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lunedì, Dicembre 9, 2024

La “borgomania” che oscura i paesi. Mentre il Pnrr lascia indietro i territori

Il gruppo di Riabitare l’Italia torna in libreria con una raccolta di saggi che analizza l’infatuazione mediatica per i borghi italiani, criticando la riduzione della diversità delle aree interne, rurali e montane a un generico luogo fisico: il borgo. "La parola del futuro è paesi"

Alessandro Coltré
Alessandro Coltré
Giornalista pubblicista, si occupa principalmente di questioni ambientali in Italia, negli ultimi anni ha approfondito le emergenze del Lazio, come la situazione romana della gestione rifiuti e la bonifica della Valle del Sacco. Dal 2019 coordina lo Scaffale ambientalista, una biblioteca e centro di documentazione con base a Colleferro, in provincia di Roma. Nell'area metropolitana della Capitale, Alessandro ha lavorato a diversi progetti culturali che hanno avuto al centro la rivalutazione e la riconsiderazione dei piccoli Comuni e dei territori considerati di solito ai margini delle grandi città.

“Mai come adesso ho visto a Milano tanti balconi verdi, e logge, terrazzi, perché il balcone è uno spazio vitale. Tutti hanno capito che il verde è un tema importante. Ma in Inghilterra già si prevede una grande spinta all’abbandono delle zone più densamente abitate. Succederà anche in Italia, chi ha una seconda casa ci si trasferirà o ci passerà periodi più lunghi. Abbiamo capito ormai le potenzialità del lavoro a distanza. Ma questo processo va governato. Servirebbe una campagna per facilitare la dispersione, e anche una ritrazione dell’urbano per lasciare spazio a altri essere viventi. Poi l’Italia è piena di borghi abbandonati, da salvare. Abbiamo un’occasione unica per farlo”.

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La rigenerazione continua di uno storytelling

Lo stralcio riportato sopra risale a un’intervista all’architetto Stefano Boeri. È il 2020, aprile. Il mondo sta affrontando un virus sconosciuto, l’Italia è in lockdown duro e attende il 4 maggio, l’inizio della fase 2. Tra paura, incertezze, e sofferenza, la possibilità di spostarsi verso le seconde case e tra comuni segna l’inizio di una tendenza narrativa, quella della riscoperta dei dintorni, delle campagne, dei posti di montagna dove lavorare con il proprio Pc. L’intervista a Boeri sarà il primo di tanti interventi e di commenti legati al tema della fuga dalle grandi città. Secondo l’archistar “bisogna adottare i borghi”.

Durante la pandemia il piccolo Comune diventa un reperto da salvare, bello, un gioiello ma bisognoso di aiuto da parte di accademici, lavoratori delle metropoli. I nipoti devono trasferirsi e tornare a tutti i costi a fare smartworking o a gestire un bistrot per preservare “il paesello” dei nonni. Dall’estate del 2020 a oggi, questa visione è diventata un tema non solo per l’agenda dei media ma anche per la politica, tanto da prevedere un milione di euro di investimenti nel bando Borghi del Pnrr. Esiste realmente questo spostamento verso i dintorni? In questa narrazione a mettersi in salvo sembra essere soltanto chi fugge per qualche settimana da Milano e da Roma verso una meta piacevole e “fuori dal tempo”. Storie di bomboniere, di tesori, di presepi, con la casa a un 1 euro e “il coraggio di una giovane coppia che lascia Lugano per andare a vivere nel borgo spopolato di Carrega Ligure”.

Più che i paesi, i borghi e le terre alte, a rigenerarsi di continuo è uno specifico storytelling. A indagare le ragioni di questa narrazione ci sono le pagine curate da Filippo Barbera, Domenico Cersomino e Antonio De Rossi di “Contro i Borghi. Il Belpaese che dimentica i paesi”, una raccolta di saggi uscita il mese scorso per Donzelli, editore che da diversi anni diffonde e promuove le riflessioni del gruppo di ricercatori riuniti nell’associazione Riabitare l’Italia.

Una raccolta contro la narrazione sui borghi

“Questa raccolta è un atto di opposizione al tentativo paternalistico di adozione dei borghi, perché in quella dichiarazione del celebre archistar questi luoghi diventano soltanto oggetti fisici da trasformare attraverso bandi e grandi investimenti, come se non ci fossero bisogni e desideri delle popolazioni”, racconta a Economiacircolare.com Antonio De Rossi, architetto e professore ordinario di progettazione architettonica e urbana al politecnico di Torino.

Secondo il curatore del saggio, il bando Borghi, i commenti di Boeri e tutto il filone narrativo sulla bellezza dei centri storici sono intrisi di metrofilia, termine che il professor De Rossi utilizza spesso per indicare qualcosa che risponde alle esigenze delle metropoli e in particolar modo a quelle della borghesia cittadina, spesso attenta alle tematiche ecologiste, alla ricerca del contatto con la natura negato in città. È una vera e propria borgomania, che secondo De Rossi separa invece di unire, “congela la lunga e contrastata storia dell’insediamento umano del nostro paese, in favore di una fissità senza tempo che è il contrario della storia e annulla la geografia dei luoghi, come se i borghi potessero esistere senza relazioni con le aree che li circondano”, spiega De Rossi nella sua introduzione al saggio.

Il saggio ha un intento polemico, si scaglia contro questa infatuazione mediatica sui piccoli centri e tenta di allontanare le aree interne, la provincia e la campagna italiana dalla retorica del “turismo petrolio d’Italia”, ma anche dall’illusione di una facile resurrezione di alcune zone, come se bastasse una grande immissione di denaro per ripopolare un paese disabitato da cinquant’anni. Se si scorre l’atlante italiano dell’economia circolare è abbastanza facile trovare storie virtuose provenienti da piccoli paesi o da città medio-piccole. Sono storie di donne e di uomini che hanno ripensato il rapporto con il proprio territorio, in molti casi troviamo biografie e percorsi collettivi che hanno avviato progetti imprenditoriali e sociali tenendo insieme ecologia, saperi antichi e innovazione. Eppure, non bisogna dimenticare che la geografia della circolarità corrisponde e si congiunge a quella delle lotte contro la devastazione ambientale, contro le speculazioni, contro potentati locali, patriarcati e tradizioni.

Nella provincia, nei paesi e anche nei posti che non saranno mai baciati dal turismo, chi resta e chi arriva può decidere di non assestarsi sulla costruzione di una buona recensione, di un buon biglietto da visita. Come testimonia la mappatura del Centro di documentazione sui conflitti ambientali, valli incontaminate, ma anche cittadine compromesse dall’inquinamento, sono luoghi di epiloghi inaspettati che hanno diffuso conoscenze, nuova socialità e occasioni lavorative. Le lotte dei comitati mappati in questi anni dal Cdca contengono riferimenti a nuovi centri culturali, fabbriche dismesse che recuperano materiali, terreni che tornano a essere aziende agricole, mulini che ritrovano grani antichi, biblioteche, poli di ricerca su come bonificare la terra, l’acqua e l’aria, che a quanto pare non è sempre  pulita come raccontano gli articoli della borgomania.

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L’immediata cantierabilità del PNRR lascia indietro i territori

Le letture di Contro i borghi riaccendono dunque la luce sui paesi, su chi ci lavora, su chi li abita e su chi rivendica servizi, infrastrutture e considerazione. Forse nel bando Borghi del PNRR e nelle strategie del ministero dei beni culturali a mancare è stato un grande esercizio di ascolto delle esigenze e dei desideri della popolazione dell’Italia interna, di quella a rischio abbandono, di quella spopolata. Ad avere spazio nelle pagine dei bandi e dei quotidiani, secondo Letizia Bindi, antropologa e docente all’Università del Molise, è stato invece il piccoloborghismo.

Nelle due linee di investimento del bando borghi si parla di sviluppo sostenibile, di partecipazione e di rigenerazione, ma per come sono strutturati e per l’accesso alle risorse finanziarie la professoressa Bindi intravede il rischio di un’esclusione di molti territori. “I bandi del Pnrr dedicati ai borghi – scrive Letizia Bindi nel suo saggio – mirano a scegliere una serie di progetti pilota: poche e selezionatissime località, retorica dell’eccellenza, che è parte essa stessa del discorso neoliberista in materia di cultura e sviluppo locale, velocità e immediata cantierabilità dei progetti sono le parole chiave di questa comunicazione e prassi politiche. Tutto ciò rischia di andare a detrimento di quel progetto di condivisione e co-progettazione che pure viene tanto evocato nel discorso politico corrente, rendendo il continuo richiamo ai processi partecipativi alla governance di sviluppo locale poco più che un’etichetta da apporre su progetti sostanzialmente preconfezionati e spesso imposti dall’alto”. Letizia Bindi ha iniziato a utilizzare il termine piccoloborghismo proprio quando con la crisi connessa al Covid, per l’architetto Boeri i piccoli spazi sono diventati un “arcipelago di borghi”.

A Economiacircolare.com la professoressa racconta l’origine di questo termine: “Il paese in questa narrazione perde tutti gli aspetti produttivi, dinamici, trasformativi e contraddittori, che necessariamente le epoche vanno a sovrapporre. C’è l’idea di uno spazio molto bonificato in cui esaltare un modello mitico della vita paesana, dove tutto è felice; un’idea scevra da ogni contraddizione. Dunque, mi è venuta in mente la categoria del piccoloborghismo. Mi ricordava la piccola borghesia, un’idea conservatoria di benessere e di bellezza, soprattutto di uno spazio privato da qualsiasi elemento conflittuale, laddove la società lo contiene sempre”.

Le voci che compongono “Contro i borghi” invitano a riesaminare le operazioni mediatiche, di marketing territoriale, e soprattutto le politiche attorno ai piccoli centri, perché il termine borgo nel bando del ministero della cultura è diventato sinonimo di antiche quanto indefinite conformazioni architettoniche in una descrizione generica e incapace di considerare l’Italia dei paesi come spazio sociale. Come a dire, per citare una parte del saggio dell’antropologo Pietro Clemente, “che solo i luoghi fisici simbolo del potere possono aspirare a fondi pubblici per una rinascita culturale, mentre così non può accadere per le eredità del lavoro e dell’uso dello spazio, elementi questi ultimi che danno vita alla coscienza di luogo e a un possibile approccio territorialista”. È a questa riduzione della diversità delle aree interne a un unico oggetto fisico che il libro vuole rispondere, ricordando a chi legge che l’Italia dei piccoli comuni, delle frazioni e dei paesi è una realtà composita e irregolare. Per citare ancora Clemente, “i paesi sono le cellule molteplici dell’insediamento territoriale, delle pratiche collettive e delle comunità. Non borghi, dunque, ma paesi è la parola del futuro”.

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