Il 2021 ha segnato numerosi traguardi nella lotta ai cambiamenti climatici e nella promozione di modelli di sviluppo etici e sostenibili. A settembre, a Roma, si discuteva di come ridurre le pressioni socio-ambientali della filiera del cibo. Era il primo vertice delle Nazioni Unite sui sistemi alimentari. Di lì a poco, a Glasgow, i potenti del mondo riuniti nella Cop26 definivano nuove linee operative volte al raggiungimento degli obiettivi di mitigazione climatica fissati con gli accordi di Parigi nel 2015.
Le preoccupazioni ambientali (biodiversità, inquinamento e clima) e sociali (diseguaglianze) sono entrate nel dibattito economico e nell’agenda dei decisori, ma ancora troppo timidamente e di sicuro in maniera non ancora consona. Servono nuovi modelli economici, capaci di definire parametri di sviluppo chiari, che offrano sicurezza sociale e protezione dell’ambiente, oltre che la corretta rigenerazione delle risorse naturali e la loro equa distribuzione.
In tal senso, il modello di economia della ciambella sviluppato dall’economista inglese Kate Raworth riporta le questioni ambientali e sociali al centro dello sviluppo, ponendo le basi per un approccio coeso per un’economia capace di ridistribuire e rigenerare ricchezza. Con l’economia della ciambella Kate Raworth offre una bussola che ci guida verso un posto sicuro dove operare la nostra economia e dove costruire una società nuova, attenta ai diritti umani e alle esigenze del pianeta.
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Da Oxfam al mondo, passando per le Nazioni Unite
“Le generazioni future ci ricorderanno per questa immagine e per l’essere stati o meno capaci di allinearci ad essa” ha detto Raworth durante una delle tante conferenze volte a divulgare la sua concezione di economia sostenibile.
L’immagine a cui si riferisce l’economista inglese, che ricorda per l’appunto una ciambella, mostra due cerchi che combinano i concetti di limiti planetari – descritti per la prima volta da Johan Rockström e dal suo team nel 2009 – con quelli dei limiti sociali e diritti umani. Tra i due, uno spazio sicuro e giusto all’interno del quale operare la nostra economia in maniera sostenibile.
Nel 2012 Kate Raworth era ricercatrice presso Oxfam, famosa organizzazione senza scopo di lucro che si batte contro le ineguaglianze e la povertà. In quell’anno, con un documento di discussione intitolato A Safe and Just Space for Humanity, il modello dell’economia della ciambella veniva presentato al mondo. Nel 2015 tale modello accompagnava i negoziati delle Nazioni Unite sull’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile da cui sarebbero nati gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile.
Ma fu solo nel 2017, con il libro L’economia della ciambella. Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo (Edizioni Ambiente) che Kate Raworth espose ad accademici, politici e cittadini la sua visione di sviluppo sostenibile. Scrive nel libro: “Al di sotto del cerchio interno – la base sociale – si trovano privazioni critiche per l’umanità, come la fame e l’analfabetismo. Oltre il cerchio esterno – il tetto ecologico – si trova il degrado ambientale, per esempio i cambiamenti climatici e la perdita della biodiversità. Tra i due cerchi si trova la ciambella, lo spazio entro il quale possiamo soddisfare i bisogni di tutti rispettando i limiti del pianeta”.
Il libro ha avuto il merito di portare il dibattito sullo sviluppo sostenibile fuori dagli uffici ministeriali e dalle organizzazioni di ricerca, alimentando una letteratura che prende le distanze dalle concezioni classiche di sviluppo e di crescita indiscriminata.
Ma cosa significa operare l’economia della ciambella?
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Distaccarsi dalla concezione classica di benessere
Kate Raworth si domanda: da che cosa dipende il nostro benessere? Per l’economia classica l’uomo (homo economicus) è un’entità razionale che determina il proprio benessere sulla base dell’utilità, commisurata all’ammontare di denaro che è disposto a pagare per beni e servizi. Ma cosa si può dire dell’istruzione, dell’accesso al cibo e all’acqua, delle disuguaglianze sociali e della povertà? E ancora, non è forse l’ambiente, sociale e naturale, che ci circonda, a determinare buona parte del nostro benessere? “Disponiamo ormai – scrive la ricercatrice e divulgatrice – della certezza scientifica che il sistema economico sin qui perseguito è in chiaro conflitto con la realtà biofisica dei nostri sistemi naturali”.
Ad oggi, il Prodotto interno lordo è ritenuto il primo parametro per misurare il benessere e lo sviluppo delle nazioni. Ma come ha ribadito Jean-Paul Fitussi intervistato da EconomiaCircolare.com, il PIL è una misura imperfetta, e non può cogliere a pieno il benessere delle persone. Tale indicatore non concepisce infatti le esternalità negative provocate dall’attività economica sull’ambiente e sulle persone, rivelandosi sterile e poco lungimirante. Basare il nostro sviluppo sulla crescita del PIL non fa altro che precludere la finalizzazione di un vero sviluppo sostenibile.
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La critica al Pil e alla crescita
“Per oltre 60 anni – scrive Raworth nel suo volume – il pensiero economico ci ha raccontato che la crescita del Oil sarebbe stato un indicatore sufficientemente affidabile del progresso, e che aveva l’aspetto di una linea in perenne salita”. Ma “a questo punto della storia dell’umanità, il movimento che meglio descrive il progresso di cui abbiamo bisogno è un equilibrio dinamico all’interno dei confini sicuri ed equi della ciambella”.
L’economista si colloca in un filone di pensiero (tra cui lo stesso ‘ideatore’ del Pil, Simon Kuznets) che critica il ruolo assegnato al Pil e la ricerca ossessiva della crescita economica al netto di quanto questo comporti per la società: “Nessun Paese ha mai messo fine alla miseria grazie a un’economia in crescita. Né, grazie ad essa, ha mai messo fine al degrado ambientale”.
Riprendendo le parole filosofo, economista e antropologo francese Serge Latouche, seguendo l’approccio della crescita senza fine sembra che l’umanità si stia dirigendo verso una direzione ignota, sull’onda della crescita incessante, con il rischio di “fracassarsi contro i limiti del pianeta”. Se a ciò aggiungiamo i limiti sociali, la situazione non può che diventare critica.
Secondo il modello della ciambella, il benessere non è altro che una condizione determinata dalla capacità di garantire diritti e condizioni umane fondamentali – il cerchio inferiore – senza danneggiare in maniera irrimediabile l’ambiente – il cerchio superiore. La ciambella, quello spazio tra i confini umani e naturali è il parametro per il benessere umano.
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Ma come si raggiunge lo spazio sicuro?
Secondo Raworth dobbiamo ripensare la nostra economia, non cercando quella corretta che, come fa notare nel suo libro, non esiste. Ma piuttosto scegliendo o realizzando quella che maggiormente serva uno scopo in linea con il contesto, i valori e gli obiettivi del nostro tempo. Questa certezza porta l’autrice a immaginare “economie che siano agnostiche rispetto alla crescita”, cioè “promuovano la prosperità umana che il Pil salga, scenda o rimanga stabile”.
Oltre al distacco dal PIL, Kate Raworth fa notare come sia necessario discostarsi da altre concezioni classiche dell’economia, tra cui l’estraneità all’ambiente naturale, la razionalità e l’equilibrio statico tra domanda e offerta.
Ma per attuare tali cambiamenti, i fattori in gioco sono molteplici. Riconoscerli è di fondamentale importanza per comprendere come raggiungere e come convivere con quello stato sicuro ricreato dalla ciambella. Kate Raworth ne identifica cinque fondamentali: l’aumento della popolazione, la (re)distribuzione delle risorse, l’aspirazione, la tecnologia e la governance.
Guardando attraverso le lenti dell’economia della ciambella, solo sradicando i soprusi e la povertà è possibile stabilizzare la popolazione e interrompere un trend di crescita demografica inarrestabile. Ma per fare ciò, le risorse devono essere necessariamente ripartite in maniera equa e solidale nel mondo. Questo, oltre a garantire condizioni sociali stabili, è anche l’unico modo per assicurare una gestione efficace delle risorse naturali in linea con i limiti planetari. In ciò, la tecnologia gioca un ruolo determinante.
Infine, è fondamentale che i cittadini del mondo maturino aspirazioni diverse da quelle attuali. La classe media non può più perseguire la ricchezza fine a se stessa, deve riconoscere i valori prescritti dai limiti sociali e ambientali e deve supportare forme governative nuove e delocalizzate.
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Qual è il ruolo dell’economia circolare?
Concepire in maniera circolare, rigenerativa, non può che essere un elemento fondamentale per garantire un utilizzo equo e giusto delle risorse. Così, l’economia circolare è parte integrante del cambiamento che richiede l’economia della ciambella.
Ma Raworth avverte: non dobbiamo concepire la circolarità in maniera individuale. Gli sforzi delle aziende devono essere volti a creare sinergie tra settori, geografie e persone. I processi di produzione, così come i prodotti, devono essere rigenerativi per natura e puntare a rimuovere quegli sprechi di energie e risorse indotti dai modelli lineari.
“Gli economisti del XXI secolo dovranno trasformare le economie – da quelle locali a quella globale – per renderle distributive e rigenerative per principio”, scrive. Critica anche l’idea di neutralità: “Il prossimo salto di qualità consisterà nell’andare oltre il semplice ‘non fare danni’ per arrivare a una progettazione generosa e premiante”. Un approccio che sembra la risposta anticipata all’ormai famoso principio DNSH (do no significant harm – non fare danni significativi) che la Commissione ha fissato come pietra angolare per i Piani nazionali di resilienza e gli investimenti green.
Infatti, spiega, “la progettazione industriale può ambire a ‘fare molto meglio’ alimentando continuamente, invece che esaurire lentamente, il mondo vivente. Perché limitarsi a non prendere, quando si potrebbe anche dare qualcosa?”
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La sclerosi della formazione
L’inerzia con la quale l’economia si attarda su concetti che molti studiosi hanno ormai demolito è figlia, secondo l’economista britannica, anche della sclerosi della formazione: “Molte delle intuizioni più emozionanti che trainano il nuovo pensiero economico emergono dappertutto tranne che dai dipartimenti di economia” spiega.
E citando Herman Daly fa presente che “gli economisti che rivestono ruoli importanti nella loro vita in ambiti politici, istituzionali, finanziari vengono generalmente formati tutti in una manciata di dipartimenti di economia e imparano tutti quella che egli definisce la stessa ‘teologia economica’”.
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Il ruolo dei singoli
“L’economia è ciò che facciamo, pensiamo e viviamo tutti i giorni” ricorda Kate Raworth. Che si spinge oltre il cosiddetto voto col portafoglio: “Abbiamo tutti una piccola parte in questa evoluzione perché le nostre scelte e le nostre azioni rimodellano continuamente l’economia e non solo attraverso i prodotti che compriamo o non compriamo. La rimodelliamo: spostando i nostri risparmi in banche etiche e usando monte complementari peer-to-peer, includendo uno scopo esistenziale nell’impresa che creiamo, esercitando il nostro diritto ai congedi parentali dal lavoro, contribuendo ai beni comuni della conoscenza, e partecipando alle campagne dei movimenti che condividono la nostra visione economica”.
L’economia della ciambella non vuole essere una lista di regole da seguire in maniera cieca per raggiungere uno stato delle cose migliore. Lo scopo del modello sviluppato dall’economista inglese è quello di guidare l’azione. La ciambella è a tutti gli effetti una bussola a cui economisti, politici e cittadini possono affidarsi per definire un futuro migliore.
La meta è fissata, sta a noi trovare la strada per raggiungerla.
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