È la nostra cultura alimentare che ci aiuta contro lo spreco. Ce lo racconta Luca Falasconi, docente all’Università di Bologna, coordinatore del rapporto Il caso Italia dell’Osservatorio Waste Watcher International, co-fondatore e socio di Last Minute Market, impresa sociale contro lo spreco alimentare.
Professore, secondo i dati dell’Osservatorio Waste Watcher International presentati il mese scorso l’Italia è uno dei Paesi più virtuosi nella riduzione dello spreco alimentare a livello domestico. Quali sono secondo lei le ragioni di questo risultato?
Credo che le ragioni siano principalmente due. La prima è la cultura alimentare che caratterizza il nostro vivere. Da sempre l’Italia è la culla dell’alimentare, e rispetto a chi non vive in Italia, noi conosciamo il cibo e sappiamo cosa c’è dietro la sua produzione: in termini di cultura, tradizioni, materie prime. Questo fa sì che prima di buttare via qualcosa ci si pensi bene. La nostra cultura alimentare contribuisce in modo importante a far sì che si sprechi meno, perché diamo valore al cibo.
La seconda ragione è strettamente connessa al piacere tutto italiano di condividere cibo da consumare insieme, alla convivialità del cibo. Le statistiche, le ultime sono di un paio di anni fa, mettono in evidenza come in molte famiglie in Italia c’è ancora la cultura e la tradizione di mangiare tutti insieme: il pasto, prevalentemente la cena, è un momento di aggregazione. E questo è molto più frequente nelle famiglie italiane rispetto ad altri contesti come quelli europei o nordamericani.
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Se è vero, dunque, che siamo virtuosi, resta il fatto che gettiamo nella pattumiera ancora più di mezzo chilo di cibo ogni settimana. Cosa possiamo fare per alleggerire ancora questo spreco?
Stiamo lavorando per aumentare ancora il livello di cultura alimentare, soprattutto partendo dalle scuole. Anche perché i buoni risultati che abbiamo oggi dobbiamo essere in grado di mantenerli nel tempo, e per farlo è necessario che i futuri adulti (i ragazzi e i bambini di oggi) abbiano la possibilità acquisire queste conoscenze e questa cultura. Per questo dobbiamo lavorare tanto nelle scuole. E lavorando nelle scuole non solo formiamo i futuri adulti ma facciamo in modo che le nuove generazioni portino a casa nuove conoscenze e competenze rispetto a quelle che le famiglie hanno già: quindi aumentiamo la conoscenza e la cultura degli attuali adulti che negli ultimi decenni qualcosa hanno perso.
E sul fronte delle norme?
Nella gerarchia della riduzione dello spreco ci sono vari step. Il primo è la prevenzione, e come le ho detto a nostro avviso la prevenzione si fa con la cultura. E poi c’è il recupero: una volta che il cibo viene gettato, possiamo recuperarlo prima per consumo umano, ma poi anche per consumo animale o per la produzione di bioenergie. Su questi ultimi step l’impianto normativo, le policies, possono e devono intervenire. La legge Gadda contro lo spreco alimentare è stata molto importante ma potrebbe essere migliorata: ha senza dubbio facilitato la donazione per il recupero umano, ma c’è ancora tutta una serie di cavilli e aspetti burocratici che la rendono un po’ troppo macchinosa. Sarebbe quindi necessario semplificare ulteriormente. E poi ci sarebbero ancora spazi per la politica di intervenire agevolando il recupero per tutte le finalità, non solo consumo umano ma anche produzione di mangimi e bionergie.
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Abbiamo parlato di spreco, cioè del cibo che diventa rifiuto nella fase finale del suo cammino. Ma ci sono anche le perdite, il cibo ‘perduto’ nelle fasi iniziali, quelle della produzione e trasformazione. Sul fronte delle perdite il nostro Paese come si comporta?
Premesso che non c’è un quadro di dati completo, per l’Italia come per altri Paesi, stando ai dati che abbiamo a disposizione possiamo affermare che siamo posizionati abbastanza bene anche in questo ambito. A livello agricolo abbiamo un sistema piuttosto efficiente. A livello industriale vale un po’ quello che abbiamo visto per il consumatore: c’è una cultura alimentare abbastanza importante, che fa sì che le materie prime che produciamo e trasformiamo siano mediamente di alta qualità, e quindi vengono trattate in modo più efficiente, riducendo le perdite.
A metà di quest’anno i paesi Ue dovranno inviare alla Commissione i dati nazionali su perdite e sprechi alimentari. L’Italia è pronta?
L’Italia è pronta e siamo in linea con l’Unione europea, almeno con un primo screening. E aggiungo che parte di questi dati abbiamo contribuito anche noi come Università di Bologna a raccoglierli ed elaborarli.
Vero è che c’è ancora tanto da lavorare e migliorare. Ad esempio c’è una certa reticenza da parte delle imprese a partecipare a questo tipo di attività di monitoraggio: condividere questi dati non è entrato nella cultura dell’impresa e in una certa misura vengono considerati ‘dati sensibili’. Sarebbe quindi necessario un intervento della politica – che a mio avviso deve essere propositivo e non punitivo – per cercare di rendere più partecipative le imprese in questo tipo di raccolta di dati.
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Nel rapporto dell’Osservatorio Waste Watcher International evidenziate una sorta di “stanchezza tecnologica”: gli italiani usano poco le nuove tecnologie – app e piattaforme – per tagliare gli sprechi di cibo. Meno di altri Paesi. Come lo spiega?
Come le dicevo, per noi italiani il cibo è importante, lo vogliamo vedere, toccare. L’uso della tecnologia limita un po’ il rapporto diretto con l’acquisto e l’utilizzo del cibo ed elimina parte dell’empatia che volgiamo instaurare col nostro cibo. Questo è uno degli elementi che sicuramente influiscono. Oltre al fatto che – anche a causa della pandemia, dello smart working, dell’aumento degli acquisti digitali – siamo stanchi di usare queste tecnologie tutti i giorni sempre e comunque. Un aspetto che probabilmente sarà temporaneo: nei prossimi mesi o anni, superando in parte la vicenda del covid, l’utilizzo delle piattaforme per limitare lo spreco sicuramente aumenterà.
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