Borghi o aree interne? Se fino a qualche tempo fa parlare dell’Italia dei paesi voleva dire usare, a piacimento, le due definizioni, da qualche tempo ci si interroga sull’uso critico e non coincidente della scelta fatta. “Perché ogni campanile e ogni borgo è un pezzo della nostra identità da difendere. Penso in particolare a quelli che si trovano nelle aree interne, nelle zone montane e nelle terre alte, che hanno bisogno di uno Stato alleato per favorire la residenzialità e combattere lo spopolamento”.
Queste parole sono state pronunciate da Giorgia Meloni il 25 ottobre durante il discorso per la fiducia alla Camera dei deputati. La frase sui campanili e sui borghi è diventata anche un tweet, è stata ripresa e incorniciata da tanti politici di provincia che hanno fatto del virgolettato una grafica per le loro pagine social. Si parla di loro. Hanno ascoltato un discorso in cui vengono inclusi, c’è attenzione alla montagna, ai borghi, ai territori periferici. Il governo di Meloni solleverà la bandiera dei paesi? Se lo chiedono in tanti. Se lo domandano i territori, i sindaci dei comuni intermedi e dei piccoli comuni, le comunità montane, le aziende e il mondo accademico.
Abbiamo posto questa e altre domande anche a Filippo Tantillo, ricercatore, esperto di politiche del lavoro e dello sviluppo, membro di Riabitare l’Italia, è stato coordinatore scientifico del team di supporto al Comitato Nazionale per le Aree Interne e ha lavorato come consulente per il ministero della Coesione territoriale.
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Al di là delle frasi di rito, ci sarà un cambio di prospettiva? Questo governo prenderà realmente in considerazione la questione territoriale?
Ci sarà un cambio di prospettiva. In generale c’è una fase che si è chiusa già durante il governo precedente. La fase della Strategia Nazionale delle Aree Interne, con programmi complessi ed estesi, diversi per ogni territorio, sembra ormai conclusa. Con l’altra legislatura si è tornati a un approccio centralista. Si è deciso di intervenire in queste aree in maniera tradizionale, compensativa. Molti territori vengono interpretati come residuali. E poi c’è un errore di lettura, ossia considerare molte di queste aree come povere, in deficit di sviluppo, quando invece la realtà ci parla prima di tutto di carenza di servizi. Le distanze sono una spesa, il welfare viene percepito come una spesa. Questi sono i messaggi che lancerà il governo.
Cosa sta accadendo nelle aree a rischio spopolamento e nei piccoli comuni? Se ci muoviamo dai centri verso la provincia italiana, verso l’Italia intermedia e interna, cosa possiamo osservare dal punto di vista politico?
Questi territori si sono svegliati e chiedono una relazione diversa con i ministeri. Sono territori molto diversi. Bisogna tenere a mente che con il termine aree interne indichiamo in modo tecnico delle zone a rischio spopolamento, non per forza terre alte o montane. In generale tanti territori sono in sofferenza per la mancanza di servizi e politiche pubbliche. L’accentramento dei servizi non sarà di certo un marchio di questo governo, lo riceve ovviamente dalle stagioni precedenti, ma per i governi di centrodestra l’accentramento è anche una tradizione politica. Nonostante questo tipo di impostazione e di considerazione dei territori periferici, alle elezioni nazionali queste zone votano a destra. I territori oltre le metropoli sono stati spesso determinanti per la vittoria delle destre. Una parte del Paese si è reso conto che lì c’è uno spazio politico interessante, ma i partiti di sinistra e le forze progressiste in molte elezioni hanno messo un’etichetta quasi definitiva su questi territori: territori dove si perde. Possiamo leggere la vittoria di Meloni alle ultime elezioni anche come conseguenza di questo abbandono da parte di altre forze politiche.
Ci sono esperienze innovative e processi politici interessanti in molte zone. Parliamo in alcuni casi di civismo e di esperienze amministrative collocabili in un campo progressista ed ecologista. Al di là di queste esperienze locali, il dato territoriale che viene fuori è che l’astensione o il voto a destra sono realtà consolidate.
Sì, è così. Non c’è da stupirsi di alcune percentuali. Prima delle sfide elettorali, le altre forze politiche dovrebbero percepire queste aree come zone che contano in cui mettere a terra transizione ecologica, trasformazioni sociali e programmi di welfare. Come accade in Spagna, la destra per governare a livello nazionale ha bisogno di una vittoria massiccia nelle aree interne; quindi, le altre forze politiche dovrebbero tornare a contendere queste zone.
Alcune forme di rivendicazione e di lotta, come alcune forme di imprenditoria locale verranno forse assorbite dalla retorica del governo Meloni. Il suo discorso alla Camera è probabilmente un’anticipazione di alcuni programmi politici per queste zone del Paese?
Credo che la destra renderà il tema centrale, soprattutto in agricoltura e nella difesa della campagna italiana, del Paese rurale. Non dimentichiamoci che il ruralismo è parte della retorica fascista e di destra, il paese come spazio sano contro la Babilonia, la città cattiva e multiculturale. In alcune parole d’ordine potrebbe riproporsi una qualche forma di ruralismo, che è stata una falsa ideologia, anzi truffaldina. Da una parte la destra esaltava il mito contadino come custode dei lavori tradizionali, dall’altra le sottraeva risorse materiali per sopravvivere. Così è stato con i grandi interventi di trasformazione del territorio che hanno finito per impoverire, inquinare e depauperare la maggioranza della popolazione nelle aree interne. Come sappiamo, la gestione collettiva delle risorse naturali, l’attenzione alla riduzione degli sprechi e dei rifiuti, come le pratiche di economia circolare sono patrimonio di tanti paesi. Un patrimonio che il ruralismo e la presunta difesa dell’identità locale non hanno mai valorizzato. Sono aspetti che sono stati colpiti e frammentati.
Questo governo eredita investimenti importanti per le aree interne e per i piccoli comuni. Infatti, le risorse del Pnrr hanno in parte preso la forma del Bando Borghi (di cui abbiamo scritto qui). Cosa accadrà con quel programma? Dopo un anno dalla presentazione del bando al Ministero della Cultura, come possiamo interpretare questo investimento?
Il Bando Borghi è stato un investimento notevole ma è stato concepito male, è stato ragionato senza considerare ciò che già esisteva a livello di strategie. Ora andrà avanti, con uffici comunali in sofferenza. Tanti Comuni hanno dimostrato di aver sviluppato una grande capacità di progettazione, ma resta un bando “coloniale”. L’ idea di fondo resta una: la città che viene a vivere in campagna. L’immagine che possiamo visualizzare per sintetizzare questo bando è quella di un uomo con le gambe incrociate sdraiato in bosco mentre sul suo tablet compra le azioni sulla borsa di New York. Come possiamo interpretarlo? Con la volontà di trasformare questi posti per escapers che vanno a rifugiarsi in zone lontane dalle città. Alcune zone vengono immaginate come una possibile destinazione di lusso riflessivo. In questa visione c’è il capitale finanziario, ci sono progetti estrattivi, escludenti e di trasformazione del tessuto urbano. L’operazione è prima di storytelling, poi finanziaria. Prima questi posti vengono descritti come paesi arretrati e spazi di degrado. Si interviene per razionalizzarlo, a beneficio di programmi di rigenerazione che non sono interessati allo sviluppo degli spazi sociali, ma al valore dei terreni e delle case.
In sostanza in questa visione il turismo sembra essere l’unica economia possibile.
Sarà questa la visione che collegherà questo governo con quelli precedenti. L’altro tema è che il turismo sembra un mondo indefinito. Siamo abituati ad avere turisti, convinti che l’unico passaggio da realizzare sia aumentare l’offerta. La domanda seguirà. Chi arriva in queste destinazioni? Che dati possiamo analizzare? Perché andare in quel borgo e non in quello vicino? Il Bando Borghi ha inasprito le logiche competitive e produrrà squilibri. Vincerà chi ha già delle infrastrutture. Forse ci saranno punti di eccellenza e tutto il resto del Paese dovrà fare i conti con delle diseconomie legate alle logiche del turismo. Le comunità dovranno fare i conti con costi e non con vantaggi. Perché le monoculture sono fallimentari per la collettività e sviliscono le economie dei territori. Ora ci troveremo forse un’esaltazione delle aree interne, con un’idea mitica di paese. Quando invece bisognerebbe lavorare per rafforzare le relazioni tra città e paesi, tra metropoli e il suo intorno.
Molti studiosi e anche tanti racconti sulle buone pratiche indicano queste zone come spazi di economia circolare e di sostenibilità. Ci sono pratiche virtuose che sono da sempre presenti, a volte vengono sistematizzate, a volte diventano base per nuove start-up o per operazioni predatorie dal punto di vista di conoscenze e di risorse naturali.
Non c’è alternativa alla sopravvivenza nelle aree interne all’economia circolare. È qui, in queste zone che possiamo mettere in pratica la mitigazione climatica, in queste zone si vedono i segni e i traumi dell’economia estrattivista. Sulle risorse energetiche di queste aree è stato investito molto poco. Come è stato scarso l’investimento sulle politiche attive del lavoro e sulle politiche culturali. Qualcosa in più è stato fatto sull’agricoltura di qualità. Di sicuro mancano una strategia energetica e una ricerca organica sulle forme di sostenibilità. L’altro aspetto che manca è una diversa relazione con le città. A vincere è ancora una relazione gerarchica che non fa bene né alle metropoli né ai dintorni. C’è uno squilibrio di potere, demografico, ecologico ed economico. Vedere un futuro nelle aree interne e nei margini è una scelta politica. Forse l’unica possibile per una società democratica.
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