Resistere, riconquistare, ristrutturare. Non è la guerra il filo rosso tra queste parole. A tenerle insieme sono gli sforzi delle organizzazioni politiche, sindacali e sociali che si battono per un nuovo progetto di emancipazione, quello della democrazia energetica. Con teorizzazioni e pratiche collettive, e in contesti molto diversi nel mondo, pianificano, e spessissimo attuano, un modello di produzione e distribuzione dell’energia che pretendono più giusto, equo e compatibile con la vita sul pianeta di quello dominante.
Se è ormai lecito parlare di un movimento transnazionale ispirato alle tre parole d’ordine, non è altrettanto facile rintracciarne le origini. Di certo, le radici affondano nelle lotte che sin dagli ultimi decenni del ‘900 denunciano quanto le discriminazioni di genere, razza e classe infliggano alle loro vittime anche peggiori rischi sanitari e ambientali. Tra questi vi sono le contestazioni operaie contro le nocività sul posto di lavoro in Italia o quelle per la giustizia ambientale e razziale negli USA. Con la convinzione condivisa che il modello energetico dominante sia distruttivo, a esse si affiancano le mobilitazioni pacifiste e antinucleari. Ed è in questo contesto che si inizia a discutere di fonti rinnovabili. Anche in seguito agli shock petroliferi degli anni ’70 e alla costante minaccia atomica della guerra fredda, le rinnovabili divengono necessarie anche perché alternative all’ordine guerresco, incerto e pericoloso del petrolio e dell’atomo.
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Come nasce una democrazia energetica
Il termine democrazia energetica è tuttavia abbastanza recente. A quanto pare, emerge nel contesto del movimento tedesco per la giustizia climatica, al Climate Camp di Lausitz del 2012. Nello stesso anno sei federazioni sindacali internazionali formano una nuova organizzazione denominata “Sindacati per la democrazia energetica”, in seguito a una tavola rotonda coordinata a New York dalla fondazione Rosa Luxemburg, dal Global Labour Institute e dalla Cornell University.
“Una transizione veramente sostenibile – spiega il report finale – sarà resa possibile solamente se il potere [di decidere su essa] verrà tolto alle corporation, che perseguono esclusivamente il profitto, e trasferito ai cittadini ordinari e alle comunità”. E ciò implica che “i lavoratori partecipino attivamente alle decisioni sulla produzione e l’uso dell’energia” ma anche che “l’energia sia riconosciuta come bene pubblico e diritto di base”.
Soltanto un’eresia nel desolante panorama di privatizzazioni, centralizzazione amministrativa e strapotere dei colossi energetico-finanziari che attanaglia la produzione e distribuzione di energia nonché le transizioni in giro per il mondo? Non per tutti. Di certo, non per i molti attivisti, politici e semplici cittadini che animano processi di cambiamento ispirandosi variamente a principi di partecipazione, inclusione, sostenibilità e libertà dal bisogno.
Cos’è quindi la democrazia energetica? E quanto è connessa con la transizione ecologica di cui così tanto si parla negli ultimi anni? Iniziamo a capirlo lasciandoci guidare dalle tre parole d’ordine.
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Riconquistare e ristrutturare il diritto all’energia
Nel segno del riconquistare e del ristrutturare alcune esperienze possono essere citate subito. Tutte sono accomunate dal tentativo di ripristinare forme di controllo pubblico – che non coincide con quello statale – sulla generazione, sul trasporto o sulla distribuzione di energia. Nella maggior parte dei casi, ciò coniuga l’esigenza di contrastare la povertà energetica, riducendo i costi finali, con quella di abbattere le emissioni, sfruttando al meglio le nuove possibilità, offerte dalle rinnovabili e da tecnologie come i sistemi di accumulo e le reti intelligenti, di decentrare e rendere più efficienti produzione, trasporto e distribuzione.
Tra i tanti esempi che è possibile citare subito, troviamo quello dei gruppi d’acquisto per l’energia attivi ormai da diversi anni in alcuni stati americani, tra cui la California, l’Ohio o New York. A differenza dei gruppi d’acquisto consentiti dalla legislazione nostrana, negli USA l’adesione è per lo più basata su una clausola di opt-out. Una volta che un gruppo d’acquisto sia stato istituito in un’area metropolitana o una contea, tramite referendum o deliberazione di organismi rappresentativi, i consumatori vengono automaticamente iscritti, potendo comunque decidere di uscire (opt-out) in seguito. Questo meccanismo assicura ai gruppi una platea di partecipanti incomparabilmente più larga di quelli con adesione volontaria (opt-in), ma anche una sostenibilità finanziaria tale da consentire di comprimere i prezzi dell’energia al dettaglio e investire in decarbonizzazione.
Un altro esempio calzante è l’ondata di ri-municipalizzazioni che sin dai primi anni 2000 in Germania ha riportato sotto controllo pubblico oltre un centinaio di contatti per il trasporto e la distribuzione di energia, sottraendoli spesso a una delle quattro grandi compagnie che controllano il settore energetico tedesco: E.ON, Vattenfall, RWE e EnBW. Invertendo la tendenza alla privatizzazione dei due decenni precedenti, questi processi hanno interessato una grande varietà di contesti: dalle grandi città alle aree rurali estendendosi anche a scale regionali. Uno dei casi più famosi è quello di Amburgo, dove nel 2009 il governo della città-stato decise di creare un fornitore di energia interamente pubblico, Hamburg Energie, con l’obiettivo dichiarato di produrre elettricità sempre più a basso tenore di carbonio e attraverso infrastrutture interamente municipali. Tuttavia, qualche anno più tardi, lo stesso governo si rifiutò di riportare sotto controllo pubblico le reti di trasporto e distribuzione di elettricità e gas. A esso si oppose una larga coalizione civica che nel 2013 riuscì a imporre la ri-pubblicizzazione della rete elettrica indicendo un referendum che vinse.
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Resistere: il caso del Green New Eskom
Venendo ora al resistere, un esame dei casi concreti e della letteratura specializzata indica chiaramente come oggetto ne sia principalmente il modello energetico neoliberale, fatto di privatizzazione, accentramento dei processi decisionali ed estrazione di profitto, consolidato con le fossili ma esteso ora alle rinnovabili – dove sempre più spesso le aziende che si occupano di installare pannelli fotovoltaici e parchi eolici sono aziende, quando non multinazionali, straniere che pagano poche tasse ai territori (Imu ridotte e zero royalties), con impianti che una volta installati necessitano di poco personale, quasi mai locale.
Limitandoci ai movimenti che esplicitamente si richiamano alla democrazia energetica, una campagna importante è sicuramente quella che in Sud Africa si batte per la riorganizzazione del fornitore pubblico di energia Eskom. La campagna per una Green New Eskom inizia nel 2019, quando il governo, con la giustificazione di far fronte alla pluriennale crisi finanziaria del colosso, diede il via alla sua scorporazione (unbundling), separandone i segmenti della produzione, trasporto e distribuzione in entità autonome. Fortemente raccomandato dalla Banca Mondiale, tale processo è opposto dalla Climate Justice Coalition (CJC), una larga coalizione di forze sociali e sindacali. Secondo la CJC, infatti, una volta spezzettata, Eskom – che produce circa il 95% dell’energia consumata in Sud Africa – potrà essere ceduta ad aziende multinazionali. Il sistema elettrico del paese sarebbe così irrimediabilmente privatizzato, con il rischio di vedere lievitare i costi per le fasce più deboli della popolazione, senza garantire adeguati investimenti per raggiungere quel 16% di popolazione ancora senza energia.
Proprio a partire dall’ambito del resistere, tuttavia, è possibile capire quanto sia importante identificare i modelli energetici che chiaramente non favoriscono maggiore democrazia, sia in termini distributivi che deliberativi. L’irrompere della guerra in Europa consente di fare qualche considerazione calzante. Lo scorso maggio la Commissione europea ha lanciato il maxi piano REPowerEu. Nel tentativo di far fronte allo scenario energetico stravolto dall’invasione russa dell’Ucraina, il piano prospetta una strategia ambiziosa basata sull’efficienza e su una più rapida diffusione delle fonti rinnovabili. Più prosaicamente però, nella mancanza di una vera e propria visione di lungo termine, il piano si concentra sul gas. Azioni e fondi sono per lo più diretti a mettere insieme un nuovo portafoglio di fornitori e sviluppare una rete infrastrutturale capace di trasportare primariamente GNL.
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Democratizzare il regime energetico: un obiettivo sempre più lontano
In questo tentativo affannato, REPower Eu sembra contrastare con le idee di color che vorrebbero democratizzare il regime energetico della Ue o quantomeno la sua filiera di approvvigionamento. Da un lato, per bocca della stessa presidente Ursula von der Leyen in un’intervista congiunta a Les Echos e Handlesblatt dello scorso 4 febbraio, la Commissione vuole “costruire il mondo di domani” come sistema di “democrazie che condividono le stesse idee con i loro partner”. Dall’altro, la Ue guarda a partenariati energetici con democrazie problematiche come gli USA o regimi autoritari come il Qatar, l’Egitto o l’Azerbaijan. Non proprio un’armonia di idee, men che meno di valori.
La guerra ha reso ancor più lampante anche un’altra verità scomoda: la sovranità degli Stati è fortemente condizionata dalla sicurezza dell’approvvigionamento energetico. La competizione tra superpotenze egemoni è infatti un ostacolo sostanziale alla capacità delle istituzioni sovrane delle potenze subordinate di imporre le proprie decisioni, anche quando queste ultime siano democraticamente determinate. In maniera esemplare, al neoincaricato cancelliere tedesco Olaf Scholz in visita a Washington lo scorso 7 febbraio, il presidente USA Joe Biden chiariva, senza alcuna remora, “se la Russia invade (l’Ucraina) non ci sarà più Nord Stream 2. Noi ci metteremo fine”. Il destino del famigerato gasdotto è ormai arcinoto.
Oltre alle relazioni internazionali a essere fortemente influenzato è pure il dibattito interno. Se la sicurezza dell’approvvigionamento diviene rapidamente l’unica cosa che conta e soppianta la mitigazione della crisi climatica nelle priorità dei governi, appare assolutamente conseguenziale utilizzare GNL, che comporta emissioni in medie doppia rispetto al gas consumato fino ad oggi. O, ancora peggio dal punto di vista dei movimenti per la giustizia climatica, risulta accettabile aprire a un ritorno in grande stile del carbone, soprattutto in Italia e Germania, le cui economie dipendono di più dalle forniture di Gazprom, il principale distributore russo di energia.
È su questi temi che questa rubrica sulla democrazia energetica si svilupperà. E lo farà dialogando, attraverso analisi e interviste, con le persone impegnate a immaginarla e costruirla concretamente, anche opponendosi a sistemi energetici causa di sfruttamento, disparità ed esclusione.
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