Se è ancora vero che le parole sono importanti, allora bisogna esaminare il caso del GNL, il Gas Naturale Liquefatto. La scelta di chiamare questo tipo di gas “naturale” è già ambigua, perché anche il carbone e il petrolio – tutti e tre combustibili fossili – sono naturali. Aggiungere la parola naturale al gas è dunque un trucchetto semantico per far apparire il gas come più sostenibile. Che poi in fondo è il ritornello più usato da governi e imprese: il gas è il meno impattante dei combustibili fossili e serve da ponte per la transizione alle energie rinnovabili.
Ma è davvero così? A pochi giorni dalla Cop29 di Baku una ricerca scientifica rovescia questo assunto mostrando, dati alla mano, come l’impronta di emissioni di gas serra del GNL è più grande di ogni altra fonte fossile, persino del carbone, che di solito viene considerato il peggiore tra i combustibili fossili. La ricerca è stata condotta da Robert Howarth, ecologo e scienziato dei sistemi terrestri della Cornell University, ed è stata recentemente pubblicata sulla rivista scientifica Energy Science & Engineering.
I risultati della ricerca mostrano dunque che la strada scelta dall’Unione Europea nel 2022 per sostituire il gas russo, cioè diversificare le forniture per non dipendere da un unico Stato e rivolgersi al mercato del GNL, dal punto di vista climatico è tra le peggiori che si potessero perseguire, in quel che era subito apparsa una retromarcia rispetto agli ambiziosi obiettivi del Green Deal.
Con tale prospettiva l’appuntamento della Conferenza Annuale sui cambiamenti climatici, che si terrà dall’11 al 24 novembre in uno degli Stati, l’Azerbaijan, che più rifornisce l’Italia di gas (tramite i vecchi gasdotti e le nuove navi cariche di GNL), diventa ancora più cruciale. Sarà la vittoria della real politik o il rilancio dell’ambizione verso una reale transizione che abbandoni la strada del GNL?
Leggi anche: D’Artagnan, Callisto, Porthos e Aramis : Eni si spartisce il mercato della CO₂ con le sorelle europee
Non solo CO₂ : tutti i danni del GNL statunitense
La ricerca di Howarth si concentra sul GNL statunitense, semplicemente perché gli Stati Uniti dal 2016, anno in cui hanno scelto di revocare il divieto di trasportare il gas liquefatto via nave, sono diventati nel giro di una manciata di anni il maggior esportatore al mondo. Come ricorda la ricerca il GNL statunitense è ottenuto attraverso la discussa tecnica del fracking, cioè la frantumazione idraulica delle rocce di sisto, che la stessa Unione Europea giudica ambientalmente pessima. “La produzione di gas di scisto, così come la liquefazione per il trasporto di GNL e l’uso del GNL da parte delle petroliere – si legge nella ricerca – è ad alta intensità energetica, che contribuisce in modo significativo all’impronta di gas serra. La produzione e il trasporto di gas di scisto emettono anche una notevole quantità di metano e il trasporto da parte delle petroliere alimentate col GNL può aumentare ulteriormente le emissioni di metano”.
In sostanza, secondo i calcoli di Howarth, nell’intera filiera della sua estrazione e del suo utilizzo il GNL impatta sul clima il 33% più del carbone. Il ragionamento centrale della ricerca non si limita a tener conto della CO₂ ma aggiunge il calcolo delle emissioni di metano, ritenuto fino a 80 volte più climalterante dell’anidride carbonica, ed esclude altri gas serra, come il protossido di azoto, che incidono molto poco nel sistema di emissioni del gas e del GNL. D’altra parte, come ricorda lo stesso Howarth, “una notevole quantità di energia è necessaria per liquefare il metano nel GNL, e questa energia è fornita dalla combustione di gas. Cioè, il gas è sia la fonte di alimentazione che la fonte di energia utilizzata per produrre GNL”. Inoltre va considerato che “le emissioni di anidride carbonica durante il trasporto di GNL provengono in gran parte dalla combustione del combustibile che alimenta le petroliere e le relative attrezzature a bordo delle navi, come i generatori. Le emissioni di metano provengono in gran parte dalla combustione incompleta del carburante da parte di autocisterne a quattro cicli e autocisterne a due cicli, con rilascio di metano incombusto nei gas di scarico”. Col risultato che “il processo di liquefazione è un’importante fonte di emissioni sia di anidride carbonica che di metano, che riflette la grande quantità di energia necessaria per raffreddare il metano per forma liquida e il rilascio di metano incombusto negli impianti di liquefazione “.
Come ricorda il giornalista ambientale Ferdinando Cotugno nella newsletter Areale, “le stime sulle emissioni di metano del settore sono spesso basate sui numeri forniti dall’industria stessa, una sorta di autocertificazione climatica che negli anni si è rivelata sempre più fallace. Secondo un rapporto dell’Agenzia internazionale dell’energia del 2023, questi numeri sono sottostimati del 70% rispetto alla realtà. Di recente sono arrivate una serie di misurazioni indipendenti della società civile, soprattutto grazie ai satelliti, che hanno permesso di rettificare i calcoli e rilevare la realtà del metano: più impattante, più diffuso e più pericoloso di quello che pensavamo. Infine, c’è un tema filosofico alla base delle ricerche di Howarth sul gas: ha più senso calcolare l’impatto climatico da valutare sui cento anni o sulla scala dei vent’anni? La prima strada è come tendenzialmente facciamo oggi, privilegiando l’impatto della CO₂ (che dura di più in atmosfera), proiettandoci sugli effetti a lunghissimo termine. Queste ricerche invece ci permettono di spostare il focus sul breve termine, lì dove gli eventuali impatti positivi delle nostre scelte energetiche possono essere visti già entro i prossimi vent’anni”.
Un orizzonte più immediato a cui è sempre più vitale guardare, come insegnano gli eventi meteorologici estremi che sempre più flagellano l’Europa e l’Italia.
Leggi anche: La nuova frontiera dell’industria fossile non è una soluzione sostenibile
Tutto il GNL di cui abbiamo (o no?) bisogno
Nel nome del GNL l’Italia si è dotata di due nuove infrastrutture energetiche, molto discusse: la nave rigassificatrice di Piombino, attiva dal 2023, e quella di Ravenna, che sarà attiva dal 2025, mentre di altre analoghe strutture si discute a Porto Empedocle (Sicilia) e Gioia Tauro (Calabria). Più in generale il nostro Paese è quello che più di tutti in Europa si è contraddistinto per l’affidamento massiccio al GNL: un combustibile che, a fronte della sua facilità di accesso, si è rivelato non solo il più caro ma potrebbe rivelarsi, come testimoniato dalla ricerca dello scienziato Robert Howarth, anche il più dannoso dal punto di vista ambientale.
Eppure il governo Draghi prima e quello Meloni continuano a fare affidamento sul GNL, con Eni e Snam che recitano la parte del leone: la prima perché fornisce direttamente i carichi di gas, avendo ottenuto in questi due anni (dalla guerra in Ucraina in poi) nuove forniture da Stati autoritari come Congo, Egitto e Qatar, la seconda perché gestisce le infrastrutture necessarie e la rete di distribuzione nazionale su cui poi viaggia il GNL. Una strategia confermata dai dati pubblicati dall’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente (ARERA) ,che in occasione della relazione annuale 2023, aveva constatato come nell’anno passato i Paesi dell’Ue avessero importato 155 mld mc di gas via tubo (-48 mld mc) con un calo del 24% determinato principalmente dalla riduzione delle importazioni dalla Russia e dalla Norvegia.
Quest’ultima è rimasta il principale fornitore via gasdotto per l’UE, con il 54% della fornitura totale, mentre l’Algeria ha rappresentato il 19% e la Russia il 17%. Di contro è cresciuta, seppur di poco, l’importazione di GNL in Europa, arrivata a 134,3 mld mc (+2,7% rispetto al 2022), principalmente in arrivo dalle Americhe, (50%) seguite da Africa (19%), Russia (13%) e Medioriente (14%). Tuttavia tra i maggiori importatori europei di GNL solo l’Italia ha mostrato un incremento rispetto al 2022: +13,2%, contro forti riduzioni di Paesi Bassi (-35,1%), Francia (-15,5%) e Spagna (-13,9%). Soltanto negli ultimi due anni le importazioni di GNL sono aumentate quasi del 70%. Ma è un altro il dato che deve far riflettere: si tratta del tasso di utilizzo rispetto alla capacità massima delle infrastrutture, che per quel che riguarda i terminali GNL, si attesta al 58%. Come a dire che queste infrastrutture viaggiano per metà vuote.
Proiezioni destinate a confermarsi, se non ad aumentare, nel 2024, specie se si considera che nel frattempo la produzione nazionale di gas continua a diminuire. Soprattutto ciò che conta è che da almeno un decennio nel nostro Paese il consumo netto di gas va diminuendo – nel 2023 è diminuito di 7 miliardi di metri cubi, attestandosi a 60,3 miliardi di metri cubi (-10,4% rispetto al 2022). Quindi: usiamo meno gas ma ricorriamo sempre più spesso al GNL, il più caro e il più dannoso dal punto di vista climatico. Un cortocircuito che va rovesciato.
Leggi anche: La “tempesta perfetta” del prezzo del gas e il ruolo del GNL
© Riproduzione riservata