crescita economica, trasformando la produzione e consumo in modo da conciliare l’aumento del PIL con limiti ambientali”. Senza crescita del Pil, riflette l’Agenzia, il sistema andrebbe in crisi: dal welfare alla stabilità sociale alla formazione e all’innovazione, tutto oggi dipende dalla crescita dell’economia.
Un passo indietro, dunque, rispetto alla prospettiva più ricca di possibilità offerta con “Growth without economic growth”? In parte sì, ma le strade alternative non vengono sbarrate: “Cercando di estendere e sviluppare il Green Ddal, ci sarebbe vantaggi anche nell’esplorare modi per rendere le società europee meno dipendente dalla crescita economica”.
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