Nel mondo del tessile, e in particolare del fashion, l’aumento di consapevolezza dei danni ambientali causati dai materiali sintetici ha portato alla riscoperta delle fibre naturali e rinnovabili. Secondo un articolo scientifico del Journal of Materials Research and Technology, l’utilizzo di queste fibre aiuterebbe a mitigare i problemi di inquinamento, di gestione dei i rifiuti, e la quantità di emissioni di gas a effetto serra.
Imprenditori e ricercatori di tutto il mondo quindi stanno guardando con molto interesse lo sviluppo di tessuti naturali che possano sostituire quelli sintetici. Bambù, ortica, canapa, lana, seta e ananas sono alcune delle fibre rinnovabili e facilmente reperibili in natura; sono più convenienti rispetto alle fibre sintetiche, spesso meno impattanti e non causano irritazione alla pelle. Ecco perché negli ultimi anni c’è stato un aumento della domanda di compositi a base di fibre naturali per uso commerciale, soprattutto nel fashion.
La canapa e la sua demonizzazione
Per rendere più sostenibile e circolare un modello di business o una filiera, spesso non bisogna inventarsi nulla di nuovo, basta riscoprire le usanze e le tecniche adottate da coloro che sono venuti prima di noi. Una delle fibre riscoperte, dalla storia antica e controversa, è quella della canapa. Chiamata tecnicamente cannabis sativa, la pianta è in Italia da almeno 13.500 anni, cresce 50 volte più veloce del legno, assorbe e trattiene molta umidità; e non necessita di molta acqua.
In campo farmaceutico le sue applicazioni erano vastissime già agli inizi del ‘900 e la sua fibra, durevole e resistente, veniva tradizionalmente coltivata accanto al lino per produrre fibre di alta qualità per farne cime, vele, vestiti o anche carta. Ma subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, con la progressiva industrializzazione del Paese, cominciarono ad essere importate fibre sintetiche e la sua produzione subì un primo declino. Al suo tramonto però contribuì anche un fattore culturale. Appartenendo alla famiglia delle piante cannabacee, da cui derivano anche le foglie di marijuana, l’immagine della canapa ha sempre vissuto lo stigma di essere accumunata all’erba che si fuma. In realtà, dal momento che contiene quantità di THC inferiori allo 0,2%, non ha alcun effetto psicotropo e stupefacente. Il definitivo colpo di grazia arrivò nel 1961, quando il governo italiano sottoscrisse una convenzione internazionale chiamata “Convenzione Unica sulle Sostanze Stupefacenti”, secondo cui la canapa sarebbe dovuta sparire dal mondo entro 25 anni.
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La produzione di canapa in Italia, tra ostacoli normativi e mancanza di competenze
Coltivare canapa diventa un business redditizio se tutte le sue componenti poi possono essere lavorate e commercializzate. Il canapulo, il nucleo interno legnoso della pianta, è usato come materiale edile, la farina e gli oli di canapa hanno buon mercato nell’alimentare e i fiori e le foglie vengono utilizzate nei prodotti farmaceutici e di cosmesi.
Da questo punto di vista le norme in Italia ne rallentano la circolarità. Un esempio è la produzione a scopo industriale di foglie e infiorescenze o di sostanze attive a uso medicinale (come il CBD) con THC al di sotto della soglia consentita. L’ultimo provvedimento del MIPAAF fa riferimento alla canapa con una pretesa distinzione tra semi e derivati, e fiori e foglie, la cui produzione industriale – secondo un decreto del 1990 – sarebbe vietata senza l’autorizzazione del Ministero della Salute. “In Italia lo stigma verso la canapa esiste soprattutto dal punto di vista normativo – spiega il presidente di Federcanapa Beppe Croce – questo non attrae certo gli investimenti. Nel 2018 l’Italia stava salendo tra i primi posti nella produzione di canapa industriale a livello europeo (circa 4mila ettari), poi la situazione è peggiorata negli ultimi anni”.
In ottica tessile, a differenza del cotone che durante il periodo della crescita ha bisogno mediamente di 5.000 litri al chilogrammo, la canapa non richiede irrigazione aggiuntiva. Oltre a essere biodegradabile, una tonnellata di canapa è in grado di stoccare 1,6 di tonnellate di C02. “Oggi la produzione di filati di canapa arriva per il 90% dei casi dalla Cina – commenta Croce – il ritardo italiano è dovuto all’inesistente sviluppo di sistemi di prima trasformazione degli steli di canapa”. La fibra si ricava con dei procedimenti che permettono di separare la fibra dalla parte legnosa dello stelo, sia la fibra che il canapulo oggi hanno un mercato parecchio in crescita. Beppe Croce ci dice che però mancano soggetti trasformatori che facciano da intermediari tra il coltivatore e l’azienda che compra il filato di canapa.
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Una mancanza di competenze la sottolinea invece Mauro Vismara, che con Maeko Tessuti & Filati Naturali è stato uno dei primi imprenditori a credere nel potenziale della canapa. “In giro per l’Italia ci sono associazione di coltivatori che però poi non hanno competenza ed esperienza nel filare – spiega Vismara- mi sono dovuto comprare una macchina per filare perché in Italia non c’è nessuno che lo fa con una certa qualità. È complesso trattare queste fibre: si modificano le macchine in base all’esigenze di umidità, acqua e altri variabili”. La fibra di Canapa ha una struttura molecolare molti simile alla lana: mantiene il tuo microclima corporeo e per l’abbigliamento (specie quello sportivo) è un materiale dalla grande traspirabilità”. Il tessuto è abbastanza resistente all’azione meccanica, all’usura, agli strappi ed alle deformazioni, quindi durevole nel tempo. “Una volta finito il ciclo vita del capo le fibre sono riciclabili – aggiunge Vismara – e per noi imprenditori è un vantaggio perché i costi di smaltimento degli scarti sono importanti. Il problema è però che la rifilatura fa perdere di qualità le fibre, che durante il riciclo si accorciano”.
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