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sabato, Dicembre 14, 2024

Cibo o biocarburanti? La guerra in Ucraina e un dilemma che non esiste

La denuncia dell’ong Transport&Environment: di fronte all’impennata dei prezzi delle materie prime agricole, l’Europa brucia ogni giorno l’equivalente di 15 milioni di pagnotte per alimentare le proprie automobili. I biocarburanti avanzati e sostenibili difficilmente saranno la soluzione. Ma ci sono delle alternative

Tiziano Rugi
Tiziano Rugi
Giornalista, collaboratore di EconomiaCircolare.com, si è occupato per anni di cronaca locale per il quotidiano Il Tirreno Ha collaborato con La Repubblica, l’agenzia stampa Adnkronos e la rivista musicale Il Mucchio Selvaggio. Attualmente scrive per il blog minima&moralia, dove si occupa di recensioni di libri. Ha collaborato con la casa editrice il Saggiatore e con Round Robin editrice, per la quale ha scritto il libro "Bergamo anno zero"

Il crollo delle esportazioni di grano e mais dall’Ucraina e la speculazione sui prezzi dei cereali, che sono schizzati verso l’alto con picchi di oltre il 41 per cento nel caso del mais, rischia di innescare secondo la Fao una “crisi alimentare di enormi proporzioni”. Soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, che si trovano di fronte a un vicolo cieco: da un lato minori forniture dall’Ucraina, dall’altro prezzi più alti sul mercato mondiale.

Eppure ogni giorno l’Europa trasforma diecimila tonnellate di grano, l’equivalente di 15 milioni di pagnotte, in etanolo con cui produrre il biocarburante per le automobili. Una contraddizione di fondo “inaccettabile eticamente”, sostiene l’ong Transport&Environment in un rapporto sul panorama dei biocarburanti nel Regno Unito e nei Paesi dell’Unione europea. E senza particolari benefici ambientali, perché trasporti a emissioni zero saranno possibili solo con il completo passaggio all’elettrico.

Invece, denuncia T&E, le lobby del settore, come ePure e European Biodiesel Board, spingono per sostituire il petrolio russo con combustibili ottenuti da colture come grano, mais, orzo, olio di semi di girasole e colza e altri oli vegetali. Aggravando da un lato la crisi alimentare e dall’altro contribuendo all’aumento dei prezzi delle materie prime agricole.

Quanti e quali biocarburanti si usano in Europa

La maggior parte dei biocarburanti utilizzati nell’Unione europea, infatti, proviene da colture alimentari. Il 78 per cento del biodiesel è prodotto con oli ricavati dalla palma e dai semi di soia, girasole e colza. L’Unione europea e il Regno Unito non hanno una produzione significativa di olio di palma e soia nel loro territorio e importano da altre nazioni. Nel caso dell’olio di semi di girasole e semi di colza, le colture ci sono, ma c’è ugualmente bisogno di acquistare dall’estero: il 22 per cento del totale per la colza e il 39 per cento per i girasoli. E molte importazioni sono fatte proprio dall’Ucraina.

Per produrre biodiesel ci sarebbero inoltre gli oli esausti da cucina: anche qui le importazioni sono cresciute costantemente, fino ad arrivare a più della metà del fabbisogno. E non è una buona notizia, perché spesso manca un controllo adeguato, come spiega Andrea Poggio, responsabile mobilità per Legambiente, e dalla Cina arrivano oli di palma e oli di cocco esausti di bassa qualità.

Per quanto riguarda il bioetanolo, la quasi totalità deriva da cereali, soprattutto mais e grano, e colture come la barbabietola da zucchero. L’Unione europea importa per consumo domestico il 22 per cento del mais, mentre per il grano si limita al 5 per cento e una parte è destinata anche ai biocarburanti. Negli Stati Uniti, sono addirittura più di 130 milioni le tonnellate di mais utilizzate nel 2021 per produrre biocarburanti. Più dell’intero raccolto di Ucraina e Russia messe insieme e ben oltre quello che servirebbe per sfamare la popolazione statunitense dal punto di vista del fabbisogno energetico.

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E in Italia?

Alla fine del 2020 quasi tutti i biocombustibili usati in Italia derivano da olio di palma: circa 1 milione di tonnellate per ricavare 2 milioni e mezzo di tonnellate di carburanti rinnovabili. Rilevante anche l’apporto della soia. “Quindi non c’è una ‘competizione’ diretta con il mercato dei cereali – chiarisce Poggio – ma in parte con quello alimentare, visto che l’olio di palma è molto utilizzato in Asia, mentre la soia e il mais sono tra le principali materie prime per i mangimi animali in tutto il mondo”.

La competizione resta in relazione ai terreni adibiti a colture per biocarburanti. Da un rapporto del Centro di Ricerca sulle Biomasse, emerge come l’agricoltura tradizionale abbia perso circa 4 milioni di ettari che fino a 50 anni prima erano coltivati per usi alimentari. La situazione adesso è migliorata, sostiene Franco Cotana, uno degli autori del report e professore di fisica tecnica industriale all’università di Perugia, grazie a progetti tesi a utilizzare i terreni marginali, non irrigui e abbandonati dall’agricoltura tradizionale e all’impiego di biocarburanti di seconda generazione, derivati ad esempio dalla filiera ligno-cellulosica, come il bioetanolo dal legno e i residui agricoli.

“Sono state selezionate – spiega Cotana – anche grazie al miglioramento genetico, alcune arido-colture in grado di generare semi oleaginosi in scarsità di acqua, come il cardo e il cartamo. In Italia ci risulta siano ormai più di 20.000 gli ettari coltivati con tali colture, capaci di produrre fino a 500 litri di olio a ettaro e quasi 14 tonnellate/ettaro di paglia. Inoltre attirano api per la produzione di circa 15 kg di miele ad ettaro e il panello di spremitura dei semi viene efficacemente utilizzato nella mangimistica”, conclude il professore.

Più biocarburanti significa prezzi più alti delle materie prime e meno terreni coltivati a scopi alimentari

Che pochi campi siano utilizzati a scopi non alimentari in Europa e non vi sia una competizione diretta con il mercato del grano non deve però distogliere dal problema, fa notare Andrea Poggio: “Il mercato dei biocarburanti è globalizzato e i prezzi si riflettono su scala globale. Aumentare l’acquisto di commodities agricole contribuisce a fare aumentare i prezzi o crescere la produzione. E in qualche parte del mondo se importiamo, ci saranno campi destinati alla produzione di materia prima per i biocarburanti”.

In base alle stime di T&E sono necessari intorno ai 5,1 e gli 8,9 milioni di ettari, ovvero tra il 4 e il 7,5 per cento del totale dei terreni dedicati a coltura nel Regno Unito e nell’Unione europea, per produrre una quantità di biocarburante pari a quella consumata. Se, invece, si volesse sostituire con carburanti rinnovabili appena il 6,5 per cento di benzina, gasolio e diesel importati dalla Russia, la quantità di terra dedicata a colture di colza, mais e grano per scopi non alimentari dovrebbe raddoppiare. Fino ad arrivare teoricamente al 70 per cento, qualora si volesse eliminare completamente le importazioni e sostituirle con biocarburanti.

Uno scenario evidentemente insostenibile. Non a caso l’Unione europea si è espressa in senso contrario chiedendo agli Stati membri di “diminuire la superficie agricola utilizzata per la produzione di materie prime per biocarburanti e indirizzarla invece verso la produzione alimentare”, come ha dichiarato il vicepresidente della Commissione europea Valdis Dombrovskis.

Eppure è la stessa Unione Europea a fissare l’obbligo di aggiungere a benzina e/o gasolio (e adesso anche metano) una quota di biocarburanti che passa dal 10 per cento attuale al 17 per cento entro il 2030, sebbene oltre la metà devono essere biocarburanti di seconda generazione. “Una quantità così significativa rischia di creare altri squilibri nel mercato – sostiene Poggio – senza risolvere il problema dei terreni tolti agli scopi alimentari”.

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Una scelta etica a favore delle nazioni più povere

La strategia per stabilizzare prezzi e approvvigionamenti alimentari globali in seguito all’invasione russa dell’Ucraina, invece, secondo T&E passa dalla riduzione del consumo di biocarburanti. Se non si utilizzasse il grano per produrli in Europa, si riuscirebbe a compensare oltre il 20 per cento del crollo delle forniture di frumento ucraino nel mercato globale. Mentre il mais trasformato in biocarburante nell’Unione europea sarebbe sufficiente a compensare circa un terzo delle esportazioni ucraine di granoturco.

Più in generale, tagliare la percentuale di biocarburanti ottenuti da commodities agricole avrebbe l’effetto di mitigare l’impatto dell’inflazione sul comparto agroalimentare, oltre naturalmente a contribuire alla sicurezza alimentare dei Paesi in via di sviluppo. Per nazioni come l’Egitto, che importano oltre il 60 per cento del loro grano, vorrebbe dire salvare vite umane.

“Garantire forniture energetiche stabili alle persone e all’economia non deve andare a scapito della sicurezza alimentare o portare l’inflazione dei prezzi dei generi alimentari fuori controllo”, denuncia T&E. In poche parole, la produzione di biocombustibili per i Paesi ricchi non può diventare un’attività più lucrativa rispetto a coltivare cibo essenziale per le nazioni povere, e distruggere habitat naturali per sostituirli da monocolture con questo scopo.

I limiti dei biocarburanti e le soluzioni poco praticabili

Puntare sui biocarburanti di prima generazione come biodiesel e bioetanolo non è neppure una buona idea dal punto di vista tecnico. Il guadagno per la riserva energetica mondiale, infatti, è quasi irrilevante. Come fa notare il docente inglese Mike Berners-Lee nel libro No Planet B: “Una quantità di frumento sufficiente a soddisfare il fabbisogno calorico di una persona per un giorno è in grado di far percorrere appena tre chilometri di strada a una piccola utilitaria alimentata a benzina come la mia Citroën C1”.

Né le opzioni alternative bastano a soddisfare il fabbisogno energetico. “I biocarburanti derivati da prodotti sostenibili come i rifiuti e i residui di produzione rappresentano una piccola parte”, si legge nel rapporto di T&E. Di fatto inutili se l’obiettivo è una mobilità ad emissioni zero: “Servirebbero più di 5 milioni di tonnellate di oli per i veicoli in circolazione e in tali quantità ci sarebbe ugualmente un significativo impatto ecologico”, mette in guardia Poggio.

Lo stesso discorso vale per il biometano: “Non è la soluzione”, afferma T&E nel rapporto. La metà del biogas prodotto in Europa viene da raccolti, soprattutto di mais, utilizzabili per scopi alimentari. Mentre il biometano “avanzato”, ricavato da letame, fanghi di depurazione e residui agricoli e forestali offre una notevole riduzione di gas serra in confronto ai combustibili fossili: ma le materie prime sono limitate e l’effetto complessivo è marginale sia sui mercati sia sull’ambiente.

Secondo le stime di T&E, si riuscirebbe entro il 2030 a rimpiazzare circa l’8 per cento della domanda europea di gas fossile, di cui il biometano avanzato coprirebbe solo tra il 6,2 per cento e il 9,5 per cento del fabbisogno energetico per i trasporti. Troppo poco perché il biometano avanzato diventi una “killer application” nel settore energetico.

Senza contare che la produzione di letame è legata agli allevamenti, un settore poco sostenibile a livello di emissioni di gas serra. E se “i boschi cedui, che vanno coltivati e tagliati ogni 30 anni, sono una fonte energetica enorme, circa un terzo del fabbisogno nazionale di energia rinnovabile, di cui l’Italia sfrutta appena il 35 per cento delle potenzialità rispetto al 75 per cento di altre nazioni europee”, sottolinea Cotana, a essere insostenibile è proprio “il modello generale di gestione delle foreste, con impatti negativi sulla biodiversità e il cambiamento climatico”, obietta T&E.

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Resta solo l’elettrico

È in corso la ricerca per ricavare idrogeno verde da sottoprodotti dell’agricoltura o dalla biomasse ligno-cellulosiche grazie alla steam gassification: “È una tecnologia che si sta affermando in Italia e in Germania e promette di produrre idrogeno da cippato di legno sostenibile verde a meno di 3 euro al chilogrammo”, spiega Cotana. Si parla, però, di stime e sviluppi tecnologici futuri.

L’unica soluzione, resta quindi l’elettrico. “I biocarburanti possono essere impiegati solo nei settori dove è più difficile l’elettrificazione a causa delle lunghe distanze percorse, ad esempio l’aviazione e il commercio navale, o alcuni comparti industriali”, spiega il responsabile mobilità di Legambiente Andrea Poggio. Vale la pena di guardare a tutte le soluzioni sostenibili: per il momento, però, i biocombustibili possono contribuire al mix energetico solo per una frazione ridotta.

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