“Prima c’erano tutte bestie qua in giro, e un momento dopo più niente. Mi hanno portato via tutto, non hanno fatto niente per noi”. Sono passati ventidue anni da quel saccheggio, ossia da quando il contadino bresciano Pierino Antonioli fu costretto a chiudere la sua cascina e a fermare ogni tipo di attività agricola. Dopo tanti anni Antonioli vuole essere epigrafico; racconta quel momento con una lucidità che contiene rassegnazione per una storia che sembra ferma ancora a quel giorno, quando l’Asl sequestrò tutto: i terreni, gli animali, perfino il cibo nei freezer.
Pierino Antonioli non può che essere coinciso perché il resto di questa storia ce l’ha nel suo corpo, nella sua biografia. È annodata nel suo sangue con una sigla: PCB (Policlorobifenili), prodotti di sintesi realizzati negli stabilimenti della Caffaro chimica di Brescia. Per decenni sono stati utilizzati come diluenti per gli insetticidi, come isolanti e fungicidi. Sul finire degli anni Ottanta vengono banditi in Giappone, negli Stati Uniti e anche in molti paesi europei, tra cui l’Italia. Sono sostanze tossiche, riconosciute come cancerogene e persistenti nell’organismo. A Brescia le molecole di PCB hanno avvelenato cibo, terreni e persone. È un disastro ambientale che ancora cerca giustizia.
Per conoscere meglio la storia di Pierino Antonioli e dei veleni di Brescia possiamo ascoltare Caffaro, l’ultima barriera. I veleni nel cuore della città, un podcast di Nuri Fatolahzadeh e Laura Fasani, prodotto da Irpi Media in collaborazione con Il giornale di Brescia.
Leggi anche: L’Italia abbandonata e inquinata, l’eredità dei siti orfani e i soldi del PNRR
Un secolo di inquinamento in un racconto sonoro d’inchiesta
Fuori da qualche settimana su tutte le piattaforme audio, Caffaro è un racconto sonoro diviso in otto puntate in cui è possibile capire le conseguenze ambientali e sociali di questo caso di inquinamento industriale. Caffaro e Brescia sono un binomio centenario, lo stabilimento sorge nel 1906 a pochi metri dal centro storico cittadino con la fondazione della società Elettrochimica del Caffaro. Negli anni del boom economico l’espansione della fabbrica fa gemmare una cittadella, cresce il numero degli operai, nascono nuovi reparti, duplica l’indotto.
Caffaro produce soda caustica, pesticidi e anche i Pcb finiti nel sangue di Pierino Antonioli e di migliaia di bresciani, per colpa dello sversamento sistematico di rifiuti nelle rogge, i canali artificiali che fanno scorrere la contaminazione fino ai terreni dei contadini, colpevoli soltanto di aver utilizzato le risorse naturali delle loro città. Parliamo di settecento ettari di terreni avvelenati, di un inquinamento esteso per oltre 20 km e di 150 tonnellate di PCB uscite dagli scarichi della fabbrica. I numeri dell’eredità tossica elargita da Caffaro vengono consegnati subito: nei primi minuti del podcast le voci di Laura Fasani e Nuri Fatolazadeh guidano chi ascolta verso lo stabilimento, descrivono ciò che vedono.
Ci fanno avvicinare alla cittadella industriale e a quel che resta di Caffaro, ormai inattiva, in parte smembrata, segnata dalla ruggine e dalla crisi, ora non arriva neanche a dieci dipendenti. Potrebbe sembrare un racconto di archeologia industriale, ma le due autrici esplicitano subito la loro postura narrativa. Vogliono continuare a fare inchiesta, amplificando le voci di ex lavoratrici e lavoratori, le storie di chi denunciò le nocività in fabbrica, le lotte dei sindacati, dei medici di base e dei movimenti ecologisti, ma anche sottolineando i silenzi, le omissioni e i tentativi di minimizzare la questione da parte della dirigenza della fabbrica.
Un caso ancora aperto
“Questa serie scava tra documenti ed episodi passati inosservati con le testimonianze di chi c’era e di chi ancora subisce le conseguenze dei veleni sprigionati dall’azienda. Sono i cittadini che aspettano verità dal nuovo processo, anche se alcuni pezzi del puzzle sono stati recuperati troppo tardi per chiedere il conto a tutti i responsabili”, si legge nella descrizione del podcast. Le autrici illuminano delle zone d’ombra, tornano a fare domande a ex dirigenti, ai vecchi e ai nuovi politici di Brescia, a chi ha avuto un ruolo di primo piano in questa vicenda. Perché Caffaro è un caso ancora aperto.
“Abbiamo deciso di mettere insieme anni di lavoro, ma soprattutto di unire le voci dei protagonisti del caso Caffaro. È come se in questa storia non ci fosse nulla di sufficiente per incidere nella memoria collettiva, o forse si trascina da talmente tanto tempo che c’è quasi un affanno nel discuterne ancora. Se ne parla a intermittenza. Ma quello che vogliamo far capire è che Caffaro non parla di un caso concluso o solo di una ricerca storica. L’inquinamento da PCB persiste, ed è una ferita che minaccia la salute dei cittadini di sei comuni. C’è anche un nuovo processo penale per inquinamento ambientale, le udienze inizieranno la prossima primavera. Il Comune di Brescia non si è costituito come parte civile. E poi c’è una bonifica ferma al palo e ci sono persone come Pierino Antonioli che hanno perso tutto, hanno dovuto chiudere l’azienda di famiglia senza ricevere alcun risarcimento”, raccontano a Economiacircolare.com le due autrici.
Fatolahzadeh e Fasani seguono da tempo il caso Caffaro, lo fanno soprattutto per il giornale di Brescia e su Irpi Media. È il giornalismo locale e di approfondimento a tenere i riflettori accesi su una storia che molti vorrebbero non raccontare più. Grazie alle due giornaliste bresciane, la vicenda del latte contaminato da diossine e da PCB, quella del verde pubblico interdetto e chiuso alla cittadinanza perché inquinato, e la questione Vallosa, cioè la discarica di rifiuti industriali tra i vigneti della Franciacorta, arrivano a chi ascolta il podcast con chiarezza e con dettagli precisi. Si esce dall’ascolto di ogni puntata con un elemento in più per comprendere la portata devastante di questo disastro. Le testimonianze raccolte permettono di percepire la rabbia e il senso di smarrimento di chi ha lottato per la salute dentro e fuori la Caffaro.
Gli operai, i medici per l’ambiente, i comitati cittadini e quelli dei genitori che scoprono di aver fatto giocare i propri figli sull’erba contaminata da Pcb compongono un coro che a più riprese chiede giustizia sociale e ambientale, richiede il diritto a essere informati, di avere dati precisi e aggiornati sulla contaminazione, protesta per ottenere nuovi studi epidemiologici. Tutte le voci delle puntate sono accompagnate da un suono minimale curato dal sound designer Riccardo Cocozza. A volte la musica picchietta la narrazione con un tono indagatore, quasi volesse sostenere le ipotesi di indagine delle due autrici. E mentre si procede con l’ascolto viene da chiedersi: che ne facciamo della questione Caffaro? Chi inquina paga? È possibile liberare Brescia dalla sua eredità tossica? C’è consapevolezza di questa vicenda?
Per la prima volta la storia di un SIN compone un podcast giornalistico
“Un giovane di Brescia potrebbe voler sapere qualcosa di quella fabbrica che vede soltanto da fuori e che sembra ormai morente. Su questo aspetto il podcast è un ottimo strumento per diffondere tra le nuove generazioni storie complesse come quella di Caffaro. Rispetto ad altre vicende di inquinamento, quella del sito d’interesse nazionale di Brescia deve fare i conti con una serie di stalli amministrativi, e in generale con una questione d’immaginario collettivo. Brescia è una città laboriosa e ricca. In questa narrazione Caffaro mantiene un suo prestigio. Dall’altra parte c’è un anche po’ di rassegnazione per una questione che sembra destinata a rimanere in sospeso”, spiegano ancora le autrici.
Restare in sospeso è una condizione che accomuna tutta la geografia dei SIN, i siti d’interesse nazionale, cioè quei territori altamente inquinanti in cui lo Stato ha riconosciuto una contaminazione ambientale di alto rischio. Brescia, Taranto, Gela, Caserta, Porto Marghera, Colleferro e tante altre città fanno ancora i conti con gli scarti industriali delle produzioni chimiche. In molti di questi territori ci sono ettari ed ettari di terra preclusi agli abitanti, porzioni di città che attendono le bonifiche e che dovrebbero essere restituite alla collettività. Il merito di Fasani e di Fatolahzadeh è anche quello di aver portato parte di questa geografia in un podcast. Comporre un’intera serie giornalistica sul caso Caffaro permette di trovare una traccia possibile per riaprire un dibattito pubblico sui siti inquinanti in Italia. Con una prospettiva di indagine aperta e attuale, queste storie smettono di essere residuali, tornano a parlare al presente e permettono di recuperare altre storie di veleni, perché in Italia esistono molti Pierino Antonioli.
Leggi anche: Perché la corsa al litio rischia di moltiplicare i pericoli: gli appelli e gli studi per scongiurarli
© Riproduzione riservata